Oltre il cancello, sorvegliato dai soldati, c’è l’Ucraina.
Chi entra in Polonia, varcando la frontiera dopo chilometri di cammino, trova il centro di primo soccorso, allestito lungo un piccolo ritaglio di terra che fiancheggia la strada che conduce alla dogana. Sono i gazebo delle organizzazioni umanitarie, delle piccole Ong arrivate da ogni parte del mondo. Ci sono i francesi di “Sauveteurs sans frontières”, poi l’associazione statunitense dei “Sikh”, e poi gli inglesi, scozzesi, spagnoli, i volontari della comunità pakistana in Germania. Le loro bandiere sventolano orgogliose al fianco dei colori giallo e blu.
Linea di confine
Ai profughi viene offerto di tutto: coperte, vestiti, sim telefoniche, giocattoli, cibo e bevande calde. C’è persino un tavolino pieno zeppo di saponi, shampoo e creme per il corpo. I beni per l’igiene personale, mi dicono due volontari italiani, sono i più richiesti: “Ci chiedono bagnoschiuma, spazzolini, rasoi. È roba che non portano con sé, quando partono per venire qui”.
Osservando il flusso di gente che attraversa il confine noto un fatto strano, che mi lascia piuttosto perplesso: per ogni rifugiato che arriva in Polonia, ce n’è uno che torna in Ucraina. Ma che fanno questi, dico io, tornano indietro? Un volontario di una Ong spagnola mi illumina: “Tanti di loro sono scappati in Polonia per paura, ma la vita nei centri di accoglienza per molti non è più sopportabile. Chi può, tra coloro che vivono nelle zone risparmiate dalla guerra, preferisce tornare a casa”.
Di uomini, qui, se ne vedono pochissimi: gli ucraini dai diciotto ai sessant’anni, infatti, sono chiamati alle armi dal proprio governo, escluse rare eccezioni (principalmente a causa di indisponibilità fisica, tre o più figli a carico, minori privi del sostegno materno). A Medyka arrivano quasi solo donne e bambini. Vi sono anche signore molto anziane, con il viso segnato dal tempo e dagli sforzi del viaggio. Le vedo avanzare tenaci, e sobbarcarsi il peso delle borse e delle valigie che portano con sé. Vestono cappotti ingombranti, combattono il freddo con sciarpe e berretti di lana colorati. Molte di loro sono donne energiche, nonostante tutto, le cui rughe paiono testimoniare una certa confidenza con la fatica, un’attitudine consolidata nel governare la sofferenza.
Una coppia di anziani indugia nei pressi di un gazebo in cui si regala abbigliamento invernale, in cerca di un riparo dalla pioggia. “È mio marito” – dice lei, indicandomi il signore al suo fianco, sulla sedia a rotelle – “siamo di Leopoli”. Lui mi guarda, ma non dice nulla, mentre una volontaria canadese appoggia una coperta di pile sulle sue gambe. La ragazza indossa al collo un cartello con la scritta “free hugs”, “abbracci gratis”.
È a Medyka da diverse settimane, collabora con la sua organizzazione per fornire assistenza: “Oggi la situazione è molto più gestibile” – mi racconta- “quando è iniziata la guerra, qui arrivavano più di diecimila persone al giorno e noi non eravamo così organizzati. È stata dura, anche il governo polacco ci ha messo un po’. Non riuscivamo a tenere il cibo all’asciutto, ma abbiamo fatto del nostro meglio”.
Mi allontano in direzione della strada, dove fermano gli autobus che trasportano le persone nei centri di accoglienza sparsi nelle città e nei paesi polacchi di confine.
Qui accanto, in un avanzo di terra polverosa, c’è un grosso tendone bianco che appartiene al “Nuovo Stato Federale Cinese”. I cinesi? A Medyka, con gli ucraini? Non esattamente. La verità è che questi volontari c’entrano poco e niente con Pechino, perché sono nati e cresciuti negli Stati Uniti: “Sì, siamo americani di origine cinese” – mi dice uno di loro – “siamo qui per aiutare l’Ucraina e denunciare il Partito comunista di Xi Jinping, che è la causa principale di tutti i disastri nel mondo”.
Con loro c’è un francese che sorseggia un caffè e riconosce il mio accento italiano. Si chiama David, è un soldato: un tipo bizzarro sulla quarantina, di Parigi, che si è arruolato nella legione straniera per combattere al fianco delle truppe di Kiev. Mi offre una sigaretta e poi, con una nota di sollazzo, mi mostra la foto che lo ritrae in posa con un fucile tra le mani: “Questo sono io, a Odessa”. Promette di mandarmi su Telegram i video che girerà a Kharkiv, la sua prossima tappa sul fronte ucraino.
