Foto di Elisa Valiante
Il significato della data del 22 giugno 1983 lo conoscono in molti; altrettanti, ignorando il calendario, hanno comunque presente la storia che ha avuto inizio quel giorno; altri ancora, i più giovani, è possibile che non abbiano idea di cosa si stia parlando, ma prima o poi lo sapranno. Perché la storia di Emanuela Orlandi – cittadina vaticana di quindici anni sparita sul suolo italiano dopo aver svolto la sua consueta lezione di musica alla scuola Ludovico da Victoria – è una di quelle che una volta entrate dentro l’immaginario collettivo, non ne escono più.
Non ne è uscita, ovviamente, la famiglia Orlandi, che all’improvviso si è trovata scaraventata in una vicenda che sin dal principio ha assunto le sembianze di un buco nero dove si susseguono, come in un valzer oscuro, depistaggi, vicoli ciechi, omertosi silenzi, autoaccuse intrise di mitomania, minacce, guerre tra fazioni, trattative più o meno segrete e tutta una serie di situazioni che sembrano essere state congegnate da un abile, anzi il più grande mai esistito, autore di gialli. Il problema, di una gravità che se definita a parole risulterebbe in ogni caso alquanto riduttiva, è che questa non è un’opera di fantasia, bensì l’amara realtà con la quale da quarant’anni si è costretti a convivere.
Di fatto, l’unica verità assodata è che per tutto questo tempo chi avrebbe dovuto parlare non ha voluto farlo, sicuramente nella speranza che questa storia sarebbe un giorno finita nel dimenticatoio, come tante altre. Si è però detto, e con cognizione di causa, che Emanuela nell’oblio della memoria non ci finirà mai. Di rischio, semmai, ce n’è un altro: quello di abituarsi allo stato dell’arte, cedendo a quel pensiero rinunciatario che, più di qualche volta e quasi sempre inconsapevolmente, balena nella mente di chi non è personalmente toccato da certe vicende. Ma se è vero che, come c’è scritto in Giovanni 8:32, «la verità vi farà liberi», allora deve tornare di moda quella humanitas che, come lamentava in tempi non sospetti il mai troppo compianto Günther Anders, è oggi una merce assai rara. Vale a dire: bisognerebbe provare almeno un minimo di quella indignazione e di quella rabbia – sacrosante entrambe – che provano tutti quelli che con Emanuela ci vivevano e ci si immaginavano insieme in un futuro che qualcuno si è portato via per sempre, arrogandoselo prima e distruggendolo poi.
È dunque chiaro che per raggiungere la meta che la famiglia Orlandi – rappresentata mediaticamente da Pietro, fratello di Emanuela, e legalmente dall’avvocata Sgrò – sta riuscendo a rendere visibile dopo anni di incessante battaglia, non resta che una via da percorrere: quella della perseveranza, che ha condotto recentemente all’apertura di due nuove inchieste, una interna al Vaticano e una gestita dalla Procura di Roma, alle quali se ne potrebbe a breve aggiungere una terza svolta in Parlamento. E qui arriva la rincuorante constatazione: la gente comune, a quanto pare, di perseveranza ne ha ancora molta da vendere.
Dritti alla meta (tutti insieme)
Si diceva che il rischio, nelle storie come questa, è che per abitudine alla desolante realtà si finisca per rinunciare a scavare fin dove necessario. Qualcuno potrà anche essersi abituato, ma non è ciò che, ormai da mesi a questa parte con evidenza eclatante, si può osservare: scuole, università, uffici, case, strade e finanche chiese sono popolate da persone che non sembrano avere un buon rapporto con la consuetudine. Altrimenti, lo scorso 25 giugno a Largo Giovanni XXIII – luogo del sit-in organizzato da Pietro Orlandi per il quarantennale dalla scomparsa di Emanuela – ci sarebbero stati molti spazi vuoti. Invece quegli spazi erano pienissimi, gremiti di foto col volto di Emanuela e resi ancora più vivi(di) dalle grida di battaglia inneggianti alla verità e alla giustizia.
A sostenere la causa c’era, letteralmente, chiunque: chi con quel manifesto di Emanuela ci è cresciuto, chi lo ha appena scoperto. C’era, ad esempio, una giovanissima che il caso l’ha sentito particolarmente vicino «non perché mi sia successo qualcosa di simile, ma per la tenacia del fratello. Non so se ce l’avrei fatta, sinceramente, al posto suo». Altri, invece, hanno ricordato come questa storia sia stata «uno shock per tutta Italia». Per loro Emanuela «è come se fosse una sorella. Noi sono quarant’anni che stiamo dietro a Pietro, sperando che almeno adesso esca veramente la verità».
