Un anno fa moriva Amedeo Ricucci, storico inviato di guerra della Rai che ha raccontato la Siria negli anni della guerra civile
Amedeo Ricucci ha seguito e raccontato i principali conflitti internazionali per oltre vent’anni, vincendo numerosi premi, fra cui: Premio Ilaria Alpi (2001), Premio speciale Amade del Festival de Télévision de Monte Carlo (2016) e i Premi Cubavisiòn (2015), Giornalisti del Mediterraneo (2012 e 2015), L’anello debole (2018) e il Coraggio delle immagini (2018). Ha pubblicato ‘La guerra in diretta’ (2004) e ‘Cronache dal fronte’ (2019).
L’intervista risale all’aprile del 2021.
Buongiorno, Amedeo. Posso “darti del tu?”
Certamente.
Sei un giornalista professionista, dal 1993 lavori in Rai. Quando è iniziata la tua carriera come reporter di guerra?
A ventotto anni sono andato in Africa, vincendo un concorso delle Nazioni Unite come addetto stampa in un ufficio regionale dell’Unicef. Ho avuto l’opportunità di girare trentasei paesi africani e di coprirli facendo video, foto, scrivendo pezzi. Lì, tra un’epidemia, una carestia e un’alluvione, c’erano le guerre, come in Liberia o in Ciad. Nel 1991 sono rientrato in Italia e ho cominciato a collaborare col Manifesto. Due anni dopo sono entrato in Rai, dove ho avuto la fortuna di occuparmi di esteri. A me piace dire che la mia gioventù scapestrata, da fricchettone militante della sinistra rivoluzionaria, mi ha portato verso questo sbocco per un motivo banalissimo: appartengo alla generazione che girava il mondo col sacco a pelo, ero abituato ad adattarmi. In un contesto di guerra ti capita di dormire per terra, sul selciato, di non farti la doccia per giorni, di mangiare continuamente schifezze. Mi sono ritrovato a mangiare molto spesso dei formaggini, di cui sono un adoratore e ai quali ho dedicato delle odi pazzesche (ride, ndr).
Sei stato inviato in molte zone di conflitto: Somalia, Afghanistan, Libano, Iraq, Siria, solo per citarne alcune. C’è una realtà che ti è rimasta particolarmente impressa?
La Siria, per motivi diversi. Il più banale è che mi ci hanno sequestrato. Era una guerra difficile da raccontare, richiedeva una grande capacità di sopportazione, ma sono riuscito a tessere molte relazioni umane. In questo mestiere si viene a contatto con una molteplicità di storie e situazioni incredibili, di una ricchezza straordinaria, ma serve tempo per capirle e farle proprie. Quando il giornalista rimane pochissimo sul luogo, c’è il rischio che tutto gli scivoli addosso, che finisca per consumare la realtà col solo fine di tradurla in reportage. Ci sono bellissime città di cui serbo pochi ricordi, perché il lavoro ti costringe a mantenere uno sguardo che ti consenta di produrre qualcosa a fine giornata, che sia un testo scritto o un filmato digitale. Meno tempo resti in questi posti, meno le situazioni ti restano dentro. In Siria, invece, sono stato diverse volte e con lunghe permanenze. Mi è entrata nel cuore.
Ci piace credere che fare informazione, raccontare il mondo, possa realmente contribuire a cambiare le cose. Pensi sia vero?
Non so se sia vero, però sentirlo è necessario. È il dilemma di tutti i giornalisti. Il giornalista è convinto che denunciando e raccontando determinate realtà si possa cambiare il corso degli eventi. Poi, a dire il vero, spesso ti rendi conto che non cambia un cazzo. Io cito sempre un episodio, contenuto nel mio reportage ‘La battaglia di Aleppo’, avvenuto nel pieno dei bombardamenti. Davanti ad un ospedale, nel quale arrivavano centinaia di feriti in continuazione, una donna siriana
prese le mie mani e mi disse: “Voi filmate, filmate, ma non serve a nulla. Morti, morti, solo morti. Chi ci aiuta? Chi ci aiuta a noi?”.
