Scosse sismiche in Moldavia. Secondo episodio

APRILE 2022. LA TERRA TREMA ANCORA

Ritrovo gli appunti del viaggio precedente tra i file del computer e sorrido. Vorrei rimetterci mano, inserirmi di più nella narrazione, adeguare lo stile alle parole che seguono, aggiornare giudizi ormai mutati, ma l’istantanea di una Moldavia disillusa corrisponde ancora alla realtà di un paese dimenticato. Ci torno per l’ennesima volta dopo otto mesi circa. Una guerra fratricida ha causato l’ennesimo terremoto politico che, almeno stavolta, hanno avvertito tutti. 

Dal 24 febbraio piovono bombe su Kiev e sull’Ucraina intera, ma a Chisinau si vive come sempre. Presente la solita colonna d’auto di via Stefan Cel Mare, arteria principale della città, guidate da persone assonnate. Le venditrici ambulanti, forti del clima mite d’aprile, si sono moltiplicate rispetto all’estate scorsa: vendono ancora cipolle, sottaceti, gomitoli, fiori e spezie. Si appoggiano alle vetrate delle miriadi di compro oro e gioiellerie sparse lungo Stefan Cel Mare. Un vortice del lusso incasellato proprio al centro di Chisinau, capitale del paese più povero d’Europa – mai visto nessun cliente entrare durante un mese e mezzo di permanenze intermittenti in città. Come sopravvivono queste attività? Vero mistero moldavo…

Vorrei chiederlo a Maia Sandu, ma dubito che in questi giorni abbia tempo per me. Come l’Ucraina, la Moldavia ha richiesto di unirsi all’Unione Europea. Tutto trema: il pericolo russo si avvicina ai confini moldavi. Aprire il paese ad una tanto desiderata modernizzazione sembra l’unica soluzione. È da tempo che la popolazione moldava desidera accedere al benessere tanto decantato dai loro parenti immigrati in Occidente. 

Prima che l’Europa estenda i suoi confini fino al fiume Nistru – e, chissà in futuro, fino al Don – Maia Sandu dovrà trovare una soluzione ad un problema non secondario: la Transnistria. La Moldavia, infatti, ospita all’interno dei suoi confini uno stato de facto legato alla Russia, non riconosciuto dalla comunità internazionale, popolato da russofoni che nel ’94 ottennero l’indipendenza dopo una sanguinosa guerra con i vicini di casa moldavi. 

In Transnistria passano i gasdotti russi che alimentano le turbine elettriche e le case della Moldavia intera. La Sandu, quindi, ha davanti a sé una sfida notevole. Ridurre al minimo l’interdipendenza energetica con la Transnistria non cancella il problema di fondo. La necessità più impellente è un compromesso politico con lo stato de facto che preveda, magari, una certa autonomia all’interno di una Moldavia allargata o, nel peggiore dei casi, un’indipendenza tout court. La certezza è una: se la questione Transnistria non viene risolta la Moldavia non entrerà in Europa.

SOLIDARIETA’ MOLDAVA

Gli abitanti di Chisinau brulicano per il centro con noncuranza. Non sembrano colpiti delle piccole scosse sismico-politiche che dall’inizio della guerra hanno coinvolto il suolo moldavo. Se non fosse per la fila interminabile di donne e bambini davanti alle banche di via Stefan Cel Mare, e per la coda di gente che attende l’apertura delle poste, la vita dei locali non sembra essere cambiata. Gli ucraini che fuggono dalla guerra si mimetizzano come camaleonti tra i visi bassi dei moldavi. 

Il sole mattutino illumina la superficie del Lacul Morii, laghetto cittadino interamente scavato a mano negli anni ’50 da prigionieri di guerra comunisti. In prossimità scorgo l’enorme prefabbricato del Moldexpo, adibito a centro d’accoglienza. Anziani, madri e bambini, circa 200 in totale, passano qui le loro giornate tra passeggiate al lago e pensieri solitari. L’interno dell’edificio è stato diviso in piccoli stanzini con un letto, un comodino e un attaccapanni.

