Ogni lunedì e ogni martedì, verso le 20:30, Alessandro si avvicina al grande parcheggio di fronte alla stazione Ostiense, e insieme a lui ci sono un’ottantina di persone. Arrivano, si siedono sulla lunga panca di alluminio vicino alla fermata dell’autobus, e aspettano. Di lì a poco arriva un furgoncino, parcheggia, e alcuni volontari allestiscono un banchetto per la distribuzione di pasti pronti gratuiti. Alessandro prende la sua busta e poco dopo mi si avvicina. È evidentemente indispettito: si lamenta che anche questa volta, come ogni “santissimo” lunedì, ci siamo dimenticati che lui è intollerante al lattosio. “Lo sapevo! Ci sono venuto, ma lo sapevo che era tempo perso!”, mi dice, cercando di contenere l’agitazione che gli leggo negli occhi. Cerco di tergiversare, promettendogli che la prossima settimana mi ricorderò di portare qualcosa apposta per lui. “Si, si! Anche lunedì scorso mi hanno detto così!”. Alessandro, che avrà una settantina d’anni, non ha certamente un carattere facile, e come lui molti altri.
Sono al banchetto e distribuisco del latte al cioccolato in bicchieri di plastica. L’associazione che l’ha allestito è Romamor, una delle tante realtà della capitale che si occupa di dare un pasto caldo alla lunga fila di senza dimora che mi si è formata davanti. A sorrisi timidi e impacciati si alternano facce dure e ingrugnite. “Dammi il latte”, “riempi”, “veloce”, mi dicono molti di loro. Dentro di me sorrido perché i loro modi mi ricordano quelli dei signorotti
imbacuccati che mi capita di servire quando lavoro come barista sulle Dolomiti bellunesi. Arroganti e boriosi, al momento dell’ordinazione fanno sempre presente di avere una certa fretta, salvo poi intrattenersi al tavolino per ore. La stessa premura caratterizza anche l’umanità che mi si presenta davanti alla stazione Ostiense, che dopo aver ottenuto il proprio bicchiere di latte caldo si risiede sulla stessa gelida panchina da cui è venuta.
Quella dei senza dimora non è una categoria omogenea. Tuttavia, le motivazioni che hanno portato queste persone
a vivere per strada sono spesso ricorrenti. Molti di loro hanno difficoltà di natura psichica. In questa categoria rientra il caso di Lucas, un ragazzo che conosco davanti alla stazione Ostiense. Mi si avvicina una volta terminata la
distribuzione, quando ormai non c’è più cibo, e mi chiede quindi degli spicci. Inizialmente rispondo di non avere monete con me, e con la stessa veemenza con cui è arrivato, riparte. La sua persona mi incuriosisce e decido di raggiungerlo, una vera impresa dato il suo passo rapido e convulso. Entra finalmente in un chioschetto, e alla mia offerta di bere qualcosa insieme accetta. Lucas è italo-brasiliano, 26 anni, la barba bionda incolta e rada, veste un pellicciotto beige ormai logoro e di qualche taglia troppo grande, e dei pantaloni da ginnastica blu elettrico. Lucas vive per strada e la notte dorme alla stazione Tiburtina: “lì non mi stressa nessuno, è più tranquillo”. Fin da subito la
comunicazione è difficoltosa, i discorsi sono sconnessi, mi parla della sua passione per l’informatica e degli studi all’università, ma scendendo nei dettagli si perde, si confonde, e non posso non mettere in discussione ciò che mi dice. Le sue parole sono intervallate da un marcato tic nervoso, che consiste nell’aspirare energicamente l’aria e la saliva a denti stretti, producendo una sorta di fruscìo. Le sue emozioni altalenano come sulle montagne russe: a momenti di stasi e di calma si alternano momenti in cui alza la voce in preda ad un’ira dall’origine sconosciuta. Non
so se queste manifestazioni siano dettate dall’uso di sostanze, anche se la sua pelle e il suo volto scavato lo lascerebbero intendere. I problemi di tossicodipendenza e di abuso di alcol sono molto comuni tra i senza dimora, e
in molti casi sono proprio l’origine del problema.
