Una volta ottenuti i documenti, le lacrime che i richiedenti asilo del campo di Nea Kavala versano non sono solo lacrime di gioia. Sono anche le lacrime di chi, lasciando il campo, lascia compagni di viaggio, amici, componenti della propria famiglia. Qui, in questo angolo sperduto, grazie a persone come Salam, mi sono ricordato di come le relazioni senza secondi fini siano una parte essenziale della nostra esistenza.
La mia strada interseca quella di Salam a Polykastro, un paesetto a ridosso delle remote colline che separano Grecia e Macedonia, tra cani randagi, auto ridotte a rottami ed edifici diroccati. Ci siamo incontrati un anno fa, forse per caso, forse per inevitabile necessità. Per Salam, Polykastro è solo una delle tante tappe di un lungo viaggio; a ben vedere lo è anche per me, ma le ragioni che ci portano qui sono diverse. Io sono un volontario, inserito in un progetto europeo, e lavoro con un’associazione non governativa, Open Cultural Center. L’associazione nasce in supporto ai richiedenti asilo collocati nello sterminato campo di Nea Kavala. Si trova a quattro chilometri da Polykastro, nel mezzo di una radura desolata dove il vento imperversa senza tregua, ben nascosto, come ogni campo del suo genere, agli occhi pudici dei più. O.C.C. fornisce lezioni di inglese e altre lingue, a seconda della provenienza dei volontari. Il tedesco è la lingua più gettonata; in Grecia non vuole rimanerci nessuno, e Salam non è un’eccezione. Ma chi è Salam e che ci fa qui?
Salam è un ragazzo che, come tanti, ha raccolto i ricordi e se ne è andato. Il suo viaggio ha inizio ad Afrin, piccola città tra le montagne del Kurdistan siriano, nella regione del Rojava. Insieme ai quattro fratelli e ad un gruppo di amici parte nel 2012, a quindici anni, quando, agli albori della guerra civile siriana, l’esercito regolare di Bashar Al Assad si ritira dal cantone di Afrin così come da tutto il Rojava, lasciando spazio all’esperienza curda del confederalismo democratico e alle milizie popolari YPG. lo stesso anno Salam giunge a Istanbul, in Turchia. Trova lavoro come sarto nella fabbrica tessile di una multinazionale, gli orari sono massacranti, l’integrazione è difficile, la discriminazione una cruda quotidianità. Si trova così risucchiato in una comunità di un centinaio di persone, ghettizzato e alienato nell’ordinaria monotonia della periferia industriale, in cui ogni giorno è uguale all’altro. “You didn’t know what you wanted from your life, nothing was exciting about it. It was just work, pay your rent, drink, and work again”, mi dice.
Alla noia, trova una soluzione tanto nociva quanto prevedibile. L’abuso di sostanze è dietro l’angolo, e ci sprofonda per tre lunghi anni di ansie, angosce e malessere. La droga prediletta è la “spiece”, molto popolare a quel tempo: è un mix di erbe sintetiche i cui effetti sono simili a quelli della marijuana, ma molto più intensi ed accentuati, così come gli effetti indesiderati. Salam si ammala, non mangia. Per un mese è costretto a letto, in preda all’inquietudine, prende farmaci. Finalmente si riprende.
Abbandona la “spiece” e prende nuovamente forma il progetto di varcare il confine europeo, proposito mai dimenticato ma accantonato per la dipendenza e per l’inerzia della vita. Della famiglia, il primo ad arrivare in Europa è il fratello maggiore, il quale, dopo un periodo di lavoro, come in una staffetta, invia del denaro al fratello minore per affrontare la traversata. Il turno di Salam arriva a maggio del 2017. Parte da Izmir, a bordo di una delle tante imbarcazioni di fortuna che solcano l’Egeo, messe a disposizione da trafficanti senza scrupoli. Sono in 68, di cui molti minori. Quello che ora comincia, una volta levati gli ormeggi, è un cinico e spietato gioco alla roulette: si può giungere a destinazione o si può prendere parte alla lunga lista dei morti in mare, che nel 2017 conta 3000 vittime. Salam è fortunato, così come i suoi compagni di viaggio. La barca attracca a Chios, un’isola greca a un centinaio di chilometri da Izmir; ce l’ha fatta, la terra europea che ha tanto sognato è sotto ai suoi piedi.