E tra tutte queste persone, provenienti da ogni angolo dello stivale, ci si è potuti imbattere anche in chi ha deciso di prendere l’aereo dalla Romania pur di venire a far sentire la propria voce. È il caso di Don Claudio, sacerdote della Diocesi di Bucarest che, «venuto in processione» per Emanuela, porta con sé due rami d’ulivo uniti a formare una croce, sollevandoli in cielo con orgoglio e cantando in nome di Cristo mentre si marcia su Via della Conciliazione in direzione San Pietro. «A Natale, l’anno scorso, ho sentito lo Spirito Santo che mi ha detto di venire qua. Da Natale, ogni giorno celebro (la messa, n.d.r.) per Emanuela, per Pietro, per la sua mamma Maria, per suo padre Ercole e tutta la famiglia». Una testimonianza impattante, che dimostra – a quanto pare c’è da dimostrare anche questo – come desiderare che venga fatta luce su questa storia non significhi muovere un’offensiva contro la fede. E quando gli ho chiesto quale fosse la sua speranza, mi ha risposto che essa «è grande perché è nello Spirito Santo. Noi abbiamo il dovere di lottare fino alla fine. È possibile che i risultati vengano anche dopo la nostra morte, ma se noi facciamo il nostro dovere, questo è più importante davanti al Signore. Perché non è importante come siamo davanti agli uomini, ma come siamo davanti al Signore. Per questo sono venuto qua: per dimostrare prima di tutto a Papa Francesco, ai cardinali, ai vescovi, che Dio è più grande».
La dimostrazione è arrivata, forte e chiara: su Via della Conciliazione, sotto un caldo torrido, hanno marciato tutti con le bandiere (sia metaforicamente, sia letteralmente) all’asta, seguendo quella chioma bianca di Pietro Orlandi che pare esemplificare perfettamente tanto la resistenza quanto la forza che ci sono volute per resistere alle intemperie che in questi quarant’anni la nave della sua famiglia ha dovuto affrontare. Tutti insieme, dritti alla meta, pronti a lanciare la pretesa verso la finestra in alto a destra. È una pretesa chiara, limpida, potente: Papa Francesco deve esprimersi. Deve, più di ogni altra cosa, ricordare.
La rottura del silenzio
Papa Francesco, il pontefice che sono andati a prendere «quasi alla fine del mondo». Fu lui che nel 2013, uscendo dalla parrocchia di Sant’Anna, disse al fratello di Emanuela, non una bensì due volte, che sua sorella «sta in cielo». Erano passati pochi giorni dalla sua elezione al soglio pontificio e queste parole lasciarono presagire quell’apertura verso la famiglia Orlandi che dal suo predecessore non c’era mai stata.
Ora, a dieci anni di distanza e dopo anni di suono incessante al campanello, la porta si è aperta. Non soltanto a seguito del mandato con il quale veniva ordinato al Promotore di Giustizia del Vaticano di aprire un’inchiesta interna, ma anche, ‘por fin’ come direbbero in Argentina, attraverso quelle poche parole dette a Piazza San Pietro dinanzi a migliaia di fedeli e a tutti quelli che, foto di Emanuela alla mano, a gran voce chiedevano verità: «In questi giorni ricorre il quarantesimo anniversario della scomparsa di Emanuela Orlandi. Desidero approfittare di questa circostanza per esprimere ancora una volta la mia vicinanza ai familiari, soprattutto alla mamma, e assicurare la mia preghiera». Non accadeva dai tempi di Giovanni Paolo II un evento del genere. Va da sé, allora, che ciò a cui si è assistito sia tutto fuorché scontato. «Il tabù Emanuela Orlandi è caduto finalmente», dice Pietro Orlandi. E se non può essere una certezza che l’appello del Papa abbia avuto un peso anche in Senato, è possibile che lo stesso ricopra una certa importanza nei palazzi della politica.
Certo, ci sarà sempre chi avrà paura di esporsi. Finito l’angelus, ad esempio, una suora mi pregava di non farle domande e di non citarla in alcun modo perché altrimenti l’avrei messa nei guai, questo dopo avermi assicurato la sua vicinanza al dolore degli Orlandi. È tangibilmente percepibile, però, che l’aria stia cambiando, mentre il fumo inizia a diradarsi lasciando scorgere un bagliore in fondo al tunnel; quello stesso bagliore che a ogni sua apparizione finiva per essere oscurato, con puntualità quantomeno sospetta, con più tenacia di prima. Di pericoli, lo sanno tutti, ne spunteranno sempre di nuovi, almeno fino a quando ci sarà chi, senza vergogna, continuerà a innalzare muri di omertà e silenzi utili a mantenere intatto lo status quo. È la storia di Emanuela, è la storia di Mirella, è la storia di tutte quelle persone che non sono riuscite a ottenere, in vita e nella morte, giustizia. Questa realtà non può e non dovrà mai rappresentare una sfinge indistruttibile dalla quale fuggire senza averci provato. Alla verità – senza la quale è totalmente inutile, in effetti impossibile, stare a parlare di giustizia – non si deroga, per quanto anche le istituzioni sembrino spesso dimenticarselo. Farlo sarebbe un peccato imperdonabile e di peccati il mondo ne è già abbastanza colmo. Lo si deve a Emanuela e a tutti quelli che hanno vissuto la sua stessa sorte. Perché la verità non sta in cielo, ma in mezzo agli uomini. E sono gli uomini di buona volontà a doversela prendere.