Alla stazione Ostiense, una buona parte di chi cerca un pasto caldo è composta da stranieri. Per le strade di Roma vivono nella marginalità all’incirca 2000 persone tra richiedenti asilo, rifugiati politici e titolari di protezione internazionale, distribuiti in più di 100 insediamenti informali sparsi su tutto il territorio romano. Gli accampamenti sono ovunque, anche nel cuore della città. Conosco Jael, che ha 40 anni ed è etiope, in un piccolo parco a pochi passi da Castel Sant’Angelo, dove è accampato con la sua tenda malconcia. Fatichiamo a comunicare; Jael è ebreo e non parla inglese, ma una lingua che dalla ricorrenza degli inglesismi credo sia yiddish. Capisco che è stato in prigione e ora non ha più nulla, né un posto in cui stare né una possibilità di reinventarsi.
Una parte degli stranieri che vive per strada sceglie volontariamente di uscire dai CAS, i centri d’accoglienza speciale, stanca di vivere in luoghi sovraffollati in cui è impossibile ricavarsi un proprio spazio e una propria intimità. Un’altra parte i CAS li deve lasciare nel momento in cui la domanda di protezione internazionale viene rigettata. A quel punto la strada non è una scelta, ma l’unica opzione, e ci si finisce da clandestini, senza documenti e senza alcuna possibilità di integrazione e di indipendenza economica. Al mercato del lavoro si accede illegalmente, finendo con buona probabilità nelle maglie dello sfruttamento.
La strada, però, è in alcuni casi anche una vera e propria vocazione. Stefano ha 57 anni, è di Mestre, e quando gli chiedo se il panino lo vuole con carne o senza riconosce immediatamente il mio accento. “Ah, ma sei veneto! Sono veneto anche io, eh!”. Fino ad un certo punto della sua vita aveva un ottimo lavoro al casinò di Venezia, un tetto sopra la testa e una quotidianità come quella di molti altri. Nel 2010, all’improvviso, sente “una chiamata”. Stefano, che è sempre stato religioso, decide di lasciare tutto ciò che ha costruito fino a quel momento per vivere nella povertà, alla ricerca della sua strada, del suo percorso, seguendo i segni che Dio gli invia e che è suo compito decifrare. Conosco Stefano un sabato sera durante una distribuzione di pasti gratuiti nei pressi di Piazza San Pietro: è proprio seguendo uno di questi segni divini che è arrivato a Roma, e ora sta cercando di capire se la via del sacerdozio gli si confaccia. Prima di Roma ha vissuto in molte altre città, per ultima Londra, da cui è appena arrivato in bus qualche giorno prima del nostro incontro. Bus che lo ha abbandonato per errore in un’area di servizio vicino a Firenze, lasciandolo a piedi e senza zaino. Gli chiedo se abbia interpretato anche questa disavventura come un segno divino; sorride.
Finita la distribuzione gli propongo di passare un po’ di tempo assieme e lui accetta volentieri. Camminiamo per le strade della città e ad ogni singola chiesa ci fermiamo e me ne parla: Stefano è una vera e propria enciclopedia del
mondo sacro. Quando gli chiedo come trascorre le sue giornate, infatti, mi dice che la sua routine consiste nel ricercare una rete wi-fi pubblica per poi studiare ciò che gli interessa dal suo cellulare, che puntualmente ha sempre
la memoria piena. Allo studio alterna la visita a musei, esposizioni e, ovviamente, chiese.
Dopo aver vagato senza meta per un’oretta giungiamo a Piazza Trilussa, a Trastevere, dove si accalca, come ogni sabato sera, una densa ressa di giovani romani. Ci sediamo sui gradini della scalinata che si affaccia sulla piazza, condividiamo una birra. Incuriosito gli chiedo quali siano i segni che Dio gli invia e come faccia ad essere sicuro che l’attribuzione del valore “segno” ad un determinato evento non sia un qualcosa di arbitrario. Stefano mi dice che ad
essere imprescindibile è ovviamente la fede, di cui io ammetto la mia certa carenza, e che i segni si “riconoscono eccome”. Per esempio, ad averlo spinto a Roma, è la costanza con cui Tommaso Moro, scrittore e politico cattolico inglese canonizzato nel 1935, gli appare in un modo o nell’altro nella vita di tutti i giorni. L’ultima volta è accaduta proprio poche ore prima, quando davanti ad un edificio dell’Università della Sapienza ha sentito dei ragazzi che, discorrendo tra loro, lo citavano esplicitamente. “Ti sembra una coincidenza?” mi chiede. “Non è un po’ troppo strano?”