Comincia così il lento iter per il riconoscimento della protezione internazionale. Dopo 26 giorni in un campo di prima accoglienza, da Chios viene trasferito a Nea Kavala, a una settantina di chilometri a nord di Salonicco. Salam ricorda bene il momento in cui, scendendo dal bus, si ritrova in un’ampia piana isolata, così come ricorda gli sguardi persi dei suoi compagni di viaggio e la spontanea domanda che ne consegue: “Where the fuck are we?”. Il campo di Nea Kavala, al suo arrivo, non era l’agglomerato di container cintati da un alto muro di cemento che è oggi, ma solamente un ammasso di tende sparse alla rinfusa sulla vecchia pista di un aeroporto abbandonato. Le giornate sono interminabili, non c’è nulla da fare, si sta al telefono tutto il giorno, aspettando che qualcosa accada.
A questa noia soffocante cerca di dare una soluzione, o se non altro un mite riparo, Open Cultural Center. Salam ne viene a conoscenza, impara l’inglese, frequenta l’associazione e ne diviene parte attiva per tutto il periodo in cui è in corso la valutazione del suo status: ben un anno e cinque mesi. Nel 2018 ottiene finalmente i documenti, si sposta in Spagna dove vive per due anni, lavorando e conducendo una vita normale. Sente tuttavia la necessità pressante di ritornare in Grecia, di aiutare chi si trova a vivere le difficoltà che lui ha affrontato pochi anni prima. Dopo aver lavorato per numerose ONG prima a Samos e poi ad Atene e Lesbos, ritorna infine, come a chiudere un cerchio, a Polykastro. Ed è qui che io e Salam ci incontriamo.
Ricordo bene quando l’ho visto varcare per la prima volta la porta della Caffetteria, uno degli spazi comuni di Open Cultural Center. I lunghi ricci, la barba incolta, i polsi colmi di braccialetti, lo smalto nero sulle unghie. Salam è una di quelle persone che, quando entra in una stanza, la riempie: non è una presenza ingombrante o invadente, si sente solo che c’è. Diventiamo ben presto amici, familiarizzando al solito modo di chi proviene da due luoghi differenti, ovvero insegnandosi le più svariate imprecazioni nelle relative lingue. Infantile, forse, ma indubbiamente efficace. L’incontro con Salam è un’incredibile occasione di scoperta. Grazie a lui posso visitare, anche se solo con l’immaginazione, mondi a me sconosciuti; posso mettere in dubbio me stesso e il mio modo di vivere, la mia identità. Ma cos’è, per Salam, l’identità? Quando glielo chiedo mi risponde, senza esitazioni, che non gli interessa. Mi prende quasi in giro quando io, dal mio canto, sostengo che una parte della mia identità è legata a ciò che faccio, a ciò che mi piace e al ruolo sociale che mi trovo a ricoprire. Rimane in silenzio per alcuni attimi e poi, con un sorriso bonario, aggiunge: “I just identify as a human being, that’s it”. In quanto essere umano, ciò che ho davvero capito contare per Salam, sono le relazioni. Parlando della Syria, è alle persone che pensa, agli amici, alla famiglia. Ciò che c’è scritto sul suo passaporto, alla voce “nazionalità”, è solamente una serie di lettere che, tutt’al più, gli impedisce di aver accesso a molti luoghi del mondo. La Syria, senza gli affetti, “is just a piece of land”. Una terra che ha lasciato percorrendo quella che, ai miei occhi era, l’unica strada possibile. Se dal cielo sopra la mia testa non piovessero gocce d’acqua, ma bombe, non esiterei un’istante a raccogliere i miei cari e ad abbandonare quest’inferno. Salam, tuttavia, nella decisione di lasciare casa rivendica una certa indipendenza di giudizio, per me difficile da cogliere. Sostiene che per quanto ci si trovi in una situazione complicata c’è sempre più di una scelta: a distanza di anni non ha rimpianti, ne vede i lati migliori; non si è voltato indietro, perché “è così che doveva essere”. Tra le varie opzioni, ha affrontato l’unica strada veramente percorribile: quella indicata da Allah.
