Frutta Cosmopolita
La storia del commercio ha fatto del Mondo un vero e proprio orto botanico, in cui molte specie vegetali hanno acquisito molteplici cittadinanze. Basti pensare alla ‘’carta d’identità’’ di numerosi prodotti tipici italiani, quali pomodori, melanzane o agrumi. Se pensiamo alla Sicilia, avremmo a che fare con rinomati prodotti tipici come i fichi d’India, alcuni addirittura marchiati DOP e IGP quali le arance di Ribera, le arance rosse o ancora i limoni di Messina. I primi, per esempio, provengono dal centroamerica, e diventano ‘’cittadini europei’’ solo dal 1500 in poi, in seguito al ritorno di Cristoforo Colombo dalla famosa spedizione. Arance e limoni invece, provengono dall’Asia, dove la coltivazione esiste da almeno 4000 anni, ma nel Vecchio Continente approdano e iniziano ad essere coltivati durante un periodo che va dall’epoca romana al 1500. Una carta d’identità simile a quella degli agrumi, appartiene ad un altro frutto, che sempre 4000 anni fa, inizia ad essere coltivato in India ma che, a differenza degli agrumi, si radica nei terreni agricoli Europei solamente mezzo millennio dopo: il mango. I frutteti che ospitano questa pianta fanno il loro ingresso nel bacino del Mediterraneo non prima degli anni ‘80. I primi luoghi ad ospitarli sono stati la Spagna e la Sicilia. Delle circa 160 cultivar (una ‘‘cultivar’’ è una tipologia di una data specie vegetale, l’equivalente della ‘’razza’’ per una specie animale, come vale per le varie razze dei cani), in Europa se ne coltivano solo qualche decina, che risultano più adatte al territorio e all’ambiente. Il mango è un frutto tropicale, e come tale aggettivo esplica, è tipico di quelle fasce climatiche comprese tra i tropici del Cancro e del Capricorno, zone meridionali del Pianeta, dove le temperature difficilmente scendono al di sotto dei 15°C. La Sicilia, storicamente, non si colloca certo in tale fascia climatica; tuttavia, negli ultimi decenni le temperature si sono alzate parecchio. Non è quindi un caso che la coltivazione di frutta tropicale abbia preso piede proprio qui, e solamente negli ultimi 25 anni. Le dinamiche ambientali e meteorologiche rendono quindi la Sicilia un hot spot dei cambiamenti climatici nel bacino del Mediterraneo, con risvolti interessanti sulle dinamiche territoriali come le produzioni agricole. Se numerose specie vegetali nel corso della storia, hanno potuto allargare la lista delle loro ‘’cittadinanze’’, è il caso di chiedersi se anche il mango, new entry nel panorama agricolo italiano, abbia le carte in regola per andare a diventare un componente della dieta mediterranea del futuro. Il percorso del mango italiano, inoltre, oltre ad essere legato a dinamiche commerciali, risulta utile anche per comprendere le prospettive sul clima mediterraneo, visto che la sua presenza è in qualche modo legata all’andamento delle temperature in aumento negli ultimi anni (per non dire secoli). Questo breve viaggio interroga due esponenti di questa attività agricola agli albori, un produttore ed un ricercatore, che contribuiscono a creare una panoramica del fenomeno, che tuttavia ha ancora molto da raccontare e da dare.
Un mangheto siciliano
Per comprendere come il mango si stia sempre più legando al territorio e al mercato italiano, bisogna prima di tutto comprendere le ragioni e le intenzioni dei coltivatori che per primi ne determinano la presenza. La prima persona che può aiutarci a comprendere il fenomeno si chiama Vincenzo Amata, che potremmo definire il ‘’sarto del mango’’. Il riferimento al mondo dell’abbigliamento funziona su due versanti: primo, ama definire il suo mango un ‘’prodotto sartoriale’’, in virtù del suo modus operandi da produttore particolarmente attento ai dettagli, dalla cura della pianta al packaging dei frutti. In secondo luogo, l’appellativo ‘’sarto del mango’’ si sposa bene con la sua carriera trentennale da agente di commercio nel mondo della moda. Quando lo chiamo in videoconferenza, Vincenzo si trova a Sant’Agata di Militello, costa settentrionale della Sicilia: questa cittadina costiera a metà strada tra Palermo e Messina, ospita un frutteto particolarmente produttivo, in cui possiamo trovare questi nuovi ‘’competitor’’ degli agrumi. Vincenzo si trova in un magazzino della sua Azienda, circondato di casse pronte ad ospitare e spedire i frutti prossimi alla raccolta, che avviene da agosto a novembre. Cosa induce un commerciante di abbigliamento, a volersi ‘’sporcare le mani’’ nell’agricoltura, peraltro di un prodotto così apparentemente distante dalle circostanze e dalle tradizioni rurali della sua Sicilia?
