Assomiglia più a un campus universitario che ad un accampamento temporaneo. Eppure, a dispetto dei numerosi servizi offerti, sono in pochi a voler progettare un futuro lontano dalla guerra, che persiste. Le donne e i loro figli vivono come sospesi, nell’attesa della chiamata che li riporterà indietro.
Nelle rigide notti di Žilina la bruma si posa sul paesaggio e si dilegua solo alle prime luci dell’alba. E dalla strada, il campo emerge dalla nebbia: un massiccio edificio degli anni Sessanta, in un quartiere che appare come in letargo, tra casette con le
finestre chiuse e giardini quasi abbandonati. Una donna è sulla sedia a rotelle e, assorta nei suoi pensieri, dà l’ultimo tiro ad una sigaretta per poi accendersene un’altra. È scappata dai bombardamenti russi, senza poter correre, e come tanti che hanno vissuto il terrore nei loro occhi, preferisce il silenzio alle parole. Dei bambini giocano sull’asfalto, un’anziana dall’aspetto molto curato li controlla a vista, mentre cerca di farmi alzare dai gradini ghiacciati dove mi sono appena seduta. Non conosco l’ucraino ma il tono della voce e i suoi gesti sono molto delicati e convincenti. Mi rendo conto che nell’edificio non ha sede solo il campo, ma anche delle aziende, i cui lavoratori entrano dalle stesse porte dalle quali escono i rifugiati. Una donna robusta, vestita con abbigliamento da neve, cammina spedita verso l’entrata, trasportando un carrello colmo di buste. Lo solleva con forza e scompare dietro le porte scorrevoli, senza guardare e salutare nessuno. Arriva Peter, uno dei volontari responsabili, ed insieme entriamo nell’edificio. Ci sono lunghi corridoi che mi ricordano le scenografie di Stanley Kubrick, come anche le pareti rosso magenta e la luce che illumina le scene più intense. Dai piani superiori proviene un silenzio quasi solenne: i rifugiati passano senza far rumore, come fantasmi, mentre al loro passaggio, la luce intermittente delle plafoniere si sostituisce a quella fosforescente del cartello “exit”.
Arriviamo al quinto piano, dove migliaia di profughi si erano accampati fino ad ottobre, prima di tornare in Ucraina o dirigersi verso altri Paesi; quelli che sono rimasti, invece, sono stati trasferiti nelle stanze in condivisione, ai piani inferiori. Peter è stato uno dei primi volontari ad arrivare. Ci tiene molto a dirmi che il campo gli ha insegnato molto, quanto siano importanti le cose scontate come un paio di scarpe – che nella normalità non sono nulla -, e di sapere che i propri cari stiano bene: “Provavano a chiamare parenti ed amici al telefono, ma continuavano a non rispondere.” Gli chiedo se abbia avuto dei momenti di crisi. “Dovevamo essere forti. Per noi ogni giorno era difficile e impegnato.” Ho come la sensazione che non riesca o non voglia raccontare tutto quello che ha provato – ha l’aspetto da duro con la camicia sbottonata e la barba folta, ma i suoi occhi non mentono, dicono di più. Mi mostra una base usata come appoggio, dove davano interrottamente informazioni ai rifugiati mentre, stremati, ne arrivavano altri e dovevano accoglierli. La polizia piantonava la stazione del treno e li avvisava quando arrivavano altre persone. Un volontario della Croce Rossa faceva la notte con Peter, dormivano su due brande vicine: dovevano essere pronti a rispondere al telefono anche alle due del mattino, numerando e aggiornando il numero dei letti disponibili. “Dovevamo farlo anche per aiutare le persone anziane che si alzavano per andare in bagno e non ritrovavano più il loro letto.” Il mio sguardo si fissa sulla tigre raffigurata su quasi tutti i cuscini del dormitorio, dà come l’idea di aver protetto quelle persone, almeno a livello inconscio. E mi rendo conto che questo posto è ancora pieno di storie fissate sulle pareti: dai disegni dei bambini agli scaffali della cucina, dove ci sono ancora i liofilizzati per neonati mentre la carta da parati inizia a scollarsi. E nelle stanze, dove sono riposti i giocattoli, le bambole hanno ancora i capelli scompigliati e i mobili sono tutti scarabocchiati.
