Foto di Fabio Conti
Da un torrente in piena ad un fiumiciattolo alimentato dall’acqua piovana. Se al confine rumeno-ucraino di Siret passavano circa 30.000 profughi al giorno durante l’inizio della guerra, ora non ne passano più di mille. Chi doveva scappare, sembra, l’ha già fatto. Le sirene antiaereo delle città tra Leopoli e Kiev suonano in continuazione, ma l’abitudine le ha fatte diventare un sottofondo musicale. Nelle altre zone, perfino il boato delle bombe è divenuto normalità. Fino al 24 marzo, sono oltre 3.5 milioni le persone che hanno lasciato l’Ucraina (UNHCR). Sulla più grande crisi migratoria dal secondo dopoguerra avvenuta sul suolo europeo, si è scritto e detto di tutto. Non c’è più niente da raccontare, né da chiedere. L’esodo continua, malgrado le tre settimane di guerra passate. Via di fuga principale è la Polonia, meglio collegata agli altri paesi europei, ma dal confine rumeno sono già passate 500 mila persone.
Il 24 febbraio migliaia di auto e camion, guidate da cittadini locali, andarono in direzione di Siret per scaricare tendoni, tavoli, farmaci, cibi confezionati e giocattoli. Misero a disposizione le proprie case, tutti gli spazi coperti da un tetto tornavano utili. Solidarietà – tipico tratto rumeno – animata dallo spettro del comune passato sovietico; dalla pluralità culturale della Bucovina, divisa da confini puramente politici. Nel giro di una settimana, associazioni umanitarie e istituzioni pubbliche hanno reso efficienti i piani di accoglienza e smistamento. L’obiettivo, per molti, è raggiungere il prima possibile i propri cari sparsi in Europa. Ad altri, basta ricollegarsi con gli amici che hanno cercato fortuna altrove prima della guerra. Per altri ancora, lasciare la malinconia e l’ansia dell’invasione per una meta imprecisata è già un sogno. L’insieme caotico di questi sentimenti si legge negli sguardi di chi arriva. Disorientato e leggero, l’occhio dei bambini cerca i sorrisi dei volontari spossati. Le mamme, coperte da giubbotti pesanti e impegnate a trainare le proprie case in valigia, mostrano la forza di chi ha lasciato l’imprevedibile per cercare una certezza stentata. I discorsi sembrano ovvi. La dignità non viene mai meno. Il silenzio è interrotto dagli “spasiba”, grazie.
16 marzo, mercoledì
Come ci ho pensato?
Nessuno guarda in basso dai finestrini del volo. Foreste di conifere si alternano a radure d’erbaccia secca. Le zone d’ombra hanno preservato la neve delle scorse settimane. Strade prive di asfalto collegano grappoli di tetti che solo dall’alto assumono la fisionomia di centri urbani. Esiste anima viva laggiù? Se non entro in Ucraina, mi sono detto, è solo per far dormire sonni tranquilli a chi mi è vicino. A muovermi è il bisogno di restituire alla parola guerra quelle dimensioni che media, film, romanzi e memorie le hanno tolto. Per me e i miei coetanei Millennials, scarsamente informati e cresciuti nel tepore esistenziale dell’Occidente, la guerra è motivo di sdegno temporaneo o finzione narrativa, fonte d’insegnamenti morali; e poco altro. Non c’è quasi nulla di cui preoccuparsi davvero nella provincia italiana. Chi, meglio dei profughi, invece, può mostrare la verità dei conflitti – fuori dalle verità parziali delle decisioni politiche e degli avvenimenti militari? Estrapolare la verità da una realtà qualsiasi significa scendere a patti con la realtà stessa. Bisognerà accontentarsi dell’approssimazione. Penso a questo mentre Fabio, affianco a me, poggia la testa sul sedile davanti e sfoglia la galleria della macchina fotografica. Soffre di una lieve claustrofobia, non vede l’ora di scendere.