12 anni fa, in una strada di campagna, Vincenzo incrocia un contadino che sta trasportando dei frutti alquanto insoliti, così incuriosito gli chiede di poterli assaggiare. Questo è il suo primo incontro con il mango: i suoi sensi rimangono estasiati dal profumo ed il gusto dolce e tropicale della polpa; a rimanere estasiato però, è anche l’intuito imprenditoriale di Vincenzo, quando il contadino gli rivela che le sole 40 piante di mango che possiede, gli stanno rendendo ben 4 volte di più rispetto ai suoi agrumeti. All’epoca le circostanze lo avevano messo nelle condizioni di dover gestire un fondo di proprietà della moglie, ossia un malandato agrumeto di 8 ettari. Da questo incrocio di circostanze si prospetta una nuova strada, e Vincenzo capisce velocemente cosa deve fare: è tempo di restituire all’agricoltura le proverbiali ‘’braccia rubate’’. Ma all’epoca Vincenzo di agricoltura sapeva ben poco, figuriamoci di frutta tropicale. Cominciare è difficile, deve iniziare a farsi una cultura, così si appiglia al mezzo più accessibile a sua disposizione: internet. Consulta numerosi siti, forum, blog, e video-tutorial sulla coltivazione di frutta tropicale e di mango, principalmente in inglese o spagnolo. Il contadino che gli aveva fatto assaggiare il primo mango poi, gli aveva rivelato che collaborava da anni con l’Università di Palermo, in particolare con l’area di ricerca sulla frutticoltura tropicale guidata dal Professor Francesco Calabrese, di cui il futuro ‘’sarto del mango’’ inizia a consultare libri e manuali.
La teoria va ora affiancata dalla pratica, ma con prudenza. Inizialmente mette a dimora 400 piante, usando solo mezzo ettaro di terreno degli otto che ha a disposizione. Vincenzo sperimenta e impara sul campo, continuamente: la pianta cresce, si ammala, si brucia con il freddo, muore, fiorisce, produce. Passano le stagioni e Vincenzo continua a connubiare le nozioni teoriche degli esperti e dei libri, con le lezioni pratiche del lavoro sul campo. Vuole che la sua attività benefici del supporto all’Università di Palermo, e concede ai ricercatori di monitorare i frutteti, nei quali vengono installate centraline meteorologiche e svariati strumenti di misurazione dei parametri di coltivazione. Mi racconta che una mattina, si reca tra i filari del mangheto e trova parte delle sue piante in pessime condizioni, potremmo dire quasi in fin di vita: presentavano le foglie bruciate ed i rami in necrosi. Un’altra parte di alberi tuttavia, riparati da alcune reti, si presentavano ancora sani e perfettamente integri. Grazie alle centraline capisce che durante la nottata la temperatura era scesa a -1°C per circa un’ora: questo piccolo passaggio sotto lo zero, era bastato per creare danni permanenti. Capisce che le reti che coprivano gli alberi ‘’salvi’’, avevano impedito al gelo di aderire direttamente sulla superfice delle piante danneggiandole, così aggiusta il tiro per l’anno successivo investendo nell’espansione delle proprie coperture antigelo. Di ‘’lezioni’’ come queste ne ha ricevute tante, sacrificando piante e raccolti a causa di errori inevitabili dai quali però ha sempre cercato di imparare. Vincenzo vuole spiegare il proprio sentirsi ‘’contadino evoluto’’. Il 2022 e gli anni a venire non consentono un approccio produttivo ‘’convenzionale’’, che pur poteva funzionare nei decenni precedenti. Bisogna fare i conti con l’ambiente circostante, dalle escursioni termiche annuali, agli eventi meteorologici estremi, a nuovi agenti patogeni e malattie. ‘’La pianta è come un bambino sordomuto’’ dice Vincenzo, bisogna imparare ad interpretarne le richieste, ‘’una persona non può avere una dieta composta da un solo alimento, avrà degli scompensi, è così che bisogna approcciare la pianta, non va bene proporre sempre il solito menù azoto-fosforo-potassio’’. Ci tiene a far capire come la coltivazione di frutta tropicale in Italia sia un campo di conoscenze ‘’work in progress’’, tanto per i contadini quanto per gli agronomi.