Ci raggiunge Alexander, è uno dei rifugiati rimasti nelle stanze condivise ai piani inferiori. Indossa una felpa verde militare, che ricorda Zelensky nelle dirette tv e mentre ci spostiamo da una stanza all’altra, mi accorgo della sua piccola difficoltà a camminare, anche se ho l’impressione che non voglia mostrarla – procede più in fretta di tutti. Sul tavolo ci sono ancora i pennarelli e i libri di lingua slovacca. Nikita, il giovane volontario ed interprete che si è offerto di aiutarci, si siede di fronte ad Alexander. È molto alto e robusto e anche estremamente sensibile e modesto, indossa un maglione con la scritta “Merry Christmas” e, con gli occhi lucidi, chiede scusa se non traduce bene, ma in realtà sta facendo un ottimo lavoro. Proviene dalla Bielorussia, governata dal regime di Lukashenko, lui e suo fratello sono andati via. La madre è rimasta. Probabilmente è come tante altre madri che esortano i loro figli a partire, per renderli liberi invece di tenerli accanto a sé.
Alexander è fuggito da Zaporižžja. Con la moglie e la figlia diciassettenne ha viaggiato trentacinque ore, in treno e in autobus. “Il 24 febbraio è iniziata la guerra. Mi sentivo perso. Mia figlia stava molto male, e mia moglie continuava a chiedermi perché stessimo rimanendo quando potevamo fuggire”. Gli chiedo come sia riuscito ad oltrepassare il confine visto che ha quarant’anni e non potrebbe lasciare il paese. “Sono invalido e non posso partecipare alla guerra, ma se non lo fossi stato, non avrei comunque potuto combattere”, si ferma un momento per schiarirsi la voce, “io non posso uccidere le persone…” Alexander è dovuto rimanere dodici ore al confine, dovevano fare i controlli, vedere se i documenti dell’invalidità fossero veri. “Così mia moglie e mia figlia sono state le prime ad oltrepassare la frontiera di Vyšné Nemecké, e raggiungere Košice …quando ci siamo riuniti, le organizzazioni di volontariato ci hanno nominato il campo e siamo giunti fin qui.” Quando nomina Košice mi viene in mente Papa Francesco. L’aveva visitata qualche mese prima dell’invasione per incontrare la comunità Rom in quello che viene chiamato il più grande slum d’Europa: il distretto di Luník IX, dove tutto è in rovina e adulti e bambini vivono in condizioni di grave precarietà economica e sociale. Eppure, la città di Košice ha accolto migliaia di persone, e forse non è un caso, forse è un’opportunità per guardare l’altro, il diverso, con occhi nuovi. Ai margini della città, c’è Luník IX e dell’Europa, l’Ucraina: entrambi perseguitati dallo spettro dello stesso male, un’umanità che guarda ma non vede, che sente ma non ascolta, che già è passata sulle orme del nemico che cambia forma ma è sempre uguale. A Košice sono le strade che portano a Luník IX ad essere ritenute pericolose; al di là delle frontiere europee c’è l’Ucraina, percepita come le nostre nuove Colonne d’Ercole, un confine invalicabile ed estremamente pericoloso. Ciononostante, per i profughi non è un mondo ignoto ma un mondo fatto della stessa sostanza del nostro e distrutto da missili, razzi e massacri.
Alexander aggiustava computer e telefonini in Ucraina, come molti lavoratori in Italia, solo che da un giorno all’altro è dovuto scappare: quegli oggetti e il suo lavoro sono rimasti sulla sua scrivania, come la vita che aveva. Li ricorda con tristezza ma con una gran forza d’animo mi dice anche di aver trovato lavoro da Kia. “Devo stare tutto il giorno in piedi, i turni sono pesanti ma la paga è buona e posso proteggere la mia famiglia.” Anche la moglie ha iniziato a dare una mano in un ristorante del centro commerciale, “conosce le parole della cucina” dice divertito. Ora contano di rimanere a Žilina fino a quando la figlia non avrà finito l’università, appena iniziata. “Ammesso che la guerra sarà finita…” accenna sottovoce.