Siamo a Suceava, 40 km dal confine. Ci dirigiamo verso l’università Ștefan Cel Mare che ha trasformato un dormitorio studentesco da 100 posti in centro d’accoglienza. Un professore illustra la prossima prova d’esame ad un assistente, davanti all’atrio del dipartimento di informatica. Dopo averlo interrotto, ci informa che è il decano a gestire le visite. È contento di accompagnarci da lui. Sfrutta il tragitto per avvertirci che numerose ONG europee hanno iniziato ad inviare viveri e beni di prima necessità direttamente ai centri, saltando il visto delle istituzioni e relativa logistica. Si sospetta che qualche carico sia andato inspiegabilmente perso. Il decano scende dal taxi, lucida con un colpo di palmo i pantaloni in velluto nero, ci chiede di seguirlo. Hanno ospitato oltre 1200 persone dall’inizio, al momento ne rimangono appena 25. Arrivano in bus dal confine e rimangono in media 2-3 giorni. L’80% delle persone accolte partono verso Germania, Italia, Austria, Olanda, mentre al restante 20 vengono aperte le porte del mercato lavorativo rumeno con piani speciali d’inserimento. Con lo sguardo fisso sulle televisioni o sui cellulari, chi resta attende una pace tra Zelensky e Putin. Vuole tornare a casa quanto prima, trasformando questo momentaneo soggiorno rumeno in un semplice ricordo.
«Potete parlare con chiunque e far foto, a patto che siate discreti. Dall’inizio sono venuti tantissimi giornalisti, alcuni molto invadenti. Le persone qui sono stanche, hanno tutto, ma l’impatto psicologico della fuga è stato forte» mi dice Matei da dietro gli occhiali spessi. Chiusi i libri di economia due ore prima, ha rindossato la pettorina gialla da volontario mentre veniva qua. È moldavo, parla russo e rumeno, mediazione fondamentale per la crisi in corso. L’atmosfera all’interno della struttura è tranquilla. C’è chi scende le scale per versarsi un thè dal bancone vicino all’entrata, chi siede sul divano e scherza con i volontari. Una bambina disegna con la madre e la zia che la circondano, attenta alle loro istruzioni. Un gruppo di persone rientra dalla mensa, l’orario di cena è ormai finito. «Dove dormite stasera? Se volete potete fermarvi qua. Tanto abbiamo posto» mi dice il ragazzo alla reception.
18 marzo, venerdì
Un week-end insolito
Alle 8 del mattino Suceava dorme ancora. La nebbia deforma i contorni degli edifici residenziali del centro e dà un carattere solenne alle campane delle chiese che suonano. Signore con giacche scure e sciarpe di pelliccia attendono il bus in silenzio, sedute nelle panchine congelate delle fermate ai margini della piazza principale; guardano la colonna d’auto formarsi davanti a loro, ancora immerse nella telenovela della sera precedente. Operai con auto rumorose, camionisti carichi di materiale edile, taxisti dallo sguardo distratto. Dai chioschi l’odore di covrig appena sfornati solletica i nasi dei clienti in fila ordinata. Un gruppo di ragazzi si trascina verso l’entrata della scuola, facce ancora assonate, in mano un sacchetto con la merenda. Rimasugli di neve sporca nelle aiuole verdi. Percorriamo a piedi parte dell’arteria principale che circonda, come un muro difensivo, il centro città. Non più palazzi e persone, ma case di un piano, officine meccaniche, fruttivendoli a conduzione familiare. Dei cani randagi corrono verso di noi abbaiando, per poi voltarsi e sparire tra i campi. Strada Emil Cioran, recita la segnaletica di una via traversa. Sibiu, città natale del filosofo, e Brașov, città transilvana di formazione, si ritrovano nella rarefazione progressiva della periferia di Suceava. «Il popolo rumeno, curiosamente, è il popolo più fatalista del mondo. Sono giunto alla conclusione che era il contadino romeno ad avere ragione. Quel contadino che non crede in niente e che l’uomo sia perduto, irrimediabilmente perduto, quel contadino che si sente schiacciato dalla storia» scriveva Cioran.
L’Hotel Mandachi compare progressivamente dalla nebbia, si immola energico in un’area desolata. Intorno cantieri e edifici in costruzione che attenueranno, in futuro, la sua solitudine. L’insegna della facciata principale poggia su quattro stelle luminose. Il giallo dei trapezi spigolosi in rilievo trionfa sulla rigidità architettonica dell’intera struttura nera alta otto piani. BMW e Skoda con targhe ucraine nel parcheggio anteriore. Dagli schermi all’interno della reception sfilano video promozionali sulle suite dell’ultimo piano, dotate di jacuzzi e della miglior vista sui campi deserti di Suceava. Il centro d’accoglienza è sul retro, ci informano.