Mango Italiano nel campo, ma non a tavola
Nel frutteto di Vincenzo sono oggi presenti circa 2400 piante di mango e 600 di avocado, di cui si prende personalmente cura insieme a quattro collaboratori; il prodotto viene poi venduto con il marchio ‘’Papamango’’, nome del brand fondato da Vincenzo. Forte del suo modus operandi, racconta orgogliosamente i risultati del proprio lavoro: Il sapore ed il profumo del ‘’Papamango’’ rimandano ad atmosfere tropicali, ‘’diventi mango-dipendente’’ dice lui da buon commerciante. I dati, comunque, non gli danno torto: se i manghi normalmente presenti nei supermercati costano in media dai 2,5 ai 5 euro al chilo (importati solitamente da Perù o Brasile), Il mango di Vincenzo lo si può trovare al dettaglio anche al doppio del prezzo. Tutto ciò che produce (circa 35.000/40.000 chili all’anno) trova immediatamente sbocchi di vendita: parte del ‘’Papamango’’ è destinata ad alcuni famosi chef italiani, oltre che ad alcune rinomate gelaterie gourmet di Emilia-Romagna e Toscana; tuttavia, la maggior parte dei frutti serve a rifornire rivenditori e grossisti, i quali, stando alle sue parole, non avrebbero problemi a distribuire anche il doppio della quantità a 10 euro al chilo. Secondo alcune stime la richiesta di mango italiano è talmente alta che la produzione totale della Sicilia riuscirà a colmarla, forse, solo nel 2035. Ma come può un comune cittadino assaggiare questi nuovi frutti autoctoni? Se oggi si passa tra gli scaffali di frutta tropicale dei supermercati italiani, sarà estremamente difficile, per non dire impossibile, trovare un mango che arrivi da terreni italiani. Le ragioni sono principalmente due: Il prezzo e la disponibilità. Vincenzo ne produce circa 40 tonnellate all’anno da 5 ettari di terreno. Facendo una stima grossolana, un ettaro di ‘’Papamango’’ produce circa 8 tonnellate di frutta all’anno (dipende in ogni caso dal numero di piante, dal modo in cui le si coltiva e da possibili condizioni climatiche favorevoli o deleterie). In ogni caso, considerando che in Sicilia si stimano 100-200 ettari di terreno coltivato a frutta tropicale, anche nella migliore delle ipotesi, in cui ogni ettaro riuscisse a garantire anche 8-10 tonnellate di prodotto, avremmo che la produzione annuale dell’Isola ammonterebbe a circa 1600-2000 tonnellate di manghi, un volume quasi 10 volte inferiore a quello delle importazioni italiane del mango sudamericano, che si attesta invece a circa 15.000 tonnellate l’anno (dati ISMEA 2021); non a caso è quest’ ultimo a farla da padrone all’interno dei supermercati ed ipermercati italiani. I terreni Nazionali hanno il potenziale per produrre dei frutti che, come vedremo successivamente, si piazzano ad un livello qualitativo e salutistico molto più elevato rispetto ai competitori sudamericani; tuttavia i 10 euro al chilo e i numeri di produzione relativamente insufficienti per soddisfare i requisiti della Grande Distribuzione Organizzata (Conad, Coop, Eurospin, Esselunga, Pam-Panorama, ecc.) creano una barriera di accesso per molti cittadini. Tuttavia – sempre secondo ISMEA – la frutta esotica copre una fetta pari al 3% del valore economico del mercato ortofrutticolo italiano e solo dell’1,1% in termini di quantità (tonnellate). Gli italiani non mostrano ancora un elevato interesse verso il mango, dunque, ma preferiscono di gran lunga le più tradizionali mele, banane (che vengono comunque importate) e pesche che da sole dominano circa metà del mercato della frutta, e sono accessibili ai classici 2-3 euro al chilo. Il futuro di un ‘’nuovo prodotto tipico’’ sta forse gettando le sue basi, tuttavia, la capacità di gestire la cosa dipende dal fattore umano, poiché a produttori che, come Vincenzo, esplorano questa nuova coltivazione con il supporto delle Università, si affiancano altri. produttori improvvisati, distanti dal supporto della ricerca. La paura di Vincenzo è che si solidifichi l’attuale clima di ‘’far west del mango’’, dove a fare da fulcro sarà il prezzo a ribasso dei frutti coltivati con un approccio dozzinale e meno attento, inevitabilmente di minor qualità, dei produttori italiani attirati dal richiamo dei ‘’10 euro al chilo’’. Vincenzo, si augura due prospettive: per prima cosa, l’istituzione di un consorzio della frutta tropicale, che promuova degli standard produttivi, qualitativi e di prezzo. Seconda cosa, vuol fare appello a tutti quei giovani siciliani che possono disporre di terreni in disuso per eredità o per possibilità economiche, e che non se ne stanno prendendo cura. È infastidito dalla miopia di fronte alla carriera dell’agricoltura moderna, in grado di generare da un lato un ottimo reddito, dall’altro la rivitalizzazione di pezzi di Sicilia trascurati. Per ora quindi, di lavoro da fare ce n’è ancora molto. Lungi dal partecipare all’immaginario dei prodotti agroalimentari tipici italiani, il mango rimane da un lato, un circoscritto campo di studi agronomici e ambientali, dall’altro, una piccola ‘’gallina dalle uova d’oro’’, ancora difficile da allevare nel ‘’pollaio’’ della Sicilia.
Il mango degli scienziati
Per comprendere meglio il corso del mango siciliano, le sue implicazioni sulla dieta mediterranea e i rapporti con l’ambiente del futuro, bisogna tuttavia rivolgersi alla Ricerca, che si sforza da anni di affiancare e monitorare il fenomeno. La migliore consulenza scientifica in Italia non può che arrivare dalle Università della Sicilia, le più vicine ai terreni che ospitano il grosso della produzione italiana. Uno degli esponenti principali a cui rivolgersi è certamente il professore e ricercatore Vittorio Farina, docente di frutticultura tropicale all’Università di Palermo, nonché attuale coordinatore del gruppo di lavoro sulla frutta tropicale e subtropicale della ‘’SOI’’, Società Italiana di Orto-Frutticultura. Il Prof. Farina è l’erede culturale del professore Francesco Calabrese, pioniere della ricerca sul tropicale italiano, l’autore dei libri e manuali già consultati dal ‘’sarto del Papamango’’ all’inizio della sua carriera. Mi collego con il Professore mentre si trova nel suo ufficio a Palermo. Inizia con lo spiegare che la ricerca sul tropicale italiano funziona su due versanti: da un lato lo studio delle condizioni macro- e micro-climatiche dell’isola, come spunto per proiezioni e modelli di tutta l’area Mediterranea; dall’altro lato il supporto agronomico utile alla produzione e quindi all’economia locale e nazionale. Il professor Farina spiega che attualmente sono 15 le aziende produttrici di mango che collaborano con l’Università di Palermo, inglobando centraline di monitoraggio climatico, tecnologie di micro-irrigazione e nutrizione moderne, e che ospitano durante l’anno gli studenti del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali dell’Università di Palermo, nonché vari ricercatori professionisti. La ricerca mira a comprendere i nuovi rapporti tra piante e territorio, studiando per esempio i migliori tipi di humus, i nuovi patogeni o le migliori combinazioni di nutrienti. In questo senso, il tropicale italiano è un campo che potremmo definire ancora pionieristico.