Bambina in braccio ad una balia al centro di accoglienza Moldexpo Chişinău, Moldavia, aprile 2022

Gruppi di bambini corrono nei corridoi che dividono queste improvvisate strutture. Gli anziani riposano in silenzio e non sembrano disposti a raccontarmi la loro storia di fuga. Molti di loro stanno ricevendo cure mediche essenziali finora sospese dall’inizio del conflitto. 

Camminando per i corridoi incontro una balia che tiene in braccio una bambina di pochi giorni. «È nata pochi giorni fa» mi dice «alla madre si sono rotte le acque durante l’attesa per varcare il confine. Al momento è ricoverata, ha sofferto tanto ma se la caverà. La bimba non ha ancora un nome. Io la chiamo Bucurie, “gioia” in rumeno».

La popolazione moldava è aumentata in modo considerevole dall’inizio della guerra. Ai 2.5 milioni di moldavi, si sono aggiunti oltre 300 mila ucraini. 200 mila hanno solo transitato per raggiungere parenti ed amici in altri stati europei, ma oltre 100 mila ucraini sono rimasti in Moldavia, complice la comune lingua russa. Il 90% di quest’ultimi sono stati ospitati da famiglie locali. 

La solidarietà dei moldavi è stata ammirevole. Hotel, B&B, affittacamere e ostelli hanno messo i loro spazi a disposizione gratuitamente. Incontro Ruben ancora una volta, che mi attende davanti all’entrata dell’ostello: «non posso farti stare, sono pieno. Se avessi avuto 30, 50 posti letto in più sarebbe tutto pieno comunque. Quasi tutti gli edifici della città sono stati aperti agli ucraini… Aminaga? Ce ne siamo liberati, finalmente. È tornato in Azerbaijan. Nessun viaggio in Europa per lui». 

Tuttavia, le istituzioni finanziarie hanno accolto gli ucraini in maniera ben diversa. Durante i primi giorni di guerra, gran parte dei cambi moneta locali hanno reso il cambio grivna-euro-leu moldavo talmente svantaggioso da dover far intervenire il ministero dell’economia. 

Alla sera incontro Ion e i suoi amici in un pub. È il fidanzato di Irina, incontrata nel mio soggiorno precedente. Tornato in Moldavia dopo gli studi ad Utrecht, lavora al Ministero dello sviluppo economico. Dai tavoli attorno a noi si alzano urla e schiamazzi. Dietro di noi siedono due giornalisti italiani con due ragazze. La gente locale, soprattutto i coetanei studenti, non sembra spaventata dalle bombe che cadono a Odessa, ad appena due ore di macchina da Chisinau. «se i russi arrivassero qua, penso che si tratterebbe di un’invasione inoffensiva. L’esercito moldavo non combatterebbe. Non avrebbe senso» mi dice Ion. Prende la parola Andrei, rimasto nascosto dietro al boccale di birra fino a quel momento, un tipo particolare: «mio zio era un combattente durante la guerra di Transnistria del ’94. Doveva, è un poliziotto. Combattevano con armi della Seconda guerra mondiale che ci aveva dato la Romania. Davanti a noi c’era però l’Armata Rossa. Si è visto come andata» conclude ridendo. Non parlavo di disillusione tempo fa?

QUESTIONI MINORITARIE

Fatta colazione, mi dirigo verso la periferia di Chisinau. I palazzoni sovietici proiettano la loro ombra sulla strada, il mio taxi ci sguscia con dolcezza. Scendo e mi trovo in mezzo al nulla. Vago per venti minuti abbondanti. Spuntano camionette antisommossa da un parcheggio, intravedo poi gente seduta a terra e la pettorina di un volontario. Ecco l’impianto sportivo Manej, convertito a centro d’accoglienza – penso. 

Mentre mi dirigo all’entrata noto che, in realtà, di poliziotti o volontari non se ne vedono. Son spariti tutti? Appena due passi e si piazza davanti a me il gestore del centro. Lo convinco a farmi entrare dopo dieci minuti abbondanti di diplomazia. «Stai attento, al momento non c’è polizia e i volontari sono fuori. Non dare soldi. Tieni la macchina fotografica ben salda. Sei un bravo ragazzo» – mi fa. 

