Di piste, nel caso Orlandi, ne sono state percorse tante. Tre le principali: quella internazionale, che vede Emanuela rapita dai Lupi Grigi per estorcere al Vaticano la liberazione di Mehmet Alì Ağca; quella del ricatto alla Santa Sede operato da parte di Cosa Nostra, con la complicità della banda della Magliana, al fine di recuperare denaro investito nello Ior e “perso” nel crack dell’Ambrosiano; e, infine, quella che vedrebbe il Vaticano impegnato a tenere la ragazza segregata a Londra. Quale sia l’ipotesi corretta – e, probabilmente, più di una lo è –, il punto cruciale ruota sempre attorno a una domanda, la prima che dovrebbe palesarsi quando si ragiona sul caso ma anche quella a cui è più complicato rispondere: perché Emanuela?
Questo non è un interrogativo tra gli altri, ma il vero enigma dal quale si snodano necessariamente tutti gli altri quesiti. Perché Emanuela – e non c’è stato in tutti questi anni alcun motivo, neanche mezzo, per dubitarne – era una normalissima ragazza della sua età, cresciuta tra le mura apparentemente più sicure del mondo in una famiglia sana e coesa. L’ipotesi più accreditata – in praticamente tutte le piste che coinvolgono direttamente la curia – ha sempre ruotato attorno al fatto che Emanuela fosse cittadina vaticana e il ricatto avrebbe funzionato, nel progetto dei rapitori, proprio perché la Santa Sede, nella figura del suo regnante, non avrebbe mai abbandonato una propria cittadina. Possibilità assolutamente credibile, ma in qualche modo mancante di qualche cosa. Perché, come spesso ripete Pietro Orlandi, un silenzio così assordante da parte del Vaticano fa pensare che quella ragazza, per qualcuno tra quelle mura, dovesse in qualche modo rappresentare un pericolo vero e proprio, talmente imponente da minacciare l’istituzione intera. Occorre chiarirlo: anche questo pensiero mantiene lo stato di ipotesi e come tale, fino a prova contraria, va approcciato. Ma ciò non significa che non abbia quantomeno un fondo di verità, lo stesso che, in tempi recenti, sembra essersi materializzato con prepotenza attraverso una scioccante rivelazione portata da Netflix, con la serie Vatican Girl, su tutti i piccoli schermi del mondo: poco prima di sparire nel nulla, Emanuela avrebbe confessato a un’amica di aver ricevuto, durante una delle sue passeggiate nei giardini vaticani, delle avance da un alto prelato molto vicino a Giovanni Paolo II. Sono parole, quelle di questa confidente, che determinano un cambiamento radicale della situazione e che, riaffermando un movente che dapprima appariva come un ronzio nelle orecchie, potrebbero almeno in potenza fornire una risposta diversa alla fatidica domanda: perché Emanuela?
In questo caos, è impossibile restare indifferenti rispetto a tutto ciò che, dal 1983 a oggi, è accaduto dinanzi ai nostri occhi e dietro le nostre spalle. A prescindere da come la si pensi, perché ognuno, fortunatamente, è libero di farsi la propria opinione. È innegabile che si necessita, e con una certa urgenza dato che dopo quarant’anni fare ordine è un compito assai più arduo, di rimettere al loro posto tutti i pezzi scombinati di quello che è, senza essere sensazionalistici, uno dei puzzle più complessi della storia recente del Bel Paese e non solo. A partire da due evidenze: la prima è che la sparizione di Emanuela non è stata un caso; la seconda è che tutto, in un modo o nell’altro, conduce sempre all’interno delle mura leonine. Quelle mura dove, se non fosse per la storia che hanno, non ci si aspetterebbe regni un silenzio tale da finire, in preda all’effetto boomerang, per sconquassarle.
È crollato il muro?
È chiaro che la strategia del silenzio non abbia funzionato. E chi di dovere se n’è accorto qualche mese fa, quando, dopo anni di rogatorie rispedite al mittente e collaborazioni inesistenti o nel migliore dei casi accennate a parole, è stata aperta – e non riaperta come qualcuno ha erroneamente scritto – la prima inchiesta vaticana sul caso. Anche se, unendo qualche puntino, si può facilmente arrivare a dedurre che qualcosa si fosse già mosso negli anni passati. Lo confermò lo stesso Monsignor Gänswein, noto ai più come Padre Georg, all’avvocata Sgrò, la quale, anche nel suo libro di recente uscita Cercando Emanuela (Rizzoli 2023), ribadisce come il segretario particolare di Benedetto XVI la esortò a chiedere il dossier sulla cittadina vaticana che era custodito in Segreteria di Stato e che il “corvo” Paolo Gabriele, condannato nel processo del Vatileaks, vide coi propri occhi, senza però riuscire a fotocopiarlo per darlo in mano ai media. Peccato che qualche anno dopo lo stesso Padre Georg ritratterà, prima dicendo che nessun dossier era stato redatto, poi declassandolo a semplice appunto privo di informazioni nuove o significative. Fatto sta che Monsignor Miserachs, maestro di canto corale di Emanuela, già ai tempi dell’inchiesta in mano a Capaldo fu sentito dalla gendarmeria vaticana, peraltro in presenza dell’assessore per gli affari generali della Segreteria di Stato, Peter Wells. Un’occasione tutt’altro che informale, dunque.
