La sparizione di Emanuela Orlandi ricorda le scatole cinesi: apri una scatola e dentro ce n’è un’altra, poi un’altra ancora e tante altre. Tutte queste scatole, per motivi diversi e talvolta distantissimi gli uni dagli altri, sono profondamente interconnesse fra loro in un legame che, più volte, appare inscindibile. Perciò, l’unico modo per provare a comprendere qualcosa di ciò che è accaduto, nonché di ciò che sta accadendo, è soffermarsi sui fatti; perché questi, è un’ovvietà che va sempre ribadita, non possono essere ignorati.
La sera del 22 giugno 1983, Emanuela, uscita in anticipo dalla scuola di musica Ludovico da Victoria sita in Piazza Sant’Apollinare, telefona a casa e racconta alla sorella Federica di aver ricevuto da uno sconosciuto, mentre si recava a lezione, la proposta di fare volantinaggio per la Avon durante una sfilata nell’atelier delle Sorelle Fontana. Federica le consiglia di parlarne prima coi genitori, vista la cifra spropositata, pertanto sospetta, che le è stata offerta per il lavoro. Sarà lei l’ultima familiare a parlare con Emanuela, mentre le ultime a incontrarla saranno Maria Grazia Casini e Raffaella Monzi, due compagne della scuola di musica. Entrambe racconteranno agli inquirenti di averla vista per l’ultima volta alla fermata dell’autobus 70 in Via Corso del Rinascimento, in compagnia di una non meglio specificata compagna della da Victoria che né la squadra mobile di Roma né i servizi segreti nostrani di allora, il Sismi e il Sisde, riusciranno mai a identificare. Ci riuscirà, a detta della stessa Casini, Suor Dolores, direttrice della da Victoria che tuttavia, almeno da quanto è a noi noto, non metterà mai al corrente gli inquirenti.
Un caso di terrorismo internazionale?
Tutto cambia quando – dopo le telefonate a casa Orlandi dei sedicenti Pierluigi e Mario, i quali riferivano dettagli su Emanuela che solo chi la conosceva da vicino poteva sapere – si palesa il cosiddetto “Amerikano”, il quale rivendica, mai stabilito se per conto dei Lupi Grigi, il rapimento di Emanuela ai fini di un ricatto allo Stato del Vaticano atto a ottenere la liberazione di Mehmet Alì Ağca, l’attentatore che il 13 maggio 1981 sparò due volte a Papa Giovanni Paolo II. Da qui in avanti, telefonate, richieste continue e rivendicazioni che, finendo tra l’altro per inserirsi nel più ampio quadro della Guerra Fredda, non condurranno a nulla, tant’è vero che l’inchiesta nel frattempo aperta dalla Procura di Roma non riuscirà ad andare oltre al noto e verrà archiviata nel 1997 dal giudice istruttore Adele Rando. D’altronde, viene da chiedersi come dei sequestratori così esperti, capaci nel loro mestiere al punto tale da riuscire a non lasciare la minima traccia del loro operato, potessero realmente pretendere un qualsiasi riscatto senza fornire alcuna prova in vita dell’ostaggio.
Ma indizi che qualcuno avesse rapito la ragazza per fini e moventi tanto grandi quanto pericolosi ve ne erano eccome. Basti pensare al fatto che i sequestratori riuscirono a ottenere una linea diretta, mediante l’ormai arcinoto codice 158, con l’allora Segretario di Stato Agostino Casaroli. Viene difficile credere che uno stato secolare e mondiale come quello Vaticano conceda a un qualsiasi millantatore di parlare direttamente col suo primo ministro, così come risulta perlomeno sospetto che quello stesso stato, in una situazione simile, si arroghi la mediazione chiedendo a un altro stato, quello Italiano sul quale suolo la ragazza è scomparsa, di fare un passo indietro. A parte ciò, un frammento di intercettazione di quella linea esiste e tutti possono ascoltarlo. Ergo, come suggerisce Andrea Purgatori è lecito supporre che qualcuno, al di fuori o dentro le mura leonine che sia, abbia continuato a registrare le conversazioni e sia ancora oggi in possesso dei nastri.
Di registrazioni, comunque, ve ne sono anche altre e altrettanto controverse. Ad esempio quella della voce di Emanuela che lo stesso Amerikano fece ascoltare durante una telefonata a casa Orlandi, così come quella incisa nel più discusso nastro delle sevizie – di cui oggi si hanno riversamenti digitali che corrispondono solo parzialmente all’introvabile originale – su cui Sismi e scientifica si espressero in maniera differente, per non dire del tutto opposta: se per il primo vi era infatti un’alta probabilità di corrispondenza con la voce di Emanuela, la seconda rassicurò la famiglia, senza mai fornire alcuna prova, confermando si trattasse della registrazione di un porno (che di porno, a detta degli esperti, avrebbe però davvero ben poco). Sta di fatto che Pietro Orlandi, così come il padre Ercole e lo zio Mario prima di lui, riconosce almeno in uno spezzone la voce della sorella.