Ritratto di Danyl, 7 anni, Chişinău, Moldavia, aprile 2022

Oltre 60 persone di etnia rom, sinti, azera e tatara sono sistemate su brandine da spiaggia e materassi che, il più delle volte, fungono da pareti divisorie. Disposti con ordine su tutta la superficie del campo d’atletica, le corsie prima occupate dai corridori sono ora lo sfogo dei bambini. Giocano tra loro indistintamente, mentre gli adulti sono divisi da una rete da pallavolo ormai afflosciata sul terreno: a sinistra siedono le famiglie rom e sinti, anziani dal pensiero magico e gerarchie nomadi comprese; a destra gli azeri e qualche tataro, ben più silenziosi, quasi tutti sdraiati, assorbiti dai loro smartphone.  

L’appartenenza etnico-culturale diventa elemento discriminatorio. Al campo sportivo Manej non sembra essere arrivato il supporto medico e umanitario che avevo visto al Moldexpo il giorno precedente. Migliaia di “etnie secondarie” sono passate attraverso il centro dall’inizio della guerra, il picco di affluenza massima toccato è di 700 persone. Gran parte delle persone presenti attendono documenti d’identità, di cui erano sprovvisti; altri, invece, non hanno la possibilità economica di spostarsi altrove. 

Mi avvicino ad una famiglia rom che siede in cerchio attorno ad un tubetto di biscotti. Me ne offrono uno. Parlo con Duda, signora capo banda, madre di 8 figli, metà dei quali non sa dove siano, e nonna di 13 nipoti, 5 dei quali corrono qua intorno. «Siamo di Mikolaev, siamo scappati perché arrivavano i russi. Vogliamo andare in Polonia, conosciamo gente là. Ho sentito che in Germania ci mettono sotto i tendoni e chissà quanto ci rimani. Io non voglio saperne. Anche l’Italia non sarebbe male… ho parte della famiglia al Nord» mi dice Duda, mostrandomi una brutta ferita sul braccio sinistro, un buco quasi cicatrizzato circondato da pelle morta – «ho chiesto aiuto ad un medico due giorni fa. Deve ancora tornare. Quando finirà la guerra?». 

I bambini osservavano schivi da lontano, correvano per tutta la palestra, tirando calci confusi a palloni che finivano spesso sugli spalti. Erano privi di istruzione nella maggior parte. Alla minima attenzione mi circondavano in gruppo, contagiandomi di gioia primitiva. Sfilavano spavaldi davanti alla fotocamera facendo smorfie. Le bambine si mettevano in posa solo dopo essersi sistemate i capelli. I maschietti seguivano ciò che accadeva dietro l’obiettivo, guardavano con curiosità il display fotografico. Volevano sapere di dov’ero, perché ero lì, mi sbeffeggiavano, e mi dicevano che la guerra non li spaventava. Subito dopo mi chiedevano soldi. 

Alla stazione dietro Piata Centrala, la mattina successiva, mi attende una marshrutka diretta a Bucarest. Abbandono lo zaino sul bus e mi incammino nelle viottole confuse del mercato per qualche minuto. Janika, manco a dirlo, è ancora lì. La guardo da lontano mentre, indaffarata, serve due clienti. Se ne vanno ed è il mio turno. Mi guarda confusa, come se mi avesse riconosciuto. Prendo un po’ di frutta per il viaggio e la saluto.

Vengo assorbito dal ritmo di quello strambo insieme di carni, verdure, spezie, persone e cani randagi che è Piata Centrala. L’autista del pulmino spunta da un viottolo laterale. Mi urla di muovermi, ha fretta, c’è la guerra, deve comprare le sigarette alla frontiera, non c’è più tempo, ci saranno altri passeggeri da prendere lungo il percorso, bisogna partire, le babushke sono infuriate in cabina, non si poteva fare così la rivoluzione, è troppo tardi, e molte altre cose che non si vorrebbero mai sentire. Perché la Moldavia, mi chiedevo meno di un anno fa?