Si è ormai fatto tardi, e lo riaccompagno verso Piazza San Pietro, dove passerà la notte. Per prima cosa cerchiamo di recuperare una busta con delle coperte che gli erano state donate da un’associazione nel pomeriggio e che aveva provveduto a nascondere in un una fioriera di cemento, coprendo il tutto con dei cartoni che avrebbe utilizzato durante la notte per isolarsi dal suolo. Una delle preoccupazioni principali dei senza dimora, come mi dice Stefano, è quella di essere derubati: non potendo portarsi appresso costantemente tutte le proprie cose, è molto comune nascondere le più ingombranti durante la giornata, sperando di ritrovarle alla sera. Arrivati alla fioriera la busta è ancora lì, ma i cartoni sono spariti, e probabilmente ora si trovano sotto la schiena di qualche altro senza tetto nei paraggi. Vaghiamo così per i vicoli adiacenti al Vaticano, alla ricerca di cartoni che possano fungere da materasso di fortuna, trovandone alcuni in un cassonetto. Ora che l’occorrente per la notte è stato radunato non resta che trovare il luogo giusto. La notte scorsa Stefano l’ha passata su un gradone di fronte a una chiesa sul viale che da Castel Sant’Angelo porta a Piazza San Pietro, e questa notte conta di fare lo stesso. Quando ci avviciniamo, però, una signora sulla sessantina dal marcato accento esteuropeo ha già occupato il gradone, e pur essendoci spazio a sufficienza per più persone ci fa capire senza mezzi termini che quello è il suo spiazzo e non intende condividerlo. Al tentativo di mediazione consegue un categorico “tu, qua, non dormi”. Dopo aver vagato per un’altra mezz’oretta,Stefano trova infine il posto giusto proprio ai lati di una Piazza San Pietro completamente deserta. A Roma esiste una fitta rete solidale che lavora con i senza dimora. Sul territorio si contano ben 120 associazioni dalle origini e dai retaggi più disparati, che cercano di sopperire ai bisogni della quotidianità, fornendo supporto psicologico, vestiario, coperte e, ovviamente, del cibo. Tra queste, Romamor si occupa di preparare dei pasti pronti da distribuire le sere del lunedì e del martedì alla stazione Ostiense, del sabato e della domenica alla stazione Tuscolana e nei pressi di Piazza San Pietro. L’associazione è su base completamente volontaria, e le attività sono organizzate in due turni, ciascuno da 6-7 persone: durante il primo vi è la preparazione del cibo, dalle 16:00 alle 20:00, e durante il secondo la distribuzione, che avviene intorno alle 20:30. Il menù prevede solitamente un primo piatto caldo, panini, frutta e delle barrette energetiche, e il tutto viene distribuito in una singola busta. Fin dal primo momento in cui varco la porta della cucina di Romamor l’atmosfera è quella di un gruppo di amici di lunga data. Se vi sono certamente delle new entry come me, buona parte dei volontari si conosce da anni: per loro l’appuntamento settimanale in questa cucina è un’abitudine consolidata.