In ogni caso, la possibilità di consultare documenti impolverati che in effetti si trovano all’interno del Vaticano è toccata ad Alessandro Diddi, avvocato che dall’anno scorso svolge l’incarico di Promotore di Giustizia della Santa Sede. Causando lo stupore di molti (ma non certo di tutti), è proprio Diddi ad affermare che tali carte, le quali «forse erano sfuggite negli anni passati agli inquirenti» (bisognerebbe però capire a quali si riferisce), confermano «alcune piste di indagine meritevoli di ulteriore approfondimento». Almeno questa parentesi sembra essersi chiusa: qualcosa su Emanuela, in qualche stanza vaticana, evidentemente c’è sempre stato. Visto il segreto istruttorio non è dato attualmente conoscere la natura e il contenuto di questi fogli, ma è di dominio pubblico il fatto che siano stati trasmessi nelle ultime settimane, congiuntamente ad altri atti d’indagine, alla Procura di Roma presieduta dal pm Lo Voi, con l’inchiesta affidata al sostituto procuratore Stefano Luciani. Un momento storico, perché per la prima volta Vaticano e Stato Italiano lavorano sinergicamente al caso di Emanuela, si spera con l’intenzione di indagare davvero, come richiesto da Papa Francesco e il Segretario di Stato Parolin, seguendo quell’imperativo categorico che, purtroppo, non è mai una certezza: niente sconti a nessuno. Che significa anche ascoltare chiunque possa essere a conoscenza di qualcosa, anche di apparentemente insignificante, che abbia a che fare col destino della cittadina vaticana. Chiunque, ma anche e soprattutto quei 28 nomi che Pietro Orlandi, durante una verbalizzazione durata la bellezza di otto ore, ha consegnato al Promotore di Giustizia, il quale tra l’altro, prima ancora di incontrare il fratello di Emanuela, aveva già ascoltato altri testi.
La via parlamentare
E la politica che fa? Negli anni questa storia ha assunto inevitabilmente, per tutte le vicende e le vicissitudini di cui sopra, tratti politici. Una commissione bicamerale d’inchiesta – proposta dagli onorevoli Silvestri, Morassut e Zaratti – era stata approvata dalla Camera il 23 marzo scorso, in un’unanimità più unica che rara. E sotto scroscianti applausi, in un momento democraticamente potentissimo, si aveva la sensazione che, tra questo e l’inchiesta vaticana, si fosse finalmente giunti a una, anzi alla, svolta epocale.
Eppure, anche questa volta si è rischiato il patatrac parlamentare. Cosa stava andando storto? La votazione della Commissione Affari costituzionali del Senato, che continuava a slittare. E perché slittava? Prima perché c’era bisogno di valutare alcune nuove circostanze, leggasi il circo mediatico causato dalla strumentalizzazione di alcune parole, evidentemente misinterpretate, proferite da Pietro Orlandi in riferimento alle scappatelle notturne di Wojtyla, notoriamente innocenti e testimoniate nero su bianco anche dal suo fedelissimo cardinal Dziwisz; e in seconda battuta perché, a parere del Promotore Diddi, quella del parlamento sarebbe una «intromissione perniciosa» nelle indagini. Si può certamente discutere tanto degli esiti a cui spesso conducono tali commissioni, quanto dei rischi che potrebbero conseguire alla stessa genesi politica dell’inchiesta. Ciononostante, a risultare alquanto peculiare è soprattutto la prospettiva che vede un pubblico ministero di uno stato estero influire, per quanto mediante la lecita espressione di un giudizio che può essere condivisibile o meno, sulle scelte del parlamento di un altro stato, cioè l’organo costituzionale incaricato di rappresentarne i cittadini. Evenienza che, dopo settimane di tira e molla, non si è verificata: il primo passaggio in Senato si è infatti concluso con esito positivo, con la Commissione che ha approvato anch’essa all’unanimità l’istituzione dell’inchiesta bicamerale, la quale dovrà a questo punto passare in Aula prima di poter avere un via libera definitivo.
Ecco: il momento che il caso di Emanuela sta vivendo è incontrovertibilmente ascrivibile a una dimensione epocale. Vaticano, Procura della Repubblica e, con buona probabilità, Parlamento che collaborano per disvelare la verità e fare giustizia è qualcosa di semplicemente straordinario e profondamente stimabile. Un’occasione da non perdere e da trattare con estrema delicatezza, visto il tempo che ci è voluto per riuscirla a concretizzare. E ora che si è completata un’impresa che fino a ieri sembrava troppo fuori portata, non c’è spazio per ripensamenti e dietrofront. Avanzare con fermezza, stando attenti a non inciampare laddove vada evitato, è l’agire necessario per crearsi una chance di raggiungere la meta e abbattere, si spera in via definitiva, il muro del silenzio.