Arriva Renata. È comproprietaria con il marito Milan Dubec – “persona dell’anno” su Forbes Slovacchia – di Reinoo a.s., una società che compra e vende edifici e che a febbraio ha fondato il campo. “Mio marito era sulla East Coast quando mi ha telefonato, dovevamo fare qualcosa per aiutare quelle persone. Mi è subito venuto in mente quell’edificio, l’avevamo comprato qualche mese prima, ero stata sul posto e lo conoscevo bene …i volontari, poi, si sono presentati spontaneamente ed insieme a loro, abbiamo pulito e montato i mobili ed organizzato le provviste.” Il cibo costava dieci mila euro a settimana, lo Stato non gli permetteva di cucinare i pasti nelle mense e dovevano comprarlo già cotto – e costava molto di più. Anche per la lavanderia non hanno ricevuto alcun permesso speciale. Il maggior contributo è stato dato dalle persone comuni e le aziende. Solo, in seguito, l’Organizzazione per le Migrazioni ha aperto un ufficio nella loro sede di Ukrainska Spilka (un centro informazioni e stoccaggio per gli aiuti umanitari, dove è presente anche un asilo nido), situata a circa un miglio ad est del campo e visibile dalle sue finestre dove è possibile trovare annunci di lavoro, partecipare a dei laboratori informatici e di lingua slovacca.
Ci lavora Inna, una delle colleghe di origine ucraina di Renata. Con voce accorata mi spiega che ogni giorno, in fila, c’erano centinaia di persone. “Le informazioni da parte dello Stato variavano ogni due giorni, non è stato facile …non mi ricordo nessun viso durante le prime settimane se non quella di un anziano che portava delle mele a tutti noi, volontari e rifugiati, mentre cercavo di agire come un robot davanti alle madri, che erano libere di esternare le loro preoccupazioni solo quando restavano sole. Ed a volte piangevano, anzi piangevamo tutti.” Andrej, il compagno, anche lui di origine ucraina, guidava il pulmino dal campo alla stazione e dalla stazione al campo. Si ricorda che i primi a salire erano stati una madre con i suoi sei figli: il più piccolo aveva due mesi e il più grande otto. “I bambini erano stanchi ma grazie alla determinatezza della madre non sembravano spaventati.”
Renata mi parla di una donna che non poteva lasciare l’Ucraina perché era medico. E voleva a tutti i costi mettere in salvo i suoi figli, mandandoli in Italia dai parenti, ma i servizi sociali slovacchi li avevano fermati alla frontiera, così aveva dovuto attraversare l’Ucraina.
Bisognava testimoniare davanti al giudice per autorizzarli a partire. “Le persone non avevano nulla con loro, soprattutto le madri: sono scappate senza i passeggini, hanno tenuto i loro neonati tra le braccia per tutte le ore del viaggio, mentre i vagoni erano stracolmi.” Ma le difficoltà non sono mancate neanche al campo. Ci sono stati dei casi di xenofobia e dei tentativi di adescamento: delle persone urlavano ai rifugiati di andarsene, ed altre gli proponevano di partire per la Germania con i loro pulmini, senza passare per la polizia. Allora mi è venuta in mente Zuzana, un’insegnante della città, dai tratti del viso angelici e dotata di una forte personalità, che non aveva potuto far nulla quando i bambini del campo avevano smesso di andare a scuola. Le madri non avevano fornito nessuna spiegazione, secondo il governo non avrebbero dovuto. Anche Renata mi dice lo stesso. Forse sono tornati in Ucraina, oppure sono saliti a bordo dei pulmini. Nessuno può saperlo. O semplicemente, non sono voluti tornare a scuola.
Inoltre, sono stati in pericolo dei giovani africani, anche loro in fuga dall’Ucraina dove avevano studiato per anni. In Slovacchia sono stati accusati, spesso, di approfittare della guerra per emigrare in Europa. Sono stati fermati anche al confine. Ho sentito dire che la
sensazione che si prova è quella di un’entità astratta che ti ferma appena prima di trarti in salvo, mentre tutti sono liberi di correr via. Renata mi dice che devo assolutamente conoscere Osama, uno studente di ventun anni, che ha lasciato il suo villaggio vicino al deserto del Sahara, in Marocco, per studiare all’estero, come fanno molti altri giovani di tutto il mondo. Lo chiamo, gli chiedo se può incontrarmi, lui è subito disponibile ed il giorno dopo mi accoglie nella sua stanza. Mi chiede scusa per il disordine, anche se il suo spazio non è molto diverso da quello di molti suoi coetanei. Noto subito la giacca sulla sedia: ha una tigre raffigurata.
