Annalisa Camilli è una giornalista italiana che si occupa prevalentemente di reportage e inchieste. Ha lavorato all’agenzia di stampa Associated Press e a Rai News 24, prima di approdare nel 2007 alla rivista Internazionale. I suoi articoli sono stati pubblicati da Politico, Open Democracy, The New Humanitarian, Tageszeitung, Rsi e Woz. Ha vinto il premio Anna Lindh Mediterranean Journalist Award, il premio Cristina Matano, il premio Saverio Tutino, il Premio speciale Com&Te Giancarlo Siani e il premio Kapuściński. Ha scritto La legge del mare (Rizzoli, 2019), Un giorno senza fine (Ponte delle Grazie, 2022), L’ultimo bisonte (La Nuova Frontiera, 2023) e i podcast Limoni, Da Kiev, Giornaliste.
Dal 2014 si è specializzata nelle questioni che riguardano l’immigrazione e le crisi umanitarie. Sulle pagine di Internazionale racconta i flussi migratori e le loro dinamiche, senza mai perdere di vista le storie delle persone.
Partiamo dall’inizio. Quando hai capito che il giornalismo sarebbe diventato il tuo mestiere?
La mia carriera da giornalista è iniziata un po’ per caso. Dopo la laurea in Filosofia politica alla Sapienza, ho avuto una crisi: mi sembrava che l’università non avesse un grande rapporto con il mondo in continuo cambiamento. Avevo voglia di conoscere ciò che ci circonda e ho quindi frequentato i corsi sui diritti umani della Fondazione Lelio Basso. Sono venuta a contatto con molti giornalisti di Rai 3 come Massimo Loche, Maurizio Torrealta e Roberto Morrione, esperti di reportage ed esteri. Questo corso è stato un’illuminazione: il giornalismo mi permetteva di mettere insieme la mia formazione teorica sulla filosofia del diritto e la mia passione per il mondo e per le storie delle persone.
Perciò hai scelto di lavorare sul campo.
Oggi molti giornalisti sono costretti a fare il proprio lavoro dal desk, soprattutto con l’introduzione dell’intelligenza artificiale. Io penso che in questi quindici anni di esercizio della professione ho dimostrato a me stessa e ai lettori che il buon giornalismo non può far a meno di andare sul campo.
Perché?
Questo ti permette non solo di entrare in contatto con le persone, con le loro storie e con la dimensione della loro esistenza, ma anche di arrivare a conoscere gli avvenimenti, ancora prima che essi accadano. Ad esempio, l’ultima volta che sono stata in Tunisia, era già molto chiaro quello che sarebbe successo nelle settimane successive. Il lavoro sul campo mi ha permesso di entrare in relazione con tante persone e capire le loro motivazioni, spesso diverse rispetto a quelle che mi ero immaginata precedentemente.
Un’icona del giornalismo per cui provi ammirazione?
Mi sento molto vicina ad Ilaria Alpi, perché ho respirato la sua storia fin dal principio. Sono rimasta affascinata dal suo modo di leggere i fenomeni in ottica transnazionale e non solo come questioni nazionali. Ilaria era una giornalista molto preparata ed aveva un forte interesse per il mondo e per le dinamiche che lo governavano. Il suo sacrificio in contesti di rischio e la sua dedizione alla missione professionale sono oggi un esempio per ciascuno di noi.
Ce ne sono altre?
Mi viene da pensare, stavolta, ad una non-giornalista, Susan Sontag: intellettuale e scrittrice statunitense che ha impiegato la sua personalità in battaglie sociali, politiche e umane. Susan mi ha aiutata a riflettere sui cortocircuiti dell’informazione, soprattutto quando ci si occupa di violenza e di sofferenza estrema, come in guerra. Nel suo libro “Davanti al dolore degli altri”, Sontag si interrogava sull’aspetto etico delle immagini e su come «noi», gli spettatori, assistiamo al dolore raccontato dalle fotografie. “Non si dovrebbe mai dare un «noi» per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri”- diceva.
Infine Joan Didion, che per il suo livello di scrittura narrativa ha avuto la maestria di scrivere cose vere con uno stile da fiction.
La credibilità e la competenza di un giornalista si giudicano sulla base di diversi fattori. Quali sono i valori che ispirano la tua professione?
Sicuramente lo spirito critico e l’obiettività, che per me non significa essere neutrale, ma assumere il punto di vista del più debole, mai del potente. L’obiettivo è sempre quello di mettere sotto scacco le politiche e il potere: questo, purtroppo, può essere pericoloso in un Paese come l’Italia, dove molti giornalisti pagano le conseguenze del loro lavoro con minacce e querele. Obiettività significa rappresentare, il più possibile, tutti i punti di vista della storia: dare al lettore la possibilità di immergersi a pieno nella realtà sotto diverse prospettive.
Cosa significa, per te, raccontare il mondo che ci circonda?
Noi siamo dentro le storie e quindi tendiamo a dare maggior rilievo a quelle che ci colpiscono di più. Pertanto, quando scriviamo, dovremmo fare lo sforzo di mettere in discussione anche le cose che ci sembrano più scontate, uscendo dalla nostra comfort zone.
Credo che il compito del giornalista sia proprio quello di avere una grande curiosità per il mondo ed alimentare sempre il dubbio.
In uno dei tuoi ultimi articoli per Internazionale, Dieci anni di fallimenti a Lampedusa, racconti un’isola priva di sovraffollamento dei migranti dopo la visita della Presidente del Consiglio. Lampedusa la conosci bene: come ti prepari per andare lì?
Lampedusa è uno dei posti più facili per me, conosco moltissime persone sul campo e ho il contatto con varie fonti dirette che mi permettono di avere le notizie prima degli altri.
È una frontiera che si è attivata nuovamente negli ultimi tempi ed io sono in contatto telefonico continuo con le organizzazioni e le associazioni sull’isola.
Il lavoro preparatorio per un reportage, però, è importantissimo e non deve essere sottovalutato; dagli aspetti logistici a quelli riguardanti i permessi per entrare in determinati posti e svolgere il proprio lavoro.
I dati su Lampedusa dicono che negli ultimi anni i posti nei centri di accoglienza si sono ridotti drasticamente, mentre gli arrivi nell’isola sono aumentati. Cosa dobbiamo aspettarci in futuro?
È difficile dire cosa ci riserva il futuro ma, secondo i dati delle organizzazioni internazionali, i movimenti di persone sono in aumento da decenni per disparate ragioni. La crisi climatica, politica ed economica, e naturalmente le guerre, spingono sempre più persone a muoversi dai propri Paesi di origine.
L’Europa ha gestito i flussi migratori nel modo giusto?
L’Europa è uno dei continenti che accoglie di meno i profughi, in quanto essi tendono a spostarsi nei Paesi più vicini. I Paesi che accolgono di più non sono quelli europei, ma sono ad esempio la Turchia e il Libano. Il continente europeo, dagli anni Novanta, non si è dotato degli strumenti adeguati per la gestione delle politiche dei flussi migratori.
E l’Italia?
L’Italia è sempre stata interessata dalle ondate migratorie: essendo un lembo di terra nel Mediterraneo, ha sviluppato una certa expertise sul tema, grazie anche alle tantissime organizzazioni presenti sul territorio. Dal 2018 il sistema dell’accoglienza italiana è stato di fatto smantellato a seguito della politicizzazione del tema. Oggi, di fronte ad una nuova crisi come quella dalla Tunisia, l’Italia è tornata all’anno zero.
Grazie della disponibilità, Annalisa
Prego, figurati.