Tra l’altro, quel reportage che ho filmato nel 2012 è l’unico della mia vita che gode di un triste primato: tutte le persone che ho intervistato sono morte. Erano le nostre guide, il portavoce del Free Syrian Army, il comandante della zona militare di Aleppo, i nostri amici che ci ospitavano. Non ce n’è uno che sia rimasto in vita.
C’è da dire che se in Italia ci sono diverse organizzazioni che si occupano di mandare aiuti in Siria, di sostenere i campi profughi o le strutture scolastiche ed ospedaliere, questo è anche merito dell’informazione che è stata fatta. Detto ciò, non penso che sia il giornalista a salvare il mondo, però è necessario tendere verso quell’obiettivo. Altrimenti, perché racconti una guerra?
Nell’ottobre del 2012 sei stato ad Aleppo, città devastata dalla guerra civile. Hai seguito i ribelli da vicino: cosa pensavano di fare dopo l’eventuale caduta di Assad?
Si sbaglia a metterla così. La rivoluzione siriana, così come tutte le primavere arabe, non è stata fatta in funzione di chissà quale assetto. La gente si è mobilitata per proteggere le manifestazioni, si è organizzata per difendersi dagli spari dell’esercito di Assad. Nessuno pensava al dopo, si pensava solo a rovesciare il regime. Improvvisamente, è caduto il muro della paura. Ricordo che la prima volta che sono andato in Siria, prima che iniziasse la rivoluzione, un mio collega mi avvertì di non fare due cose: parlare nei taxi, perché i tassisti erano tutti spie del regime, e parlare nelle hall degli alberghi, perché c’erano uomini dei servizi segreti ad origliare le conversazioni per conto del governo. Ecco, la gente voleva porre fine a questo stato di polizia, i giovani prima di tutti. Sapevano di non avere un futuro e, a differenza dei loro padri, hanno avuto il coraggio di rivoltarsi. Sono fallite queste rivoluzioni? In parte sì, ma le rivoluzioni si giudicano sul lungo periodo. Trovo che sia un po’ razzista pretendere che gli arabi realizzino una democrazia parlamentare facendo le cose per bene e senza violenza. Non ce l’abbiamo noi una democrazia perfetta. E la chiediamo agli arabi?
Il 3 aprile del 2013 sei stato rapito dall’Isis insieme ad altri tre tuoi colleghi. Che persone erano quei miliziani dello Stato Islamico?
Ho fatto tesoro di quella esperienza. Lì ho capito quello che in molti hanno capito dopo tanto tempo, cioè che l’utopia regressiva dell’Isis esercitava un fascino incredibile in più generazioni di musulmani, indipendentemente dalla loro condizione sociale. Il gruppo che ci rapì era costituito da un centinaio di miliziani, c’era di tutto: ragazzini di 18 anni che facevano i pastori di capre nelle montagne dello Yemen e plurilaureati di informatica ad Harvard. Si parlava inglese e francese. Io sono stato interrogato da due ragazzi, uno marocchino e uno tunisino, laureati in Francia, con una conoscenza digitale ad altissimi livelli. C’era un ragazzo egiziano, medico di ottima famiglia, che parlava di musica e di non so quale rapper. Con il loro capo, un ex ufficiale iracheno di Saddam Hussein, discutevo di geopolitica, mi chiedeva pareri sull’Italia e sugli Stati Uniti. Io ero bendato e incaprettato, lui indossava il passamontagna. La cosa impressionante è che nel gruppo non c’erano siriani. Venivano da tutto il mondo, erano ferventi musulmani. A dirla tutta, ‘ferventi’ nemmeno troppo, visto che mi hanno rubato i sigari e se li sono fumati.
Quale futuro attende i curdi in Siria?
I curdi sono stati i grandi sconfitti di questa guerra, dopo la popolazione siriana in generale. Il loro problema è questo legittimo sogno di indipendenza. Un sogno irrealistico, secondo me e secondo tutti i crismi della politica internazionale. La loro agenda politica è sempre stata differente da quella degli arabi siriani che si opponevano ad Assad. In Siria, i curdi hanno avuto storicamente un rapporto ambiguo col regime, perché provavano ad ottenere la maggiore autonomia possibile.