Salam è musulmano. Ammette di non essere il più ligio dei praticanti, ma la shari’a è per lui un immancabile pilastro, una guida che lo aiuta a seguire il sentiero che per lui è stato tracciato. Quando ne parliamo per la prima volta resto un po’stranito, vittima dell’infondata convinzione che i giovani vivano esclusivamente una realtà secolarizzata e che la fede abbia un odore stantìo, come quello degli anziani a cui inevitabilmente la associo. Ma mi sbaglio, e nel differenziare gli “stili” con cui ci approcciamo alla vita, la religione ha un ruolo centrale.
Quando gli chiedo cosa si aspetta dal futuro, che cosa vorrebbe, Salam mi dice che non ci pensa: non riesce a visualizzarlo e preferisce occuparsi dell’oggi e del domani, non di questo nebuloso avvenire che assume i contorni di un’entità metafisica. Mi sembra una visione naif, un po’ingenua. Glielo faccio presente, e di tutto punto mi risponde che se il futuro ha in serbo qualcosa di spiacevole, basterà trovarsi un qualche lavoro e le cose, con il tempo, si sistemeranno. Il tempo. Mi sembra che il tempo di Salam scorra in maniera differente dal mio: le lancette del suo orologio avanzano pacate, composte, a lunghi e lenti scatti. Quando si parla di scadenze, gli piace dire “if not this year, next year”. Salam non ha fretta, e per questo lo invidio. La sua vita è un divenire, la mia una performance.
Salam è sempre al posto giusto, al momento giusto. Io esito, nella perenne titubanza che, tra le infinite scelte possibili, abbia selezionato quella sbagliata. Sono certamente il solo e unico artefice del mio destino, ma al prezzo di essere braccato morbosamente dall’ombra sinistra dell’inadeguatezza, dell’insufficienza, del non abbastanza. Ombra che assume i tratti del più meticoloso dei critici: me stesso. È come se io e Salam fossimo sottoposti a pressioni differenti, sia dell’esterno che dall’interno. Gliene parlo, e ragionando sulla percezione di lavoro, mi dice, ancora una volta, che per lui sono le persone che contano; sentirsi a proprio agio nell’ambiente che lo circonda è un elemento irrinunciabile, indipendentemente dalla mansione che si trova a svolgere, che sia cucinare in un ostello in Spagna o insegnare l’inglese per una ONG in Grecia. È come se la vita fosse un videogioco, e io e Salam, alla schermata iniziale, avessimo scelto due modalità differenti. Lui ha optato per la “modalità relazioni”, dove l’unica cosa che importa sono le persone, la comunità, la condivisione. Io, invece, ho deciso per la “modalità competizione”: la vita è una corsa, non c’è tempo da perdere, non sono ammessi errori; e se le cose non vanno da programmi, alla porta si presenta puntuale un senso di colpa asfissiante, deprimente.
Forse a ben vedere, la nostra scelta non è stata così libera come mi piace pensare. Ci siamo semplicemente trovati in un mulinello vorticoso, e non ci resta che assecondarlo. Forse, a distinguerci, è l’ambizione. Al futuro penso spesso, chiedendomi se gli obiettivi che ho prefissato sono realizzabili o se sto volando troppo vicino al sole, rischiando che la mia parabola si esaurisca in mare, come quella di Icaro. Non ho mai creduto alla favola del talentuoso scrittore che, in preda all’estasi e all’ispirazione di chissà quale musa divina, scrive tutto d’un fiato il più brillante dei romanzi; piuttosto, alla base di un buon lavoro ci sono fatica, dedizione e tanta perseveranza, ed è questa la via che ho deciso di percorrere. Una via a cui non attribuisco l’unico compito di formarmi professionalmente, ma di permettermi di conoscere meglio me stesso e il mondo che mi circonda. Forse, però, un mezzo è possibile, e la strada volta a perseguire le proprie passioni non deve essere esclusivamente impervia e dissestata: perché non godersi, a tratti, quel bell’asfalto nero appena battuto. È questo che Salam mi ha insegnato. A Polykastro, la necessità di controllo e il comfort della mia solita vita sono stati rimpiazzati dallo sfacelo e dalle relazioni: in questo strano connubio vi era la chiave della serenità. Nel chiasso della Caffetteria, lo strepitio dei bambini che correvano da una parte all’altra sortiva un effetto paradossalmente calmante. La risata di Salam, tanto contagiosa quanto scrosciante, era un toccasana per l’anima. A volte le cose che abbiamo a portata di mano, quelle che diamo per scontate, sono le più significative. A volte, è meglio rallentare, alzare la testa e godersi il paesaggio.