E tra gli atti non sono finiti certo soltanto questi audio. Vi sono infatti le fotocopie di svariati documenti – tessera d’iscrizione alla scuola di musica, ricevuta del versamento della rata scolastica datata 6 maggio 1983 e una pagina con gli spartiti per flauto che presentava delle annotazioni della stessa Emanuela – fatti ritrovare da vari telefonisti anonimi nelle settimane successive alla scomparsa; documenti che, presumibilmente, soltanto dallo zainetto della ragazza o dagli archivi della Ludovico da Victoria potevano uscire. Ma in quelle settimane la scuola non denunciò alcun furto.
La banda della Magliana e quella trattativa mai andata in porto
Proprio nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare, attigua alla scuola di musica, fino al 2012 ha riposato Enrico De Pedis, boss della fazione dei testaccini della banda della Magliana morto incensurato e tumulato in tal luogo su richiesta del suo amico Don Piero Vergari, ai tempi rettore di Sant’Apollinare. La motivazione ufficiale? “Renatino” fu caritatevole coi bisognosi. E allora il nulla osta lo firmerà il cardinale Ugo Poletti, fino al 1991 Vicario Generale della Diocesi di Roma (essenzialmente un reggente del Papa su territorio italiano) e presidente della Cei. Stando unicamente a quelle carte, di De Pedis ne uscirebbe fuori l’immagine di un uomo retto. Talmente tanto che la sua amante Sabrina Minardi lo accuserà post mortem di essere stato uno degli artefici, o quantomeno uno degli esecutori, del rapimento di Emanuela (e anche secondo altri esponenti della banda romana è così che andarono le cose).
La pista apertasi con le scioccanti rivelazioni della Minardi – le quali seguirono a una telefonata a Chi l’ha visto? che invitava a indagare sul «favore che Renatino fece a Cardinal Poletti» – finì nelle mani dell’ex procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, il quale svolse le indagini anche sul fu Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, quest’ultimo morto “suicida” – le virgolette perché di suicidio non si trattò affatto, al massimo venne suicidato (cosa ben diversa) – nel 1982 a Londra. Secondo qualche fonte da prendere, come in ogni vicenda di questa portata, con le dovute precauzioni ma non certo con sufficienza, il presidente del Banco Ambrosiano, in combutta con l’allora capo dello Ior Monsignor Marcinkus, avrebbe ripulito denaro di provenienza mafiosa facendolo poi confluire nelle casse di Solidarność, baluardo polacco della lotta all’Urss sostenuta con vigore da Papa Wojtyla. Dopo il crack dell’Ambrosiano, i soldi affidati dalla mafia siciliana a Calvi e Marcinkus non sarebbero stati restituiti, “sgarbo” al quale Cosa Nostra avrebbe risposto facendo rapire Emanuela, a fine ricattatorio, dalla Magliana.
È proprio durante quest’attività investigativa che Capaldo avrà modo di trattare “clandestinamente” per la rimozione del corpo di De Pedis, richiesta dalla Santa Sede poiché il fattaccio recava imbarazzo, in cambio di informazioni utili sul caso di Emanuela e, se possibile, della restituzione del suo corpo. Ebbene, stando al pm i due emissari vaticani – il comandante della Gendarmeria Domenico Giani e il suo vice Costanzo Alessandrini – confermarono la disponibilità a collaborare, da quanto riferisce Capaldo anche nell’ottica di restituire i resti di Emanuela, a seguito di un consulto con l’entourage di Ratzinger e in particolar modo col suo segretario particolare nonché Prefetto della Casa Pontificia, Monsignor Georg Gänswein. Ma come consuetudine, anche in quell’occasione ci sarà spazio per un altro colpo di scena: il nuovo procuratore capo Giuseppe Pignatone, appena insediatosi nella Capitale, richiederà infatti l’archiviazione – la quale verrà accolta nel 2015 nonostante le indagini indicassero come la Magliana avesse effettivamente avuto un qualche tipo di ruolo nella vicenda – e, facendo rimuovere la salma di De Pedis da Sant’Apollinare, decreterà di fatto la fine della trattativa portata avanti dal suo collega. Altra benzina verrà gettata sul fuoco quando lo stesso Pignatone, una volta in pensione, verrà eletto da Papa Francesco Presidente del Tribunale della Città del Vaticano, incarico che tuttora ricopre. Resta comunque un mistero nel mistero il perché Capaldo – ora in libreria con La ragazza che sapeva troppo, scritto a quattro mani col giornalista Ferruccio Pinotti – non abbia mai messo agli atti i suddetti scambi, interrogativo sul quale sta attualmente indagando anche il Comitato Superiore della Magistratura.