La stazione
Le luci del treno proveniente da Kiev sgretolano il buio della stazione di Przemysl. Sono le 19:00, il sole è calato e il freddo comincia a farsi pungente. La luce fioca dei lampioni, in fila lungo il binario 1, fa strada ai rifugiati in arrivo dalla capitale ucraina. Sono giusto qualche decina, meno di quanti me ne aspettassi, per lo più madri con i propri bambini. Uno di loro, stanco e disorientato, getta a terra il suo peluche tra lacrime polemiche, mentre traina una piccola valigia arcobaleno che zoppica ad ogni mattonella mancante. La madre, esausta, lo incalza a proseguire, aggiustandosi un ciuffo ribelle che le cade sulla fronte. Come se non bastasse, si deve difendere dagli scatti invadenti di un fotografo appostato all’uscita dei binari, che le punta addosso l’obiettivo della macchina in maniera quantomeno indelicata. “Sì, siamo ucraini!” – gli urla la donna, – “non ne hai mai visto uno?”. Una domanda che riecheggia nel silenzio dei presenti, tra cui molti giornalisti e fotografi, coi loro sguardi che si incrociano timidi.
Chi sono, questi ucraini, materiale da prima pagina?
Seguo il percorso della donna con il suo bambino, giù per le scale fino all’ingresso della stazione. Sulla soglia, la osservo scrutare di sfuggita l’elenco di trasportatori privati con le relative mete di destinazione, appesi in una locandina. Nel frattempo, il bambino si ferma davanti all’unica finestra aperta che si affaccia sull’interno, dalla quale i militari polacchi consegnano del cioccolato alla sua testolina che fa capolino. Poi entrano in stazione, al caldo, e si sistemano dove possono perché l’atrio principale non è molto grande, nei corridoi le panchine sono poche e chi arriva rischia di rimanere in piedi.
A me non sono mai piaciute le stazioni. Quando andavo al liceo, il primo treno del mattino era sempre in ritardo e non sapevo mai come ammazzare il tempo. Ricordo le lagne dei pendolari, li ascoltavo recitare la solita litania sul servizio scadente della rete ferroviaria nazionale.
Qui, alla stazione di Przemysl, i treni in orario non interessano a nessuno. C’è tanta gente, ma non caos: le urla sono sobri mormorii, gli sguardi paiono silenziose richieste di aiuto. Si aspetta: Cracovia è a tre ore di autobus, Rzeszow ad una; i volontari in pettorina consigliano i centri di accoglienza di Lublino, Kielce o Katowice agli ucraini che volessero rimanere nei dintorni.
Le ore di attesa regalano occhi smarriti e facce stanche, ma la guerra, si fa per dire, ora è alle spalle: “Welcome to Poland”, recita un cartello appeso all’ingresso della stazione.
Si fa tardi, i tabelloni mostrano gli orari degli ultimi treni del giorno, mentre gli altoparlanti parlano la lingua dei figli dell’Europa in fuga.
Il centro di accoglienza di Korczowa
Trenta chilometri a nord di Medyka, un ex centro commerciale è diventato un centro di accoglienza per i rifugiati. È un complesso di modeste dimensioni, che si avvale di un vasto parcheggio scoperto. Si trova lungo una strada statale nei pressi di Korczowa, un villaggio polacco di circa 700 abitanti.
All’interno, l’edificio presenta il tipico assetto di un centro commerciale qualunque: luci potenti, ampi corridoi, vetrine di negozi che si susseguono tra le corsie. L’unico modo per accedervi è quello di registrarsi presso il desk di accoglienza, dal quale si coordina l’intera struttura. Dentro un ufficio improvvisato, volontari e militari polacchi controllano i documenti e inseriscono le informazioni nel database. Un soldato, mentre consegno il passaporto, mi scruta diffidente dietro il monitor del computer. Sento i suoi occhi addosso, intravedo il suo sguardo severo e la sua postura impassibile. Mi domanda, con tono inquisitorio, se appartengo a qualche organizzazione: “No” – gli rispondo – “sono qui da solo”. Per la verità, non è necessario far parte di un’associazione o di una Ong per ottenere l’accesso: smaltite le pratiche di registrazione, infatti, mi viene rilasciato un cartellino con il mio nome ed una pettorina fluorescente che riporta la scritta “ьолонтер”, cioè “volontario”.
Camminando per i corridoi si incontrano i negozi smantellati che consentono ai rifugiati di trovare una sistemazione. Si dorme per lo più sui materassi, disposti a terra, lungo i muri. Le famiglie, specie quelle più numerose, si riuniscono all’interno di piccole aree circoscritte, ricavate da file di sedie disposte l’una accanto all’altra, a formare una barriera in difesa di uno spazio domestico tanto angusto quanto vitale. Un’idea remota di privacy che, tuttavia, dà l’impressione di riuscire a preservare l’essenza del nucleo familiare e sancirne l’inviolabilità. Tra coperte variopinte e bottiglie d’acqua semivuote, i bambini si lasciano sedurre dagli schermi dei cellulari, le cui suonerie si fondono con l’eco dei pianti dei più piccoli, che monopolizzano le attenzioni delle loro madri.