Il lusso di una sala banchetti con tappezzerie rosse e palchi per esibizioni musicali convive con la miseria dei rifugiati. Benefattore è il proprietario Ștefan Mandachi, noto imprenditore rumeno. Lo incontro alla sera, prima dell’ora di cena. Dalle scale della zona mensa spunta prima la testa rasata, poi il busto in giacca e cravatta. Si guarda intorno, petto all’infuori, si affaccia verso il piano di sotto, urla qualcosa al tavolo d’accettazione, dà un’occhiata al numero di persone presenti, si gira e sparisce. Davanti all’ingresso del centro, autobus parcheggiati pronti per la partenza e volontari che fumano sigarette. Due cani bevono da una ciotola. Giornalisti e fotografi intenti a documentare il carico dei bus, alla ricerca di qualcuno che parli inglese.
I rifugiati vengono portati all’hotel direttamente dal confine di Siret. La permanenza media, anche qui, è intorno ai tre giorni. Entrati nella struttura, forniscono gli estremi del passaporto e indicano la destinazione finale desiderata. Viene assegnato un posto letto ad ognuno. Se infreddoliti, nel mentre, possono confortarsi con thè, caffè, succhi di frutta, cioccolatini e caramelle, torte e biscotti confezionati, offerti da un banchetto vicino. I cioccolatini Lindt e le tavolette Milka vanno a ruba. Una scalinata li conduce al piano superiore. Ad aspettarli c’è una distesa infinita di materassi poggiati a terra, cuscini alla rinfusa, cumuli immensi di vestiti e coperte a destra, fogli, pennarelli, pastelli, e giocattoli vari a sinistra. Sedie e tavoli, come relitti del passato, sono ammucchiati sul fondo. Il problema è ora cercare l’alcova assegnata ad ognuno. I posti a disposizione sono circa 250, tutti numerati, al momento del nostro arrivo sono circa 30 quelli occupati. All’interno non c’è tensione alcuna. Il problema di trovare nuovi materassi è ormai solo un ricordo. Abbondano le scorte di pannolini per bimbi di ogni età, assorbenti, medicinali base, saponi e quanto serve per l’igiene personale. Si regalano sim card a chi non l’ha già ricevuta al confine.
Un’occhiata d’intesa con Denis, ventidue anni, proveniente dalla periferia di Kharkiv, unico ragazzo presente nel centro. È poggiato con la spalla destra su una colonna vicino all’entrata. Nato con una malformazione alle gambe, non deve arruolarsi. Mi confessa che il suo piano è quello di arrivare in Spagna, ad attenderlo c’è l’azienda informatica per cui lavora. Al piano superiore, i bambini siedono a terra o corrono dietro le bolle di sapone, inciampano su palloni più grandi di loro. Un banco da lavoro giocattolo, completo d’attrezzatura da meccanico, è occupato da un bimbo che si diverte a simulare la quotidianità persa, mentre discute con una coetanea indaffarata sopra un piano da cottura in plastica. Le mamme, senza farsi vedere, si avvicinano alla montagna di vestiti e sfilano maglioni, sciarpe e pantaloni lì ammassati. Una ragazza siede davanti ai finestroni da cui compaiono i campi secchi, si gode la scarsa luce del giorno, accarezza il suo gatto e sorride.
