Invasi dagli alieni

I parrocchetti: una specie aliena che ha conquistato Roma

Entrando nella home di Facebook e indirizzando il motore di ricerca alla parola “parrocchetti”, si troveranno decine di gruppi a questi dedicati. Numerosi utenti amano condividere quelli che sono i loro animali da compagnia insieme ad altre persone, scambiarsi vicendevolmente consigli sull’allevamento e sull’alimentazione dei pappagalli o semplicemente mostrare agli altri la particolarità e la bellezza dei loro nuovi “amici”. Sono tantissime infatti le specie di parrocchetti, monaco e dal collare, presenti in Italia e in altre città europee, tanto da diventare molto spesso dei veri e propri animali domestici. Questi sono i famosi pappagalli verdi che, per chi abita a Roma, è impossibile non aver avvistato almeno una volta sugli alberi, in giro per le strade o per una loro amichevole visita sul balcone di casa. Sono animali ormai perfettamente inseriti nel contesto urbano della capitale italiana, tanto da non destare più tanta sorpresa agli occhi dei passanti. Eppure, poco più di una decina di anni fa, questi animali erano considerati una vera e propria eccezione nel contesto cittadino. I parrocchetti sono infatti specie “aliene”, provenienti da diverse aree del globo: i “monaco” sono tipici del Sud America, mentre quelli “dal collare” tipici di altri continenti come l’Africa e l’Asia. Il loro becco ci consente di distinguerli: in quelli dal collare presenterà una colorazione più rossiccia.

​Com’è stato possibile, pertanto, per degli uccelli provenienti da aeree distanti, quasi opposte del globo, e abituati a climi per lo più tropicali, a giungere e stabilizzarsi in una città come Roma?

Storia di colonizzazione

Corrado Battisti, naturalista e professore di ecologia applicata all’università di Roma Tre, conduce da tempo studi su uccelli come il parrocchetto e le loro implicazioni con il territorio. Ci incontriamo in un’aula del dipartimento di ecologia, dove aiuta una laureanda con la sua tesi sull’impatto delle nutrie, ci incamminiamo verso il parchetto adiacente all’università e iniziamo a parlare. «Non c’è dubbio – afferma – che questi animali si siano stabiliti in un contesto così distante da quello di origine attraverso il commercio e l’allevamento privato». Attraverso l’importazione di centinaia di migliaia di pappagalli, infatti, è stato poi possibile per questi giungere in Europa. Una buona parte è riuscita a fuggire e dirigersi verso la città e, così, tutto ebbe inizio. È una vera e propria colonizzazione: un ampio traffico che riguarda tutta l’Europa, in grandi centri come Milano, Madrid, Londra, Copenaghen. Come spiega Battisti, il fenomeno non è circoscritto ai soli pappagalli, anzi, è ampiamente diffuso per moltissimi altri uccelli ed animali, ad esempio i canarini. Tuttavia, ciò che li distingue è che questi ultimi provengono da ambienti totalmente differenti e non riescono a sopravvivere ai rigidi inverni europei. I parrocchetti, invece, sono tra le specie più adattabili al mondo e si riproducono con molta facilità, anche se, allo stesso modo, il loro iniziale adattamento in città non è stato dei più semplici. I primi nuclei di pappagalli sono stati registrati nei primi anni Novanta e per dieci o quindici anni sono rimasti in piccoli gruppi. Secondo Battisti, ad operare, inizialmente, è stata una selezione di tipo climatico: il nuovo clima non corrispondeva al loro ambiente abituale. C’è stato, però, una sorta di effetto soglia: in contrasto con i fattori di crescita demografica, ad un certo punto, i fattori selettivi non sono più riusciti ad influire in modo determinante sulla popolazione. In altre parole, sono animali dalla grande resistenza. Da lì, la curva è salita in modo esponenziale e, ormai, entrambe le specie di parrocchetto hanno raggiunto una potente base numerica all’interno di un territorio a loro alieno. Nella selezione, non hanno invece operato fattori di tipo biologico, non essendoci in città alte probabilità di incontrare predatori. Occasionalmente, è stato visto che cornacchie o ratti riuscissero ad invadere i loro nidi, ma i parrocchetti hanno dei comportamenti difensivi molto particolari. Sono delle specie gregarie: quindi, «fanno bande, lo chiamano addirittura “bullismo”. Si concentrano in gruppi di tanti individui e insieme attaccano un solo animale, un predatore. In tanti contro uno, come nella logica dei bulli», racconta il professore. Questo consente loro di impadronirsi facilmente dei luoghi che colonizzano, che nelle città sono principalmente parchi e aree verdi. Ciò caratterizza anche la loro modalità di nidificare all’interno di queste zone urbane. Il parrocchetto monaco crea dei veri e propri nidi coloniali, dalle proporzioni gigantesche, sfruttando alberi dai rami resistenti, capaci di ospitarli. Quello dal collare è invece solito inserirsi nelle piccole cavità degli alberi, in gruppi familiari o di due, ma sempre posti in prossimità delle altre cavità, creando allo stesso modo una rete collettiva e protettiva. Arrivano in branco e si prendono ciò a cui hanno puntato, causando diversi problemi ad altre specie. In una ricerca condotta da Corrado Battisti e Giuseppe Dodaro, si cita il caso degli storni. Per un periodo, negli ultimi anni, gli storni erano diventati dominanti, grazie alla loro capacità di costruire dei grandi dormitori all’interno di cavità presenti in aree come la stazione Termini o il quartiere Prati. Sembrava una specie vincente in città. Se negli anni Ottanta lo storno era predominante, tra gli anni Novanta e il Duemila, il pappagallo è entrato in concorrenza con lui. È stato visto come i pappagalli (soprattutto i parrocchetti dal collare) costringano gli storni a scegliere cavità più basse, esponendoli maggiormente al rischio di predazione. Quello della competizione con altre specie è solo uno dei diversi problemi che tale invasione ha comportato e sta comportando all’interno del nuovo areale di colonizzazione.