Cosa può dire la scienza sullo stato del mango italiano? È destinato a soppiantare gli ormai svalutati agrumi che i produttori non riescono a vendere oltre l’euro al chilo? È destinato a rimanere un prodotto di nicchia? È l’indice di una serie di grandi cambiamenti della nostra dieta dovuti ai cambiamenti climatici? La qualità di cui si vanta il ‘’Papamango’’ e altri brand simili è reale o solamente frutto del marketing?
Per rispondere a tali domande, il professor Farina illustra alcuni dei suoi studi più recenti sul mango mediterraneo. Gli studi comparativi tra manghi italiani e manghi sudamericani di importazione sono particolarmente interessanti poiché mettono nero su bianco delle differenze che si riflettono drasticamente su ciò che, alla fine della fiera, dovremmo mangiarci. Anticipazione: il prodotto italiano, si presenta come vincitore a mani basse del confronto. I frutti sudamericani destinati ai mercati europei vengono raccolti prematuramente per ‘’allungarne la vita’’ in vista di viaggi della durata di circa due settimane e della successiva permanenza negli scaffali e nelle case dei consumatori. In questi viaggi transoceanici, in cui vengono ‘’scalate’’ numerose latitudini, per esempio dal Brasile all’Olanda, i frutti rischiano di danneggiarsi ulteriormente a causa di urti e sbalzi termici. La raccolta prematura, e l’eventuale somministrazione di prodotti che ne rallentano la ‘’respirazione’’, se da un lato garantiscono ai frutti di non marcire ed arrivare in Europa ad un grado di maturazione ‘’ready-to-eat’’, dall’altro limitano fortemente la qualità del frutto in questione. Si nota come i manghi importati contengono quantità di sostanze solubili (zuccheri, vitamine, composti
fenolici dalla salutare azione antiossidante) di lunga inferiori ai ‘’rivali’’ italiani. Questi ultimi sono molto più ricchi di micronutrienti, sono più dolci e hanno una consistenza più soda rispetto ai rivali che generalmente si presentano o troppo duri e aciduli, o troppo acquosi e dalla polpa filamentosa. La qualità di frutti italiani non deriva tanto dalla cultivar di riferimento, che può anche essere la medesima dei sudamericani, ma deriva dal fatto che si inseriscono in una filiera produttiva più corta. Di certo un mango raccolto al giusto grado di maturazione in Brasile, sarà buono tanto quanto un altro similmente raccolto in Sicilia. Il problema è che non è possibile rispettare queste condizioni se il brasiliano è destinato ad Amsterdam, Roma o Monaco di Baviera. Il frutto italiano, destinato a tali città invece, può concedersi il lusso di rimanere attaccato al proprio albero per molti più giorni, nella tranquillità di ‘’casa sua’’, esposto alla luce del sole, avendo il tempo per arricchirsi maggiormente di vitamine ed altri micronutrienti, oltre che a rimanere sotto il controllo e le cure dai suoi coltivatori. Non viene certamente sottoposto agli stress che derivano da 15 giorni di spostamenti tra casse e container e cambi continui dei livelli di umidità e di qualità dell’aria. Se da un lato, sono i test sui parametri fisio-chimici a premiare con la medaglia d’oro i manghi italiani, dall’altro, è molto interessante verificare concretamente cosa succede quando un comune cittadino-consumatore si trova a poter assaggiare i due frutti cugini. Anche in questo caso, gli studi effettuati su campioni dell’ordine delle centinaia di partecipanti, danno lo stesso esito. Il sapore, l’odore e la sensazione al tatto, rendono i manghi nazionali più appetibili. Addirittura, capita che i prodotti esteri vengano ritenuti sgradevoli, con la presenza di sapori alquanto acri, con accenti di medicinale o di salsedine. Il mango italiano avrebbe quindi un ottimo curriculum per entrare nella composizione della futura dieta mediterranea, sicuramente un prodotto che grazie alla filiera corta in cui è inserito, oltre ad essere buono, sarebbe un grande alleato della salute.