Tornando alla Magliana, negli ultimi tempi è stata avanzata la tesi che De Pedis, in virtù dei suoi buoni rapporti con la curia romana, abbia in realtà svolto un lavoro di manovalanza utile a risolvere una situazione troppo ingombrante, probabilmente a sfondo sessuale (quest’ultimo avvalorato dalle recenti dichiarazioni di un’amica di Emanuela). Interessanti, a tal proposito, anche le parole proferite dal Promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi a qualche mese di distanza dall’avvio delle indagini interne: «Temo che il ruolo della banda della Magliana nel caso Orlandi sia stato sopravvalutato, sebbene esistano alcune evidenze». Lungi dall’essere una conferma del fatto che la banda romana abbia fatto da service al Vaticano, questa dichiarazione si presta volente o nolente ad essere interpretata anche in tal senso.
Strade che portano a Londra (e riportano a Roma)
Nel 2017, l’attuale direttore di Domani Emiliano Fittipaldi – l’anno prima prosciolto insieme a Gianluigi Nuzzi nel processo del Vatileaks, per il quale i due giornalisti (e non soltanto loro) dovevano rispondere all’accusa di aver divulgato documenti riservati della Santa Sede – pubblica il «resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi». Cinque pagine, probabilmente apocrife e facenti parte di un fascicolo molto più ampio, custodite in una cassaforte della Prefettura degli affari economici della Santa Sede e dove compaiono nomi tra i più citati quando si parla del caso (ad esempio, quelli di Casaroli e Poletti). Si apre così la pista secondo la quale Emanuela sarebbe stata segregata dal Vaticano in un convento a Londra, città che, stranamente, torna anche nel filone della Magliana. Tuttavia, stando al documento il mantenimento della ragazza sarebbe cessato nel 1997, anno al quale fa riferimento il «trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali». I resti di Emanuela trasferiti in Vaticano? Tanti i punti interrogativi a riguardo, ai quali Pietro Orlandi ha tentato di rispondere continuando a indagare, insieme all’avvocata Sgrò, fino a entrare in possesso di alcuni documenti apparentemente rilevanti tra i quali una lettera, la cui veridicità resta tutta da verificare, con la quale l’allora arcivescovo di Canterbury George Carey – che, pur disconoscendo quel foglio, riconosce l’autenticità della sua firma – invitava il Cardinal Poletti a incontrarsi per discutere della situazione di Emanuela.
Ci sarebbe tanto altro di cui parlare, perché quarant’anni, in casi come questo, sono davvero un’eternità. Dal ruolo dei servizi segreti (anche esteri) alla pista di Bolzano, passando per la vicenda del Lussemburgo fino a arrivare a quella segnalazione anonima che nel 2019 condusse all’apertura di due tombe del Cimitero Teutonico poi rivelatesi vuote – questione, questa, ancora apertissima e che potrebbe essere letta anche in relazione a quell’ultima nota di spese del documento pubblicato da Fittipaldi, data l’esistenza di alcune chat intercorse tra due figure interne al Vaticano che alluderebbero a tombaroli da pagare e inventari, relativi a Emanuela, da compilare. E ancora, per arrivare ai tempi recenti, la voce di Marcello Neroni, ex sodale di De Pedis ma anche intrattenitore di rapporti con i servizi segreti che punta il dito, formulando accuse pesantissime, contro Wojtyla stesso, infamando tra l’altro anche la memoria di Emanuela. “L’audio degli equivoci inesistenti” lo si potrebbe definire. Inesistenti per il semplice fatto che in quella registrazione, catturata dal giornalista Alessandro Ambrosini e pervenuta a noi in forma censurata, le accuse le formula per l’appunto Neroni, non Pietro Orlandi come qualcuno ha tentato di far passare mettendo in piedi una strategia difensiva, ma forse sarebbe più corretto definirla offensiva, alquanto contraddittoria. Anche questa destinata a crollare su se stessa, magari grazie alle nuove indagini ora in atto in Vaticano, nella Procura di Roma e, forse, anche in Parlamento. Che sia la volta buona per giungere alla fine delle scatole cinesi?