Quali sono, però, le responsabilità dell’uomo in tutto questo?

Parrocchetti dal collare nelle cavità di una chiesa romana. © Margherita Coletta.

“Un tempo era tutta campagna”

Quando si parla di fauna urbana, si fa riferimento all’insieme delle specie animali che vivono in città. In questo complesso vengono inserite sia le specie zoogeograficamente proprie dell’area considerata, sia le specie alloctone o aliene, ossia quelle specie che, a causa dell’azione umana, si trovano ad abitare un territorio che differisce dal proprio areale storico. Animali come il parrocchetto fanno parte di quest’ultima tipologia e, vivendo in completa simbiosi con il contesto cittadino, sono considerate specie pienamente sinantropiche, vale a dire specie selvatiche attratte da ambienti alterati dall’uomo (come, appunto, un centro abitato) e dai benefici che possono trarre da questi luoghi, quali la più facile reperibilità di cibo e l’assenza di predatori. Negli ultimi decenni, un numero significativo di animali selvatici ha iniziato a colonizzare spazi propriamente urbani. La collisione del parrocchetto con le città europee, abbiamo detto non essere stata, però, così spontanea. «I parrocchetti sono un danno collaterale causato dall’uomo» afferma Francesca Manzia, responsabile del Centro Recupero Fauna Selvatica della Lipu, situato all’interno del parco di Villa Borghese di Roma. Il loro traffico da altri continenti e il loro successivo rilascio nell’ambiente vede l’uomo come la causa principale di questo nuovo connubio tra l’avifauna e le metropoli, che, altrimenti, non sarebbe stato possibile. Roma, inoltre, è una città molto ricca: il verde si fonde e spunta tra i suoi palazzi e il fiume rappresenta un prezioso corridoio naturale per tanti animali. Riuscire ad adattarsi qui può rappresentare una nuova opportunità per animali provenienti da contesti differenti. Il problema di fondo risiede, però, nell’eccessiva presenza delle città, soprattutto per una così estesa come Roma. C’è un’urbanizzazione diffusa del territorio circostante l’area urbana e questa modifica sembra avere un ritmo costante, a tratti incessante. Tale ingrandimento può portare all’espansione di nuovi corridoi anche al di fuori di essa.

Francesca Manzia © Margherita Coletta
Centro Recupero Fauna Salvatica, Lipu, Roma. © Margherita Coletta

L’impatto dei parrocchetti si sta infatti riversando su frutteti e colture esterne all’ambiente urbano. Gli studi del professor Battisti mostrano come l’impatto da ecologico stia diventando sempre più economico, attraverso una delocalizzazione di questi uccelli dalle zone urbane a quelle periurbane, che può comportare dei seri danni all’agricoltura. Francesca Manzia evidenzia, inoltre, come tali cambiamenti possono favorire alcune specie e penalizzarne altre: «se gestiamo il territorio in questo modo, avremo degli animali opportunisti e, dall’altra parte, non avremo più invece tutta una serie di animali che sono più sensibili. Non è che i piccoli uccelli stanno diminuendo perché ora ci sono delle specie invasive, ma perché l’ambiente urbano, ormai modificato, non è più adatto a contenerli». E continua: «ad esempio, l’erbaccia, che è considerata quasi come un demonio dai condòmini, in realtà è il cibo di cardellini, verzellini, verdoni. Se non ce l’abbiamo, non abbiamo più neanche gli animali che la sfrutterebbero. In città, a Roma e in tutti gli ambiti dove l’uomo trasforma il territorio, ci sono gli animali che uno si merita». Con la trasformazione dell’ambiente, solo alcuni animali potranno essere ospitati e la biodiversità rischierà di perdersi. Nella storia dei parrocchetti, la narrazione si complica ancora di più. Il danno collaterale a cui allude Manzia riguarda, infatti, tutto un traffico che caratterizza il commercio di animali e che, se carenti di una buona educazione del cittadino, può aumentare, forte dell’inconsapevolezza e irresponsabilità delle persone.