L’animale continua ad apparire come se il caso l’avesse scelto come emblema del campo. Ad Osama mancavano pochi esami per laurearsi alla Kharkiv National Automobile & Highway University quando è dovuto scappare, e la guerra ha cancellato tutti gli sforzi e traguardi di tre anni. Ma lui non si è arreso e in Slovacchia si è iscritto a Management per lo Sport. Gioca a calcio fin da bambino, in Ucraina aveva perfino giocato da professionista venendo pagato – anche se poco -, ma per lui non era importante. A muoverlo era la passione, i suoi studi poteva mantenerli lavorando per un ristorante di cucina marocchina. “I primi razzi li ho visti di notte. Ero con i miei compagni di stanza …attraversavano il cielo da un lato all’altro e distruggevano gli edifici.” Si erano rifugiati in un piccolo riparo al piano terra, e per miracolo, dopo due giorni, erano riusciti a trovare da mangiare. È stato allora che hanno deciso di andarsene. “Abbiamo preso il treno da Kharkiv a Kiev, poi da Kiev a Užhorod (vicino al confine slovacco) e con noi c’erano solo madri e bambini. Continuavamo a guardarci mentre eravamo tutti sotto shock. Ci abbiamo impiegato dieci ore ad arrivare …al confine slovacco c’erano molte tende, ed i volontari ci hanno dato da mangiare, da bere e delle sim card.
“Prima di decidere se tornare in Marocco o meno, ho chiamato i miei genitori,” si ferma un momento e deglutisce, “mi hanno detto che mi avrebbero supportato, qualsiasi cosa fosse stata buona per me. E che sarebbe andato tutto bene.” Così il 26 febbraio è salito su un autobus che lo ha portato al campo (era la prima notte della sua apertura). “Con me c’erano altre cinquanta persone, ed era solo il terzo giorno dallo scoppio della guerra.” Avevano dormito tutti nel dormitorio al quinto piano. “Alcune notti mi sono ritrovato accanto a degli studenti, altre a delle madri e i loro bambini. Poi ad ottobre mi hanno dato una stanza da condividere con un anziano che collezionava monete.” Mi mostra un portafortuna che gli aveva regalato: un rublo. Mi chiede se davvero possa portargli fortuna. Mi viene in mente quello che mi aveva detto Alexander: “La cultura non c’entra nulla. Il vero diavolo è Putin. Io continuo a leggere Tolstòj.”
Anche Ryan, un regista americano che era passato di lì per girare un documentario, gli aveva donato qualcosa: un pallone con cui ha giocato d’estate, con altri studenti, facendogli apparire la vita quasi normale. A me, invece, ha mostrato in anteprima i fotogrammi del film. Il campo era tutto un brulicare di persone e mi pareva di intravedere il futuro nei loro occhi, e in quelli di Osama, ancora molto impaurito. Continua a passarsi un ciondolo tra le dita, lo yin. “Lo yang, lo indossa la mia ragazza slovacca” mi dice, offrendomi dei biscotti. “Li abbiamo cucinati insieme. Così posso sentirmi a casa.” Mi rendo conto che è il 27 dicembre e il Natale lo ha trascorso con lei. Mi pare incredibile, questo ragazzo parla slovacco, russo, arabo marocchino, inglese e francese e allo stesso tempo è dotato di un’estrema calma e sangue freddo. Come un camaleonte pronto a cambiare colore per sopravvivere. “Bisogna sempre prendere il rischio e trovare qualcosa, niente è facile” esclama mentre si apre la porta.
Entra una bambina con i capelli coperti da un turbante. Mi accorgo che per entrare nella sua stanza deve passare da quella di Osama. Ha otto anni, massimo dieci. È andata da sola nel bagno comune. E sempre sola ha attraversato il lungo corridoio illuminato solo dalla scritta “exit”. Ma non sembra affatto preoccupata, anzi, quell’ambiente le è diventato familiare. Di lei non ne saprò nulla, come di sua madre, che era uscita subito dopo, passando sempre tra le due porte: quella della loro stanza e quella di Osama. Eppure, il suo silenzio – e quello delle altre – urla il desiderio di tornare a casa. E in un tempo come sospeso, attende la chiamata che la riporterà indietro: su quell’autostrada e binari da dove è venuta, in autobus o in treno, forse di notte, magari guardando il cielo dei Carpazi innevati, dove sorge il fiume Vàh, e corre, come ha fatto lei, verso Žilina.