Anche il volontario, così come il senza dimora, non ha un identikit predefinito. A Romamor ci sono giovani e pensionati, romani e forestieri, religiosi e miscredenti. Il primo pomeriggio che mi presento in sede per la preparazione del cibo mi trovo a sedere ad un lungo tavolo con Carlo e Angelo, che frequentano l’associazione da qualche settimana. Spalmiamo del gorgonzola su dei panini che verranno poi farciti con del cavolo nero, l’atmosfera è quella della briscola tra amici. Carlo, che ha 72 anni ed è di Monza, è un chirurgo plastico in pensione. Persona colta e dilettevole, è senza dubbio un grande amante della provocazione. Quando gli parlo della mia nuova passione per gli audiolibri mi dice: “A me piacciono molto i gialli, li leggo perché sto cercando di capire come uccidere mia moglie”. Angelo è certamente più posato, ma non per questo meno interessante. 77 anni, pugliese, fino ai 30 anni ha vissuto come frate in un convento di clausura. Nutrendo dei dubbi insuperabili per il cattolicesimo, decide di abbandonare l’ordine e si reinventa programmatore informatico, sfruttando un corso che aveva fatto in precedenza per pura casualità. In cucina, Laura si occupa della preparazione del primo piatto. Ha lavorato alla Ragioneria di Stato, professione che mi dice senza mezzi termini di non aver mai amato, e ora è in pensione. Frequenta Romamor da più di dieci anni ed è uno dei pilastri fondanti dell’associazione. Mentre puliamo con cura una cassetta di carciofi, mi racconta di come il problema dei senza dimora abbia diverse facce: le case popolari scarseggiano, i servizi sociali sono inefficienti e chi vive per strada, spesso, non è esattamente uno “stinco di santo”. Una volta pronti, i primi vengono ripartiti in delle vaschette di plastica e i panini incellofanati. Il tutto viene accuratamente imbustato da Brian e Gavin, due ragazzi americani sulla ventina che frequentano una scuola ecclesiastica e hanno scelto Roma come destinazione di uno scambio culturale. Alle 20:00, poco prima della distribuzione, raggiungo insieme a Julian, un altro volontario, un piccolo frutta e verdura gestito da dei ragazzi romeni. È uno dei tanti negozi, supermercati, panifici, pasticcerie che regalano all’associazione il cibo invenduto, ridandogli nuova vita e inserendolo in un circolo virtuoso che permette la stessa esistenza di Romamor. Cibo assolutamente buono da mangiare ma che verrebbe gettato nell’immondizia: il giorno seguente non rispetterebbe più gli standard estetici surreali che ci aspettiamo di trovare in ciò che mettiamo a tavola tutti i giorni.Dopo aver percorso qualche chilometro lungo la Tuscolana, tra il traffico e le luci del sabato sera, giungiamo alnegozio dove una decina di cassette piene di frutta e verdura è già stata impilata all’esterno. Le carichiamo nelfurgone, ringraziamo e torniamo verso l’associazione: la frutta che abbiamo appena recuperato viene aggiunta allebuste, che adesso sono pronte per essere caricate in furgone e distribuite alle stazioni.
Frequentando Romamor per un mese ho avuto l’occasione di osservare alle distribuzioni dei pasti decine di persone
che vivono per strada, e la domanda che mi sono posto costantemente è stata: “queste persone sono reinseribili in un contesto di vita normale?”. Dopo aver finito di bere il caffè insieme, Lucas mi accompagna verso casa per una decina di minuti. Al momento di salutarci ci scambiamo il numero di telefono e lo contatto dopo alcuni giorni. Gli propongo di rivederci, gli dico che mi piacerebbe conoscere meglio la sua storia. “Ok, va bene”, mi dice inizialmente. Poi, sparisce.
La stessa cosa capita con Stefano. Prima di lasciarlo al suo letto di cartone, in una Piazza San Pietro desolata, mi dà il suo contatto. I giorni seguenti ci scambiamo alcuni messaggi, gli propongo di incontrarci. Mi dà appuntamento di lì ad una settimana per una conferenza di un certo Don Fabio Rosini, nel quartiere di San Lorenzo.
Accetto incuriosito, e chiedo altre informazioni sulla data e sull’ora dell’evento, ma anche Stefano, come Lucas, si dilegua. Tra me e loro ci sono sicuramente delle difficoltà tecniche: sia Lucas che Stefano hanno telefoni datati, senza schede, e per connettersi a internet utilizzano solamente reti pubbliche. Ma mi sembra che tra di noi ci sia una distanza più difficile da colmare. Una distanza che non è dettata dal malfunzionamento di un vecchio cellulare, ma dalla loro volontà, consapevole o meno, di rimanere ognuno nella propria ombra. Un’ombra che per loro è casa, e per quanto buia e inospitale, è pur sempre casa.