Un anziano dorme su un materasso gonfiabile vicino al corridoio principale. Sembra non curarsi del mormorio e dei passi che lo circondano, avvolto nella sua maglia in pile. Si alza solo all’ora di pranzo, il menù del giorno è zuppa di pomodori e carne di maiale, pasta con formaggio di pecora. Finisce il suo piatto, fa due parole con sua moglie, torna a sdraiarsi dov’era prima. Alla sera è ancora lì. Mi siedo a fianco a lui, guardiamo la gente che brulica intorno a noi. Vadym ha 78 anni, scappa da una cittadina a qualche kilometro da Mariupol. È vecchio, mi fa capire, e insieme alla moglie non sanno dove andare. Aspetterà la fine della guerra, per tornare in quel che è rimasto della sua città. Gli manca l’aria di mare. Fra di noi qualche gesto e poche parole, vista la barriera linguistica che ci divide. Nel suo sguardo silenzioso intravedo i rimproveri della madre, memore delle carestie staliniane, quando era vietato domandare; il lavoro interminabile dell’industria pesante, la cui fatica ha disegnato la trama delle sue rughe; le adunate di piazza organizzate dagli operai che, incerti se parlare russo o ucraino, si chiedevano: fin dove arriva la Grande Madre? Abbassiamo lo sguardo e ci stringiamo la mano. È lui ad augurarmi buona fortuna. Si avvicina una volontaria per offrirmi il suo aiuto da mediatrice, ma le parole non servono.
Verso sera arrivano 40 nuove persone, altre sono partite nel pomeriggio con due bus verso Danimarca e Germania. Arriva un bancale di scarpe nuove e tutti si accalcano con ordine. Si vedono solo mani: chi era davanti e afferrava per primo le scatole le passava dietro a chi era ancora in attesa. C’è chi urla la misura delle scarpe per i propri figli. Alexey ne afferra un paio e corre da sua nonna seduta. Mi avvicino a loro. Anna è di Kiev, parla un po’ d’inglese, imparato dai film americani. È scappata con il nipote sull’insistenza della figlia, infermiera, impegnata a gestire le retrovie dei soldati. Il papà di Alexey combatteva a Kherson, poi ripiegato a Kiev in seguito alla disfatta subita. Mi dice di essere stata in Italia più volte. Ora fa la sarta. È stanca, spera di riuscire a dormire stanotte. Non sente sua figlia e il marito da due giorni, ma è tranquilla. Era lei a farmi domande, mi chiede quando la guerra finirà, a braccia aperte.
Il buio arriva e le luci vengono soffuse. Conclusa la cena, le persone presenti si sdraiano con grazia sui materassi, rimanendo davanti al proprio cellulare o confidando gli ultimi pensieri del giorno a chi è a fianco. I volontari del turno di notte sono appena sei. Un lampadario di cristallo emerge dal soffitto ricoperto di specchi: era motivo d’orgoglio, per le signore benestanti presenti agli eventi del fine settimana, guardare in alto per ammirare l’abito nuovo o la capigliatura fresca di parrucchiera; quale sarà l’ultimo pensiero di Anna e Vadym nel vedere la propria immagine riflessa prima di dormire?
19 marzo, sabato
Freddo cane
Dalla stazione di Suceava il treno delle 9 diretto a Iași arriverà a breve. Si gioca a chi occupa prima le zone illuminate dal sole. Chi non riesce rimane dentro, al caldo, insieme ai volontari seduti dietro banconi colmi di viveri. Qualche cane randagio cerca le carezze dei bimbi coperti con tute da sci. Incontriamo diverse persone viste il giorno precedente, ci riconoscono. Yana e Olha, col figlio Oleg che sfila sorridente davanti alla fotocamera, hanno un volo per la Spagna nel pomeriggio, altri rimarranno a Iași o si sposteranno a Bucarest il prima possibile. All’arrivo del treno, la folla si avvicina in modo ordinato davanti alle porte. Dei ragazzi locali, saliti per primi, aiutano a caricare le valigie-case all’interno dei vagoni e a sistemarle vicino ai posti. Non c’è più il disordine della prima settimana, né la corsa istintiva verso la lamiera del treno appena entra in stazione, ora c’è posto per tutti. Il disperato desiderio di fuga, animato dagli echi delle esplosioni e delle sirene che suonano ancora nella mente degli ucraini, sembra aver lasciato posto ad un’arrendevolezza ordinata, all’abitudine per l’attesa, ad un relativo senso di sicurezza che l’accoglienza e il viso sorridente dei volontari gli hanno trasmesso. Qui, dopotutto, non piovono le bombe. Oleg ci saluta dal finestrino del treno.
