Il primo senso che viene colpito, mettendo piede fuori dall’aeroporto della capitale indiana, è l’olfatto. L’arrivo in India ha un odore inconfondibile, difficile da descrivere, antico e prezioso, paglioso e penetrante. L’aria è tristemente pesante e inquinata, soprattutto in questo periodo dell’anno, ma sono sicuro che si potrebbe distinguere da ogni altra città del mondo.
Mi avvio subito verso la metro, uno dei tanti paradossi della città. È moderna, veloce e funzionale: tutto sembra più o meno normale, qui, come in una qualsiasi altra metropoli dell’Asia. Invece è un attimo di quiete prima della tempesta che imperversa in superficie.
Nelle vie della vecchia Delhi, persone, animali, moto e mezzi di ogni tipo si mischiano in un’orgia selvaggia. Ogni senso è sopraffatto, i colori sgargianti degli indumenti perdono intensità, mischiati alla cortina plumbea di smog. I fili elettrici si intrecciano come le liane di una giungla secolare, tanto da essere scambiati come tali dalle tante scimmie. L’inquinamento acustico, forse il più difficile da digerire, regna sovrano: mille clacson strillano all’unisono, mischiandosi a grida, schiamazzi, vecchi motori fumanti, disparati attrezzi da lavoro e sfrigolio di olio bollente.
Le sagome delle persone sono a tratti indistinguibili, tanto è il trambusto nel quale sono capitato, e lo spazio vitale, caro all’uomo abituato a udire il proprio respiro, non è che un ricordo sbiadito di terre lontane. Eppure mi sento così riconoscibile, straniero come sono in mezzo a questo delirio, mentre rispondo a domande di gente che conosco da dieci secondi, che se ne frega di infrangere tabù, perché non esistono tabù: mi chiedono se sono sposato, se ho figli, mi chiedono da dove vengo e dove sto andando, se ho voglia di farmi un selfie.
Nel frattempo attorno a me tutti si scontrano, si toccano, si calpestano in maniera naturale. Gli animali sembrano aver accettato da tempo questo compromesso, le mucche si riposano tranquillamente ai bordi delle strade, sfiorate dai veicoli, e i cani sporchi di polvere si aggirano trotterellanti alla ricerca di qualche avanzo.
L’unica ed effimera salvezza, dinanzi a questo inferno dantesco fatto di carne e metallo, è rifugiarsi in uno dei tanti templi religiosi.
Ci vuole un po’ di meditazione, prima di gettarsi di nuovo nella mischia, in via di Khari Baoli, la strada che ospita il più grande mercato di spezie dell’Asia, che conduce all’esperienza olfattiva più esasperata che si possa immaginare: centinaia di odori diversi, mucchi di cardamomo, cannella, cumino, chiodi di garofano e altre polveri misteriose, tutte concentrate in uno spazio angusto di qualche metro di larghezza, nel quale lavoratori infaticabili trasportano sacchi pesanti sulle loro schiene, districandosi in mezzo alla calca di persone. Starnuti e colpi di tosse sono quotidianità anche tra i locali, il naso e i polmoni bruciano ad ogni boccata.
A Delhi non c’è spazio né tempo per pensare, l’unico modo per sopravvivere è farsi trascinare e diventarne parte. E bisogna farlo in fretta, liberi dai pregiudizi e da congetture d’ogni sorta. Seguire il flusso – sussurro a me stesso, cercando di farmi coraggio. Molte persone scappano appena arrivano qui, le comprendo. Nessuno può prepararti a questo. La mente viaggia confusa in ogni direzione, mentre il corpo cerca di non opporre resistenza. È tutto, diciamo così, estremo. Un anziano signore con gli occhi incassati e i denti bianchi dondola dolcemente la testa fissandomi con insistenza, e io provo a riprodurre quel movimento così innaturale, scoppiando in una risata quasi nervosa. Benvenuto in India, andrà tutto bene, questo posto accoglie chiunque, mi sembra di capire. Distolgo velocemente lo sguardo per non fargli notare la lacrima che comincia a scivolare lungo la mia guancia.
Mi sento vivo un’altra volta.