Vita e morte
Verso le montagne il paesaggio cambia radicalmente. Percorro in moto larghe strade a due corsie, sfilano ai lati bassa vegetazione e terra color nocciola. Ampie e soleggiate vallate, dove il cielo appare sempre più azzurro e pulito. Attorno a me solo bei gesti: ad ogni pausa sul ciglio della strada le persone rallentano per chiedermi se sia tutto a posto; i camionisti, alla guida di mezzi sgargianti e vistosi, mi indicano con la mano dove fare sorpassi sicuri. Continuando la carreggiata si fa tortuosa, gli arbusti vengono sostituiti da grosse conifere e rocce chiare.
Mentre attraverso svariati villaggi, i tratti somatici degli abitanti diventano sempre più simili a quelli tibetani. Stretti ponti sospesi collegano zone impossibili da attraversare, mentre al di sotto fiumi impetuosi scorrono su grosse pietre levigate. Un cane randagio è sdraiato al fianco di una scimmia, sembra esserci un profondo legame di amicizia, un’immagine stupenda. La biodiversità è disarmante, anche le palme tropicali fanno capolino dalle pareti scoscese, rimango ad osservarle in silenzio, respirando a pieni polmoni.
Sarà diverso proseguendo: enormi macchinari scavano una montagna, passo in mezzo a una cortina di polvere e tonnellate di cemento. Succede spesso guidando in certe aree dell’India. Non è un caso isolato, la situazione si ripeterà molte volte durante il viaggio. Sicuramente tra qualche anno sarà molto più semplice visitare posti ora inaccessibili, ma a che prezzo? Cambiamento evitabile o possibile fonte di ricchezza per chi ci vive? Provo disagio a guardare queste imponenti montagne violate. In India nessuno sembra dar rilevanza ai paesaggi.
Un grosso gruppo di macachi mi fissa curioso mentre esco da un tornante. Frizione, un rapido colpo al cambio e la moto riprende a sferrare il suo assordante boato verso le montagne, ormai sporche di neve. Davanti a me un grosso camion con ruote impolverate passa a pochi centimetri dal ciglio della strada, l’autista non sembra spaventato dall’enorme precipizio che c’è sotto, forse vuole dimostrare le sue capacità di guida. Io lo seguo, la moto vibra, si scuote indomabile, fino a godere di vita propria. La assecondo con un sorriso stampato in faccia, mentre un signore mi fa segno di rallentare, in un gesto preoccupato e paterno.
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Sorpasso il camion al primo rettilineo a disposizione davanti a me e si apre così una sterminata vallata, coperta da una leggera nebbiolina, tutto trasuda di vita ed energia. Ne catturo il più possibile, mi servirà sicuramente. Non so in quale villaggio passerò la notte, prima di partire ho deciso di farmi trasportare dagli eventi, ma ancor di più dalle emozioni. Percepisco per un istante una profonda connessione tra la moto e l’asfalto, tra il mio cuore e i selvaggi luoghi che mi circondano, mi assorbe un vortice di corpi, metallo, foglie e mistiche visioni di un’India sfuggente, dall’aria tersa e rarefatta. Mi riporta alla realtà un bus lanciato a tutta velocità nella mia corsia. Non devo farmi assorbire da queste proiezioni liriche mentre guido. L’india, però, è forse proprio questo: un non-luogo in cui è la mente, più che il corpo, a essere presente. Qui tra vita e morte non c’è grande differenza.
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A Kasol, con l’Occidente dentro
Rallentato da un’intossicazione alimentare che assorbe ogni energia e mi obbliga a mettermi in sella senza colazione, raggiungo il villaggio di Kasol, avvolto da una fredda coltre di umidità. In questo periodo dell’anno non ve ne sono molti, ma è una destinazione piuttosto famosa tra i viaggiatori, in particolare quelli israeliani, che vengono per godere dei paesaggi e dell’ottima qualità dell’hashish. Qua le piante di cannabis crescono spontaneamente, ma non possiedono un elevato tenore di principio attivo, a causa dell’altitudine e del clima spesso rigido. Motivo per cui viene prodotto un particolare tipo di hashish, unico al mondo, chiamato charas, semplicemente strofinando le mani sulle cime e raschiando da esse la resina rimasta appiccicata.
Nel dormitorio in cui alloggio non c’è riscaldamento, le coperte pesanti hanno favorito un sonno profondo, ma rimpiango il caldo tepore che trasuda dalle pareti in roccia delle case di montagna europee. L’umidità abbraccia la valle per tutto il mattino, fino a quando il sole fa capolino tra le vette.
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Uscito dal dormitorio cerco qualcosa da mangiare. Arrivo a una tavola calda seguendo un gruppo di muli che mi sorpassano frettolosi trasportando materiale da costruzione. Un baba, un santone indiano, appoggiato a un corpulento tronco, mi invita per una fumata di charas, mi mostra il suo cilum vissuto dietro un sorriso fatto di labbra e pochi denti. Rifiuto con gentilezza l’offerta, sono solo le dieci di mattina e devo ancora mangiare.
Riprendo la moto e torno in strada, ricominciano quelle straordinarie visioni che avevo lasciato il giorno prima. Un giovane contadino dai tratti tibetani, al mio passaggio, alza il suo bastone per salutarmi. Sono sicuro che con l’andare avanti del viaggio, che non so quando finirà, perderò questo pregiudizio occidentale che mi porto inconsapevolmente dentro – è forse questo che posa un velo di straordinarietà sopra ogni cosa che mi circonda?
A metà pomeriggio il sole cala. I raggi colpiscono il fiume Parvati, esplodendo in mille sfaccettature dorate che si riflettono sulle nuvole basse attorno agli alberi. Il fiume, che ha il nome della dea Parvati, “figlia della montagna”, moglie di Shiva, rappresentazione della fertilità e dell’amore, mi ricorda un’epoca passata, primitiva ed eterea. Mi siedo su un masso e rimango in ascolto del boato dell’acqua. Un cane mi raggiunge trotterellando e mi si sdraia a fianco, rimaniamo vicini per molto, con lo sguardo fisso in avanti verso un punto imprecisato, mentre il crepuscolo avanza. “Il viaggio è appena iniziato” – penso sorridendo e col cuore pieno di speranza.
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