Il conflitto ucraino raccontato dal campo. Cristiano Tinazzi, testimone della strage alla stazione di Kramatorsk

Cristiano Tinazzi è un giornalista freelance specializzato in conflitti e crisi umanitarie. Dove succedeva qualcosa, Tinazzi sembrava esserci: Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, soltanto alcuni dei tanti conflitti coperti nel corso della sua lunga esperienza da reporter di guerra. 

In Ucraina fin dall’inizio dell’invasione russa, Cristiano Tinazzi è stato uno dei primi reporter a raggiungere la stazione di Kramatorsk l’8 aprile 2022. Quel giorno un missile Tochka-U rilasciò una serie di ordigni su una stazione gremita di gente, uccidendo più di 50 civili. 

Puoi raccontarmi di quella giornata? 

In quel periodo, ad inizio aprile, le autorità ucraine avevano intimato alla popolazione di evacuare il prima possibile. Kramatorsk era uno degli snodi principali dell’area, visto che permetteva di raggiungere Dnipro e Kiev. Partivano tre treni al giorno, in realtà mai garantiti per i bombardamenti alle linee ferroviarie. 

Il mattino dell’8 aprile siamo prima andati in una delle piazze principali della città, con la speranza di incontrare chi evacuava con gli autobus. La situazione che abbiamo trovato era tranquilla e abbiamo deciso di spostarci alla stazione. Dovevamo incontrare una volontaria conosciuta nei giorni precedenti. 

Quando stavamo per ripartire sentiamo una forte esplosione. Non sapevamo da dove provenisse. Ci arriva immediatamente un video dalla volontaria che ci attendeva, dove si vedevano auto che bruciavano. 

Io guidavo, con me c’erano Luciana Coluccello e Andrea Carrubba. La strada che portava alla stazione è sopraelevata rispetto al resto della città, e abbiamo visto del fumo nero che si sollevava. Proveniva dalla stazione, gremita di gente. Eravamo increduli. 

Una volta arrivati là? 

Abbiamo lasciato la macchina all’ingresso e siamo corsi verso l’entrata. Era un disastro: c’era caos, gente che scappava ovunque, il missile a terra fumava ancora. 

Ricordo un uomo della difesa territoriale che chiedeva kit di pronto soccorso urlando, noi gli abbiamo dato i nostri. Ho provato a girare qualche immagine, ma mi sono subito messo ad aiutare la gente. In mezzo al casino avevo perso gli altri colleghi. 

Con altri tre soccorritori abbiamo alzato da terra una ragazza che urlava, era gravemente ferita. L’abbiamo messa dentro un’auto civile, visto che non erano ancora arrivate le ambulanze. Molta gente era già morta. Ricordo una ragazzina che giaceva a terra con entrambi i piedi tranciati. 

C’erano pochi soccorritori rispetto alla portata del disastro. Ad un certo punto è arrivato un autobus di linea, l’obiettivo era di portare le persone all’ospedale in ogni modo possibile. Sono arrivate anche le ambulanze, ma non erano comunque sufficienti. Le persone avevano gravi emorragie, arti staccati. 

Dei militari cercavano di tagliare con i coltelli i resti di un tendone per gli aiuti umanitari crollato sopra le persone. Hanno poi allineato i corpi senza vita in un’area dietro la stazione, coprendoli come potevano. È stato un vero trauma. 

La strage è stata causata dall’impatto del missile? 

Non è stato il missile in sé a fare danni. Il giorno dopo siamo tornati in stazione. Era deserta, c’erano solo militari che raccoglievano evidenze e resti umani rimasti sui binari. Abbiamo cercato di ricostruire la dinamica. È stato utile ad elaborare il trauma. 

I punti di impatto erano molti e corrispondevano alle aree dove morì più gente. Io ne avevo individuati diversi: uno sulle auto all’entrata della stazione; uno sul tendone di cui ti ho parlato, a terra c’era ancora il segno della rosa delle schegge. Insomma, i punti di impatto erano tanti. Ho subito capito che c’erano state più esplosioni, anche la ragazza che dovevamo incontrare l’ha confermato. Ho pensato subito a delle bombe a grappolo. 

Hai verificato la presenza della scritta “per i bambini”? 

La scritta c’era, ho anche fotografato il missile. Quando siamo arrivati una parte del missile era ancora incandescente, mancava solo la testa. 

Quando è uscita l’investigazione di Human Rights Watch la mia ipotesi è stata confermata. Le bombe a grappolo sono state rilasciate dalla testa del missile Tochka-U che ti ho detto. 

Ma le bombe a grappolo sono vietate dalla convenzione ONU 

Siamo davanti ad un crimine di guerra in ogni caso, visto che l’attacco era rivolto a civili. La Russia fa un uso indiscriminato delle bombe a grappolo. Le hanno usate regolarmente a Mykolaïv, l’ho visto personalmente. 

La propaganda russa afferma che il missile caduto nella stazione di Kramatorsk proveniva dai depositi ucraini. È credibile? 

Qualsiasi affermazione prendi dai russi è falsa. La maggior parte delle notizie che provengono dalla loro parte sono mistificatorie. A partire dal “non invaderemo mai”. 

Subito dopo l’evento hanno detto che il missile era stato lanciato dagli ucraini per sbaglio, e che non avevano quel tipo di missile nei loro depositi. Tempo dopo è stato confermato che i russi avevano quei missili, visto che li usarono i separatisti del Donbass. 

I russi hanno anche sostenuto che il numero di matricola del missile era ricollegabile ai depositi ucraini, ma questo è stato smentito. 