Il cittadino

Il buon rapporto tra i parrocchetti e i cittadini ha infatti favorito ulteriormente il loro inserimento nel contesto urbano. Dopotutto, è innegabile: con la bellezza delle loro piume dal verde vivace e la particolarità delle loro ali, non possono non suscitare simpatia agli occhi di chi li guarda. Il fatto che siano facilmente addomesticabili è un ulteriore elemento del loro successo, motivo per cui vengono commerciati. Se vengono favorevolmente accettati dalle persone e in più vengono allevati da loro, non potranno che diffondersi più facilmente. Il problema è che, spesso, non tutti sono bene a conoscenza dei comportamenti da avere con un animale e, specialmente, con specie aliene come il parrocchetto. I canali di vendita, inoltre, negli anni si sono trasformati, raggiungendo piattaforme digitali e social media e semplificando ancora di più la diffusione e l’acquisto di un animale. Massimo, ad esempio, è un uomo di 56 anni che tiene da tempo un piccolo parrocchetto all’interno di una gabbia posta nel salone della sua casa, nella periferia di Roma. Lo adora, si diverte a farlo giocare, ad addestrarlo e coccolarlo ogni tanto con piccoli pezzi di frutta. Ha comprato il suo «nuovo amico» da un venditore online, che voleva dar via uno dei suoi due parrocchetti “domestici”. Questo si chiama Alberto, ormai sono amici e si scambiano consigli sull’addestramento e l’alimentazione dei loro pappagalli. Alberto ha preso a sua volta i due parrocchetti da un altro venditore online, più pratico del mestiere. Ogni anno, specialmente nei periodi più caldi, quest’ultimo vende infatti diversi parrocchetti attraverso siti in cui pubblica i suoi annunci. Ha addestrato tutti i suoi pappagalli a comando e fanno «qualsiasi cosa» lui gli dica. Precisa che non possono scappare, perché le gabbie sono buone e resistenti e, qualora venissero liberati in casa, ogni porta e ogni finestra dovrà essere precedentemente chiusa. Tali dinamiche si ripercuotono con un effetto a catena su decine e decine di siti online o di gruppi social, in cui la vendita e il successivo mantenimento dell’animale in casa vengono effettuati in modo molto spesso poco accorto da parte delle persone. Andrea Brutti, responsabile dell’ufficio tutela fauna dell’Enpa, afferma che su tutto questo settore il cittadino ha delle responsabilità molto importanti: «online si vende e circola di tutto e i controlli sono azzerati, con la scarsissima cognizione del cittadino quando prende un animale con sé. Accade spesso che molti, dopo aver tenuto per lungo tempo degli uccelli in gabbia, decidano di volersene liberare, spesso con un’idea fin troppo romantica e poetica».

Di fronte alle problematiche finora esposte, dunque, quali potrebbero essere le possibili soluzioni per far fronte alla colonizzazione del parrocchetto in città?

Parrocchetto dal collare, Roma. © Margherita Coletta.

Prevenire per non curare

Esiste un Regolamento dell’Unione Europea, il n. 1143 del 2004, recante disposizioni volte a prevenire e ridurre al minimo gli effetti negativi sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici causati dall’introduzione e diffusione di specie esotiche invasive. Uno dei suoi punti chiave prevede l’eradicazione rapida, ottenuta con misure letali e non, di tali specie. Francesca Manzia racconta di come in Inghilterra si stia procedendo verso la programmazione degli abbattimenti su animali come appunto il parrocchetto, perché hanno scoperto che la sua abbondante presenza penalizzava un altro uccello, autoctono. Secondo Manzia, questo in Inghilterra è più facile: «Hanno leggi diverse. Qui in Italia sarebbe praticamente impossibile, per tutte le questioni legate agli animalisti, anche se bisognerebbe pensare con una mente scientifica che ci direbbe che “se non facciamo questa cosa, perdiamo qualcos’altro”. Ormai, poi, sono talmente tanti che non si risolverebbe comunque il problema». Andrea Brutti dell’Enpa, una delle più grandi associazioni animaliste in Italia, a riguardo, è infatti categorico: «intervenire sugli animali in maniera fisica non è mai una strategia vincente. L’unica via, una volta che il problema si presenta, è la salvaguardia e la convivenza». Con un numero così diffuso come quello dei parrocchetti in città, l’unica cura possibile sembra essere la prevenzione. Naturalisti, professori, animalisti ed esperti sostengono tutti la necessità di una corretta educazione del cittadino sull’ambiente che lo circonda. I parrocchetti non sono la prima e non saranno certamente l’ultima specie invasiva che, a causa di modifiche ed azioni umane, ha dovuto adattarsi a nuovi contesti, non sempre così favorevoli. Dar da mangiare casualmente, allevare o liberare degli animali, sono azioni che possono causare seri danni all’ambiente che ci circonda. Costruire e distruggere aree verdi per far di ogni area incontaminata una zona urbana, sono azioni che hanno forti ripercussioni sul territorio e chi lo abita. La convivenza non può attuarsi positivamente se prima non è accompagnata da una forte consapevolezza delle proprie azioni. Soltanto così il territorio e i suoi animali, spesso così diversi e distanti da noi, come può esserlo una creatura alata, potranno essere pienamente rispettati.