Basta farsi un giro a Tbilisi per capire che in Georgia c’è un’irrefrenabile voglia di Occidente. Lo si percepisce camminando per le sue vie, dove le bandiere dell’Unione Europea sventolano al fianco di quella nazionale, ovunque, ad ogni angolo di strada, nei negozi, nei bar, nei ristoranti. Una scelta di campo chiara, limpida e distinguibile come graziose stelline gialle su sfondo blu. Non è raro imbattersi persino nei vessilli della NATO, appesi alle pareti o incastonati tra gli stipiti delle finestre. Le battaglie si portano avanti anche così; la politica, qui, è dappertutto: sui muri di Tbilisi dominano i colori dell’Ucraina e le scritte “fanculo la Russia”.
C’è addirittura chi, sugli scontrini emessi dalla propria attività, fa comparire la scritta: “Fact check: 20% of Georgian territory is occupied by Russia”.
Il riferimento è alle due repubbliche separatiste, l’Abkhazia e l’Ossezia, che hanno proclamato e difeso, con il sostegno russo, la loro indipendenza dalla Georgia dopo le sanguinose guerre dei primi anni Novanta e del 2008. Ancora oggi le truppe di Mosca stazionano all’interno delle due regioni. Neanche un mese fa, sul settimanale Argumenty i Fakty, il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, Medvedev, ha scritto che «l’idea di unirsi alla Russia è ancora popolare in Abkhazia e in Ossezia del Sud. E potrebbe essere attuata se ci fossero buone ragioni per farlo».
Nonostante ciò, dopo l’invasione dell’Ucraina, il rapporto tra Putin e il governo georgiano è apparso sempre più disteso. Ma a questa apparente apertura verso Mosca ha risposto Irakli Kobakhidze, leader del partito di governo Sogno Georgiano, intervistato dal Foglio: «Noi siamo uno dei paesi più vulnerabili davanti alla minaccia russa e per questo il governo ha una politica molto pragmatica: ci è stato chiesto di imporre sanzioni ma noi non abbiamo la possibilità di farlo. L’Ue e gli Stati Uniti hanno pensato ai loro interessi prima di redigere le sanzioni, l’Ue non ha fermato il mercato dell’energia del tutto, gli Stati Uniti non hanno sospeso l’import di fertilizzanti e perché mai noi avremmo dovuto distruggere la nostra economia fermando export alimentare e turismo?».
Prima si parlava di Tbilisi in quanto capitale, ma la sete di Europa in Georgia si estende in tutto il Paese: secondo gli ultimi dati, l’85% della popolazione si dichiara favorevole ad entrare nell’UE. La Georgia in effetti ci ha provato, in tempi tutt’altro che sospetti: il 3 marzo 2022, ad una settimana dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, ha presentato la propria candidatura. Circa tre mesi dopo, sentito il parere della Commissione, il Consiglio Europeo ha dato però parere negativo. La Georgia, che dal 2016 è uno Stato associato dell’Unione, non risulta oggi fra i Paesi che godono dello status di candidato. Tra le motivazioni della Commissione europea, una lunga lista di riforme e passi in avanti ancora da compiere, tra cui: rafforzare il controllo democratico, consolidare l’intera catena istituzionale e giudiziaria, maggiori sforzi nella lotta alla corruzione, crescita del proprio capitale umano nell’ottica della competizione europea, intraprendere maggiori sforzi per garantire un ambiente mediatico libero, professionale, pluralistico e indipendente, e attuare l’impegno alla “de-oligarchizzazione” (un chiaro riferimento a Bidzina Ivanishvili, potente oligarca fondatore di Sogno Georgiano).
È andata meglio ad Ucraina e Moldavia, alle quali, invece, lo status di paese candidato è stato concesso. È tuttavia lecito domandarsi se entrambi questi Paesi rispettino effettivamente le condizioni poste dall’UE in termini di istituzioni stabili, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani e della tutela delle minoranze, economia di mercato competitiva, eccetera.
