Quattro bambini – Jaisalmer

Da questo punto in poi non si trova molto. La città di Jaisalmer, ultimo bagliore di civiltà, apre le porte al deserto del Thar, un enorme distesa di sabbia dorata e roccia che si estende dallo stato indiano del Rajasthan fino al Pakistan. Chiamata città d’oro per il colore dell’onnipresente pietra arenaria che si scontra con il sole infuocato. Nome consono anche per il suo valore strategico e commerciale in epoca antica, quando la via della seta era l’unico collegamento tra due mondi lontani.

La città è maestosa, è vero, ma mi ha stancato in fretta; la sua importante componente turistica la rende inevitabilmente appetibile ai cacciatori di affari. Mi fermano sempre per chiedermi qualche spiccio o per offrirmi inutili servizi, è così facile smascherare la loro finta gentilezza. Mi allontano il più possibile e mi siedo sui gradini sporchi di un casolare. Il proprietario esce, con un vivace cenno della mano mi permette di star lì seduto e, nel giro di pochi secondi, dalla stessa porta cominciano a spuntare varie testoline che mi guardano curiose. 

Sono finito in questa via silenziosa, periferia della periferia, non ci sono auto, né il solito fiume di persone che decora ogni area percorribile a piedi. E’ impossibile restituire a parola ciò che succede ogni giorno, lungo le vie di qualsiasi città o villaggio indiano. Il lettore non potrebbe mai capire questo tableau vivant. Il film comincia dall’alto, come una panoramica: cielo blu elettrico dove nessuna nuvola osa intrecciare danze. Giù, poi, conglomerati di tetti divisi da strade, ai bordi delle quali le persone lavorano, cucinano, mangiano, discutono e si lavano. Va in frantumi quella sacra linea di demarcazione tra spazio intimo e pubblico, su cui noi occidentali basiamo esistenze intere. Si entra  in uno spaccato di vita quotidiana che disturba, almeno all’inizio, per diventare poi qualcosa di spontaneo e naturale. E’ il privilegio di vivere cento, mille vite, di un’infinita pellicola vivente in cui nessuno è solo spettatore. 

Quattro bambini, vestiti con indumenti sporchi e lisi, camminano in mezzo alla via, illuminati trasversalmente da un leggero fascio di luce. Una bambina scalza, con i capelli corti e fini orecchini dorati, mi indica. E’ di certo la più sveglia del gruppo. Si atteggia da donna adulta, ma i suoi occhi non mentono, la strada non è ancora riuscita a strapparle quella purezza infantile. Si mette in posa davanti ad una moto parcheggiata, come in una locandina di un film di Bollywood, ed è a suo agio, senza alcun imbarazzo. Mi sfida, spostando lo sguardo tra l’obiettivo della fotocamera e l’orizzonte lontano.

Il bambino più minuto del gruppo, piumino rosso anche con quasi trenta gradi, mi osserva timido e taciturno. L’altro maschio, alto e affusolato, porta una canottiera consumata che lascia intravedere qualche grafica sportiva e un cappello da baseball, che riversa un’ombra scura sugli occhi. Fremono dalla voglia di vedersi in foto, così li accontento. Rimane una bambina che sembra esitare. Ha una giacca consunta e ridotta a brandelli, una sciarpa che ha perso colore, credo si vergogni da morire. Poi, con un po’ di incitamento da parte dei compagni, si fa fotografare. Le dico che è venuta benissimo, ma vuole avere conferma personale e si avvicina allo schermo con espressione ansiosa. Vede la sua immagine, da occhi attratti dal vuoto, ad uno sguardo concreto che si inonda presto di gioia, travolgendo come un fiume la polvere della giacca, gli strappi della sciarpa – tutto appariva ora in perfetta armonia. 

I quattro bambini mi ringraziano con uno sguardo caloroso, più forte di qualsiasi parola. Saltellano dietro l’angolo della via e spariscono. Che persone saranno nell’immediato futuro? Chi li attenderà a casa?

Dopo il loro congedo, ho a malapena il tempo di fare due passi che un’altra ciurma di ragazzi mi circonda. Chiedono foto, mi sbeffeggiano parlando tra loro. Qui in India si ha appena il tempo di metabolizzare un incontro che subito ci si trova a fare i conti con il prossimo, inevitabile e improvviso. La cinepresa del viaggiatore si abitua presto ai bambini petulanti, agli studenti curiosi, alla cordialità degli adulti e agli anziani di poche parole, al complesso, insomma, di questi frammenti di vitalità fulminea. Non si abituerà mai alla sua razionalità che, nel raccontare quanto visto e vissuto, una volta tornato, poserà un velo di straordinarietà e rarità in questi incontri.

L’ultima lancia di sole rosso trafigge, proprio a pochi centimetri dalla mia spalla, la parete dietro di me, mentre m’incammino verso strade sconosciute come ci si dirige con eccitazione verso la sala cinematografica più vicina. Adesso scusate ma devo proprio andare, un altro film sta per cominciare e non posso lasciarmelo sfuggire.