I turchi sotto al loro tendone, già alle 10.30 del mattino, scaldano piadine mentre affettano carne dal rotolo di kebab che gira; alcuni volontari di Save The Children fanno avanti e indietro con le ganasce piene; più avanti la Caritas è vicino ad un chiosco ambulante, al cui interno spuntano le facce graziose di due anziani locali. I greci sono intorno ad un pentolone da 15 litri colmo di zuppa; concludono la festa i tendoni degli aiuti umanitari israeliani e maltesi, zeppi di vestiti. Edward, volontario britannico, consegna ovetti Kinder ai bambini. Ecco il confine di Siret. Dallo sguardo rilassato di pompieri e poliziotti, che aspettano l’arrivo degli ucraini sulla linea del confine, il peggio sembra passato. Me lo conferma Omar Havana, fotogiornalista spagnolo che segue le vicende dell’esodo fin dall’inizio. Insieme a lui c’è Muhammed Muheisen, premio Pulitzer e fondatore di Everyday Refugees. Indossa vestiti da escursionista, spiccano i loghi di brand professionali, è forse l’unico a non patire il freddo del giorno. «Questa è la nostra ultima settimana, presto ce ne andremo. C’è più niente da fare qui. Arrivavano in 20, 30 mila per giorno. Oggi in quanti? 300, 400 forse. All’inizio qui intorno non c’era niente. I tendoni, che i primi giorni erano solo quattro o cinque, erano usati per tenere al caldo i bambini. Entravi e vedevi centinaia di bambini che piangevano, o che fissavano un punto imprecisato. Davanti a queste scene mi sono commosso. E ne ho viste di cose eh! In Nepal ho visto villaggi millenari venire rasi al suolo da terremoti. Ma certe sensazioni le ho provate solo qua». E continua: «gli ucraini arrivano ad un km dalla linea del confine in bus o con auto private; qualcuno a piedi. Oggi ci sono un paio d’ore prima di superare la frontiera. Niente in confronto alle 20 ore d’attesa dei primi giorni, fatte in fila e al freddo. Deve essere estenuante per loro. Appena qualche ora prima di essere qui hanno detto addio a fidanzati, mariti, padri. È disumano».
Escludendo dal campo visivo, con un gioco intellettuale, gli esseri umani che arrivano al confine, sono i peluche dei bambini a riportare i traumi della guerra. Cadono quasi tutti, uno dopo l’altro, quando i genitori si fermano dai primi volontari che vedono per ricevere informazioni subito dopo l’arrivo. I bambini guardano intorno, si chiedono chi sia tutta quella gente ad aspettarli. Ascoltano solo le istruzioni della madre o dei nonni. Spesso si portano una mano in bocca o la occupano con ciò che gli viene offerto. È in quel momento che il peluche cade e il suo colore – giallo, verde, rosso o blu – inizia a diventare nero.
Un giornalista spagnolo attende da ore il ritorno del cameraman che ha varcato il confine per fare riprese alle auto incolonnate. Parla italiano con un forte accento romano, vuole girare un documentario sulla grandezza delle donne: «senza di loro, niente di questo sarebbe possibile, dalle mamme ai volontari. Incredibile! Il progetto finirà documentando le madri russe. Chissà, anche loro, come vivono tutto questo. Chissà…». A metà pomeriggio arriva Nastasya, trascinando per il cappuccio della giacca Oksana di 3 anni e Roman di 9. Lei ne ha 27. «Sono partita da Cernivtsi all’ora di pranzo. Ho salutato mio marito ieri sera, l’hanno mandato a Odessa. Prima di partire mi ha obbligato ad andarmene con i bambini. I miei genitori sono vecchi: se devono morire, hanno detto, muoiono là. Ho passato l’intera notte a pensarci; avevo qualche dubbio visto che da noi sono caduti pochi missili. Ma non si sa mai. Ed eccoci qua». Si siedono tutti e tre a ridosso di un muretto basso, dietro le loro valigie. Oggi può fare una sola chiamata al marito, decide di farla ora per comunicargli quanto deciso. Parlano per un minuto. I suoi lineamenti seri e responsabili, per la prima volta dal suo arrivo, si allentano: sorride fra le lacrime. Oksana e Roman sgranocchiano dei tipici dolci rumeni e la abbracciano. Nastasya pulisce il viso della piccola, sporco di cioccolato.