Con l’inizio della guerra contro il Daesh, hanno provato a diventare gli alleati più fedeli dell’Occidente, sono stati utilizzati come fanteria d’assalto e si sono lanciati in questa impresa contro l’Isis sperando di ottenere in cambio l’autonomia, se non l’indipendenza. Ma gli americani, una volta smantellato l’Isis e non avendo più alcun interesse, hanno lasciato che i turchi penetrassero in Siria. Chiaramente, i turchi non possono permettere una regione autonoma nel nord-est, proprio al confine con la parte curda della Turchia: l’effetto contagio sarebbe immediato. Adesso, i curdi si ritrovano con un pugno di mosche in mano, senza sostegno internazionale, sotto schiaffo dei turchi, col regime che prima o poi si riprenderà il controllo delle sue città. Dubito che riusciranno a mantenere quella autonomia che Assad gli aveva concesso in extremis, quando ai tempi non poteva più combattere su più fronti.
Come giudichi l’operato dei giornalisti siriani ostili ad Assad?
Direi che sono riusciti a creare una rete civica, anche di citizen journalism, molto attiva, lo dimostrano esperienze come l’Aleppo media center o la radio dell’opposizione a Kafranbel. Realtà che hanno prodotto atti di giornalismo, fatte di militanti che davano informazioni su quel che stava accadendo. Il problema più grande, secondo me, è stato che i siriani si sono illusi che questa rete di controinformazione fosse sufficiente a rilanciare le loro aspirazioni. Pur con tutte le giustificazioni del caso, hanno fatto poco per consentire alla stampa internazionale di accedere: se non c’è la BBC o la CNN a documentare una situazione, diviene tutto più difficile.
Hai seguito il conflitto siriano in questi dieci anni, documentando l’esodo di milioni di profughi. Ti chiedo: cosa è cambiato dal 2011? Come vedi la Siria nel futuro più prossimo?
La rivoluzione ha perso. Assad ha vinto, ma sai come si dice in gergo: “Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace”.
La Siria non c’è più. È un Paese distrutto al 70 percento, in cui la ricostruzione non parte e ci vorranno anni prima che parta. È un Paese spopolato, in cui almeno la metà della popolazione è sfollata o profuga all’estero e difficilmente rientrerà. Per di più, non è neanche del tutto pacificato, perché esistono sacche di resistenza come nella regione di Idlib, dove sono stati ammassati gli oppositori, che non si sa che fine faranno. Di certo, le aspettative dei ribelli non si sono realizzate. La rivoluzione non solo ha perso, ma è stata confiscata dagli jihadisti, la cui presenza è diventata preponderante sul piano dell’opinione pubblica internazionale. Da un certo punto in poi, agli occhi dell’Occidente, quella che era una guerra civile tra il regime e gli oppositori è diventata una guerra in cui era l’Isis a fagocitare tutti i gruppi ribelli. Non era così nei fatti, ma a livello di grande narrazione si è percepito questo. L’Isis ha cominciato a far fuori anche tutta la parte laica della rivoluzione, quella più politicizzata dal punto di vista dei diritti civili e della volontà di creare una società migliore. La Siria di oggi non ha niente a che vedere con la Siria pre-2011, per ragioni oggettive, ma anche perché le ferite e le lacerazioni non si rimarginano. Anche il modo in cui il regime eserciterà il controllo sarà diverso rispetto a prima.
Ci sarà una nuova rivoluzione? Forse sì.
Tornerai in Siria?
A me piacerebbe anche adesso. Ogni sei mesi provo a chiedere di poter entrare a Idlib, ma nessuno è in grado di garantire la tua sicurezza. All’epoca della battaglia di Aleppo, era il Fsa ad occuparsi di organizzarti la logistica, perché aveva una struttura che controllava il territorio. Ora, non ci sono le condizioni.
Grazie, Amedeo.
Per qualsiasi cosa, fammi un colpo di telefono.