Non a caso, Kobakhidze di Sogno Georgiano non si è risparmiato qualche frecciatina: «Io non voglio fare paragoni, però a noi appare evidente che Moldavia e Bosnia non abbiano raggiunto il nostro livello di riforme, per non parlare dell’Ucraina». Il Consiglio Europeo, tra le sue conclusioni, ha comunque riconosciuto che «il futuro di questi Paesi e dei loro cittadini è nell’Unione Europea». Una garanzia che non si è dimostrata sufficiente a fermare l’afflusso di georgiani in Piazza Indipendenza, a Tbilisi, il 24 giugno 2022: circa 60 mila manifestanti dimostrarono tutto il loro disappunto nei confronti del governo di Garibashvili, considerato primo responsabile del mancato via libera da parte dell’Ue.
Le ultime vicende che hanno coinvolto Sogno Georgiano hanno poi complicato ulteriormente le cose: una su tutte, l’avvio della procedura di impeachment ai danni della Presidente della Repubblica Salomé Nino Zourabichvili, accusata di aver compiuto viaggi istituzionali all’estero senza prima consultarsi con il governo, come vorrebbe la costituzione. Viaggi che il capo di Stato ha condotto prima a Berlino e poi a Bruxelles, per invocare la concessione dello status di Paese candidato. Un’azione che il partito al governo ha giudicato come «diretta contro gli interessi statali della Georgia». E nonostante i numeri per l’impeachment in realtà non ci siano – sono necessari i voti dei due terzi del Parlamento – la Zourabichvili si è vista recapitare una lettera che le vieterebbe future avventure diplomatiche.
Ma i problemi non finiscono qui: Sogno Georgiano è sotto la lente di ingrandimento dell’Ue per i suoi rapporti quantomeno ambigui con il Cremlino (a marzo la Russia ha anche eliminato il divieto di volare da e per la Georgia) e a causa delle simpatie del premier Garibashvili nei confronti del suo omologo ungherese Viktor Orban. Tutto ciò si somma alla vicenda della cosiddetta “legge bavaglio” proposta dal partito di Garibashvili a marzo di quest’anno: una misura pensata per obbligare gli enti finanziati per oltre il 20% dall’estero di iscriversi ad un registro ministeriale in quanto “agenti di influenza straniera”. Un provvedimento che rischiava di compromettere le libertà dei media e delle Ong, ritirato ufficialmente dopo l’ondata di proteste che hanno invaso Tbilisi per due giorni.
Per queste ed altre ragioni, l’alto rappresentante della politica estera Ue, Josep Borrell, ha voluto parlare chiaro durante la sua visita a Tbilisi della settimana scorsa: «Lo status di Paese candidato non è un qualcosa che si può dare per scontato. Lo si deve guadagnare attraverso le riforme e si deve aderire ai valori dell’Ue. E qui (in Georgia, ndr) c’è ancora del lavoro da fare, voglio essere franco».
Nelle prossime settimane, l’Unione Europea valuterà i progressi fatti e gli obiettivi ancora da raggiungere per la Georgia nel quadro del cosiddetto processo di allargamento, con il quale l’Ue tende ad integrare nuovi Paesi non appena essi soddisfino determinati requisiti politici, sociali ed economici. Si veda, per esempio, l’ammissione di Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Polonia, Repubblica Ceca e Paesi Baltici nel 2004. Della Bulgaria e della Romania nel 2007.
E’ ormai chiaro che l’allargamento a est dell’Ue non è più una questione puramente tecnica: l’espansione risponde al bisogno di riempire uno spazio, perché gli spazi politici vuoti non esistono. Sarà cruciale per Bruxelles riuscire a governare al meglio questo processo, a partire dal ruolo che deciderà di assumere sulla scena globale. Henry Kissinger ha scritto che «l’Europa si trova sospesa tra un passato che cerca di superare e un futuro che non ha ancora definito». Stesso discorso può valere per la Georgia, che al momento si trova in bilico su un filo molto sottile: ogni errore rischia di essere fatale agli occhi vigili di Bruxelles. Il sentiero però è stato tracciato, il popolo georgiano ha ben chiaro qual è la strada da percorrere. Il suo governo forse ancora no.