A un certo punto, dall’ingresso del Centro entra una donna, di un’ottantina d’anni, che cammina sottobraccio di una volontaria italiana della Protezione Civile, che l’aiuta a sorreggersi. “È appena arrivata da Donetsk” – mi dice. L’anziana ucraina mi guarda e conferma, facendo sì con la testa, prima di proseguire.
È severamente vietato fare foto e video, con qualsiasi mezzo, smartphone compreso. I soldati polacchi, posizionati ai vari ingressi e sparsi per il Centro, rimangono vigili e pattugliano la zona. Alcuni di loro, a turno, giocano con i bambini e le bambine nel corridoio principale. Si ritrovano qui, per la maggior parte, dove hanno a disposizione porte da calcio e canestri, presi d’assalto dalle decine di palloni che rimbalzano dappertutto. Dyma, dodici anni, prende il mio tesserino tra le dita per sbirciare il mio nome. Ultimo di quattro fratelli, ci tiene a farmi sapere che viene da Poltava, zona centro-orientale dell’Ucraina, a quasi mille chilometri dal confine polacco. Julija, invece, ha dieci anni e tiene fra le braccia la sorellina di appena sette mesi: “Siamo qui con la nostra mamma, Katia”, mi dice in inglese. Sono partite da Uman, nell’oblast di Cerkasy, regione centrale del Paese.
Nella quiete incerta, è il vociare dei bambini a rompere i silenzi dell’attesa. Le persone, nel Centro di Korczowa, possono rimanere per ore, giorni, anche più di una settimana. La macchina degli aiuti umanitari, nel frattempo, non conosce sosta. Anche all’esterno, lungo il perimetro del Centro, sono stati allestiti i tendoni dove si friggono patatine di continuo, si cuociono wurstel e pollo con verdure.
Di fronte, nel parcheggio, i pullman sostano in attesa di essere riempiti. Sono gratuiti e partono dal centro di accoglienza con diverse destinazioni: Germania, Finlandia, Belgio, Italia, Danimarca. Al desk della Protezione Civile mi dicono che al momento, ogni giorno, tra i dieci e i venti rifugiati ucraini fanno domanda per entrare nel nostro Paese.
Molti di loro hanno già una meta, un conoscente o un parente da raggiungere. Diana, per esempio, è al Centro di Korczowa da due giorni, attende di salire sul pullman che la porterà in Calabria, dove vive la sorella di un’amica. Abitava nei pressi di Kupiansk, nella regione di Kharkiv, duecento chilometri a nord di Lugansk (Donbass) e circa cinquanta chilometri dal confine russo. Non le chiedo l’età, ma deve avere circa quarant’anni. È una donna piuttosto alta, con dei lunghi capelli neri che le scivolano sulle spalle, il naso pronunciato e un accenno di trucco sul viso. Accetta di parlare con me, con l’aiuto di un interprete, ma avverto in lei un certo timore, quasi imbarazzo: tiene gli occhi rivolti verso il basso, le spalle ricurve, le mani giunte e strette fra le ginocchia. Mi domando cosa pensa di me, Diana, mentre le sorrido e cerco di placare il suo nervosismo. Mi siedo di fronte a lei ed esibisco una disinvoltura un po’ bugiarda: non è facile nemmeno per me, che sono uno studente e faccio solo le domande. Io non scappo da nessuna guerra, in venticinque anni non ne ho mai sfiorata una. Lei invece sì, e la sta vivendo adesso, e potrebbe avere tutto il diritto di indispettirsi, di non avere la voglia, né la forza di rispondermi.
«Ti aspettavi l’invasione?” – le chiedo. «No» – mi spiega – «sapevamo che i russi stavano ammassando le truppe al confine, ma immaginavo si potesse arrivare ad un accordo, senza scatenare una guerra». «Saresti pronta» – le domando – «a concedere a Putin ciò che vuole, pur di raggiungere la pace?» «Assolutamente no» – mi dice scuotendo la testa con decisione.
Voglio capire, allora, quali sono le sue intenzioni: «Immagini un futuro lontano dall’Ucraina, oppure pensi di tornare quando le condizioni lo permetteranno?» «Io vorrei tornare a casa mia» – mi risponde mentre i suoi occhi cominciano a farsi lucidi – «ma non ho più niente là, ho perso tutto». Diana scoppia in lacrime. Il nostro colloquio non può proseguire oltre. Un attimo prima di allontanarsi, si volta verso di me singhiozzando. Si asciuga le lacrime con le mani ed esclama: «Putin è un bastardo!»