Il mango del cambiamento climatico
Ma i territori italiani sono in grado garantire le stesse quantità che garantisce l’importazione? Purtroppo, la questione non è così semplice. Innanzitutto, spiega il professor Farina, non è esatto considerare la Sicilia nella sua interezza come ‘’l’isola del Mango’’. Gli studi in materia riconfermano da almeno tre decenni lo stesso pronostico: la ‘’Sicilia del Mango’’ è prevalentemente quella compresa tra le province di Messina e Trapani, quindi la costa Nord, tra le pendici dei monti Nebrodi e il vento del Mar Tirreno. Il potenziale produttivo legato al mango è limitato ai microclimi di tali aree. Le aziende monitorate dall’Università, che per questo motivo possono assicurare una produzione di qualità, sono solo una quindicina. Il resto delle aziende che si colloca in terreni potenzialmente meno vocati non garantisce una produzione ingente, e nemmeno di qualità. Al richiamo dei famosi ‘’10 euro al chilo’’, il Prof mi spiega come i frutteti di mango si siano diffusi a macchia d’olio (e non solo in Sicilia, ma anche in Calabria, Puglia e Sardegna). Purtroppo, in molti di questi casi, la produzione è difficile e spesso le piante si ammalano o si bruciano, perché non sono rispettati i parametri territoriali e climatici di cui il mango ha bisogno. Manca un know how generale, frutto anche della relativa novità del fenomeno. La Sicilia degli ultimi anni vede temperature che sforano i quaranta gradi in estate e precipitano sotto lo zero di inverno, oltre ad eventi climatici estremi quali tempeste e grandinate, periodi di siccità o incendi. Se da un lato la comparsa del mango e le relative possibilità economiche nel territorio italiano sono legate indissolubilmente ai cambiamenti climatici in corso negli ultimi decenni, dall’altro, gli stessi cambiamenti sono il principale ‘’bastone fra le ruote’’ per l’avvenire di questa new entry, oltre che per tutti gli altri prodotti agricoli. Anche Vincenzo Amata, che coltiva in un territorio particolarmente vocato e monitorato, ha dovuto subire eventi meteorologici che hanno più volte compromesso piante e quintali di raccolto. La vicenda del mango italiano riflette quindi l’immagine di una Sicilia che si confronta con i grandi cambiamenti in corso, con uno spirito di adattamento resiliente, cercando di mantenere vivo il rapporto con il territorio e con l’economia dello stesso, che sempre più rischia di essere abbandonato a causa dei poco redditizi agrumi. I nuovi agricoltori capiscono che i terreni possono restituire frutti di ottima qualità nutraceutica e organolettica, che si vendono ad un ottimo prezzo, ma hanno un forte bisogno di comunicare e rafforzare la propria presenza. Dall’altro lato il contesto ampio di questa breve storia fa riflettere sul fatto che il cambiamento climatico non significa semplicemente cambiare la proposta alimentare sostituendo prodotti poco consoni a temperature tropicali ad altri che lo sono, ma significa prendere atto che tali condizioni, come un boomerang, tornano indietro pericolosamente e velocemente sotto forma di grandi difficoltà produttive. Il mango italiano potrebbe essere destinato ad un futuro lungo e glorioso, tanto quanto ad un’esistenza effimera, un decorso breve dovuto al repentino ed imprevedibile mutare degli eventi climatici. Ma Il rischio di inserire queste storie di vita quotidiana nel contesto dei cambiamenti climatici è quello di rimandare ad immaginari talmente ampi da risultare troppo distanti, inafferrabili, disincentivando gli sforzi per sentirsi concretamente parte della storia in corso. Ma per fortuna, questa breve vicenda in corso d’opera, può restituire una piccola e utile lezione: il prodotto agricolo italiano, poiché inserito in una filiera corta dal campo allo scaffale, oltre a favorire l’economia del Territorio, garantisce una qualità e un contenuto di sostanze micronutrienti alleate della salute che i prodotti importati difficilmente riescono ad eguagliare, e ovviamente il discorso non si applica solo al mango, ma anche a tutti gli altri prodotti.