In generale, non aveva nessun senso la narrazione dell’errore di calcolo da parte ucraina. Nemmeno quella secondo cui gli ucraini avevano colpito volontariamente la stazione per dare la colpa ai russi. 

Parlando più in generale del conflitto, hai seguito l’esercito ucraino anche al fronte? 

Nelle ultime settimane ero a Bakhmut. Già bombardavano pesantemente, ma non era la situazione infernale che c’è adesso. Ora ai media è vietato entrare. È un terno al lotto, si muore facilmente, si rischia troppo. [L’intervista risale a quando Bakhmut era ancora teatro di scontri; è poi caduta in mano russa, Ndr.].

Ad aprile 2022 avevo passato un po’ di tempo con il battaglione 206, la difesa territoriale che è stata poi integrata nell’esercito regolare. Sono ritornato con loro a settembre, quando iniziò la controffensiva di fine estate. In quel periodo attraversavamo villaggi completamente disabitati. C’erano solo animali che vagavano in cerca d’acqua, era un’atmosfera surreale. 

Seguivi la questione ucraina già da Maidan? 

Sono stato in Ucraina per la prima volta nel 2015, in quell’occasione ero stato anche dalla parte dei separatisti. Gli eserciti erano formati da volontari, spesso disorganizzati, poco formati a livello professionale. Un esempio: entrambi gli eserciti avevano nel loro kit di pronto soccorso i lacci emostatici. Ora chi li utilizza più? Soltanto i russi. Ma nessun esercito odierno li usa, mancavano proprio le dottrine militari base dell’Occidente. 

Dove ti trovavi all’inizio dell’invasione? Com’era la situazione?

Quando cominciò mi trovavo a Dnipro. Sembrava la fine del mondo. Migliaia di persone scappavano portandosi dietro indumenti, benzina, soldi. Producevano molotov a casa e nelle piazze. Una colonna di mezzi di 60 km stava marciando verso Kiev, non si sapeva cosa sarebbe successo. Nel caso fosse caduta in mano russa, Dnipro sarebbe diventata la seconda ridotta. 

All’inizio mancavano i giubbotti antiproiettile. A Zaporižžja mi sono trovato in un centro di volontari che li produceva in maniera artigianale. Una ex fabbrica di mobili da giardino era diventata un posto da film: lì dentro c’erano 200 saldatori che ascoltavano musica rock, ottenevano l’acciaio per le piastre da rottami di auto e lo sagomavano. 

Specialmente all’inizio la resistenza collettiva è stata importante. Anche normali cittadini impedivano l’avanzata o sabotavano i russi dove potevano. Poi gli aiuti occidentali hanno fornito migliori equipaggiamenti. Molti soldati sono andati all’estero per addestrarsi. Si sono rivelati fondamentali anche i droni. 

Come si evolverà il conflitto? 

Qualche giorno fa mi trovavo nella più grande comunità ebraica del paese, qui a Dnipro, e ho ricevuto la stessa domanda da un insegnante di Torah, che mi ha fatto un paragone interessante: come gli ebrei non hanno dimenticato la tragedia dell’olocausto, gli ucraini non dimenticheranno le violenze subite dai russi, a prescindere da come andrà a finire. La comunità ebraica ha vissuto una memoria storica attraverso l’invasione. 

Se si aggiunge la narrazione russa della denazificazione, la situazione arriva al paradosso

Ho parlato con molta gente dei villaggi liberati. Nella regione di Mykolaïv i russi avevano conquistato villaggi prettamente agricoli. Ricordo di aver incontrato una signora sulla sessantina vestita con i classici vestiti da campagna. Mi ha riferito che i soldati russi, una volta arrivati, hanno detto alla popolazione del villaggio di volerli liberare dai nazisti. La signora mi ha poi detto “noi non vogliamo essere liberati. Da cosa soprattutto?”. 

Questo è il grado di propaganda di cui sono imbevuti i soldati russi. Questa propaganda arriva anche sui social, che si polarizzano in maniera incredibile attorno alle tematiche di guerra. 

Ti aspetti la controffensiva?

Se ci sarà, penso che partirà da Zaporižžja e seguirà l’asse sud per tagliare la Crimea. Non potrà avvenire prima dell’arrivo dei mezzi corazzati. Ma è solo un’ipotesi. 

Cosa ne pensi della lettera firmata da Capuozzo e da altri storici reporter di guerra? 

Ricordo bene di quell’appello, era un attacco ai freelancer, a me quindi. 

Ho interpretato la questione in due modi. Da una parte volevano dire “noi siamo i più anziani del mestiere e la sappiamo più lunga di voi che siete dei cretini”. Dall’altra, credo ci sia una sorta di incapacità, data dall’età e da un gap digitale, di leggere il mondo attraverso le nuove tecnologie. Non riescono ad uscire da costrutti ideologici superati, il muro di Berlino è crollato, non si parla più di un conflitto bipolare. Ci sono nuovi strumenti per analizzare i conflitti. Un esempio sono i big data: le geolocalizzazioni hanno addirittura permesso di risolvere crimini di guerra, come nel caso del New York Times. Smontano la propaganda facendo altra propaganda. La propaganda è in tutte le guerre, anche dalla parte ucraina, ad esempio. Per fare buon giornalismo bisogna separare i fatti e le opinioni, sapendo però che la neutralità non esiste. Il lavoro del reporter è quello di denunciare ciò che vede, come i crimini di guerra. 

L’analisi di Capuozzo era fatta dal divano di casa, mentre il Times utilizzava i satelliti. Penso che ci sia uno scontro generazionale dietro la lettera.