I capelli corti e lo sguardo apparentemente severo, Natalia Ginzburg è lì – un suo ritratto, ovviamente –, nella Sala Grande della Fondazione Circolo dei Lettori. È una sera di ottobre e mi trovo a Torino, la città dove sia io che Natalia siamo cresciute.
I viali e i controviali torinesi hanno voce, raccontano la storia della letteratura italiana del Secondo dopoguerra, hanno sapore, sapore di cielo, come diceva Pavese delle prime ciliegie piccole e acquose che tirava fuori dal taschino e porgeva con parsimonia a Natalia.
Mi trovo qui per assistere al primo incontro di “Scrivere con la voce”, un ciclo di conferenze letterarie che si terrà presso la Fondazione Circolo dei Lettori di Via Bogino 9, dove critici, scrittori e attori ripercorreranno la loro esperienza della narrativa ginzburghiana, caposaldo della Letteratura novecentesca.
Il primo incontro avviene in occasione della prima regia teatrale di Nanni Moretti, che esordisce al Teatro Stabile di Torino con Diari d’amore, la tessitura delle due recite della Ginzburg Fragola e Panna (1966) e Dialogo (1970): entrambe le commedie, pensate inizialmente come due sceneggiati televisivi separati e unificate in un secondo tempo da Nanni Moretti, vedono come protagoniste due giovani donne sposate e ancora “spettinate”, quasi irriverenti nella loro ingenuità – e proprio per questo autentiche.
Gli spettatori prendono il proprio posto. Do un’occhiata attorno. La sala è gremita, il pubblico eterogeneo. Non riesco ad afferrare l’identità precisa di questo ambiente, così principesco, sfarzoso, quasi costruito. Delle luci violette illuminano i bassorilievi secenteschi: sembrano non c’entrare granché con il resto, forse sono state messe lì proprio per mitigare il clima tanto serioso. Aiutano anche le sedioline in plastica trasparente, poco comode ma moderne. Il Circolo dei Lettori è quasi simpatico grazie a questi escamotages. Ti mette a tuo agio, ma ti ricorda anche di tenere la schiena ben dritta. Di fronte a me una ragazza prima legge, poi comincia a prendere appunti, riempie la brochure dell’evento di frasi lunghe e aggrovigliate.
Sul palchetto, qualcuno comincia a parlare – è Mariapaola Pierini, moderatrice dell’evento e docente del DAMS della città –, la conferenza comincia e gli attori vengono a uno a uno presentati: sono Valerio Binasco, Daria Deflorian, Alessia Giuliani, Arianna Pozzoli e Giorgia Senesi. Parlano in modo spigliato, la dizione immacolata è quella degli attori di teatro.
Ascolto per prima la riflessione di Alessia Giuliani, che interpreta Flaminia in Fragola e Panna e riprende poi il ruolo di Marta in Dialogo. Scelgo di pormi in una posizione di ascolto: il punto non è recensire l’opera di Moretti né farne una sintesi, ma raccogliere le tracce della voce di Natalia all’interno dei suoi personaggi, nelle sue donne raccontate e falsamente indifese.
La scrittura di Natalia Ginzburg ha la forma di una testimonianza diretta e imperfetta: è nota la sua preferenza per il vero, all’interno del quale si muove con maggiore libertà. Facendo un tutt’uno di realtà e invenzione, l’autrice cattura l’attenzione del lettore includendolo in un’esperienza alla volta intima e totalizzante. Se Natalia scrive con la voce, ne dobbiamo inevitabilmente osservare il linguaggio, famigliare appunto, indubbiamente una delle caratteristiche più lampanti della penna ginzburghiana. Un linguaggio di tutti, di casa, maldestro, mi pare di sentire uno degli attori descriverlo come “caustico e chiuso” e mi scopro subito in disaccordo: lungi dall’ermetismo, la parola della Ginzburg è evocativa più che circoscritta al mero scenario casalingo.
È un linguaggio di mani, come sottolinea la Giuliani, i personaggi di Natalia gesticolano, si toccano, e il tocco (o la mancanza di esso) ritma il racconto: Marta, protagonista di Dialogo, viene descritta dalla sua interprete come “svampita”, incastrata tra un matrimonio e una relazione extraconiugale. Assistiamo a uno scambio celere tra lei e il marito Francesco, i coniugi si muovono in un verso e poi nell’altro entro i limiti del loro letto, innescando un andamento continuo di parole e movimenti scomodi e persuasivi. Il dibattito non diventa mai acceso, resta velato da un filo comico non esplicitamente dichiarato. Quasi esasperante, il confronto tra i due è per qualche ragione anche esilarante e accogliente.
Ai tempi del suo esordio letterario la Ginzburg sogna di essere scambiata per un uomo. Racconta di percepire in sé i cosiddetti difetti delle donne: la mancanza di obiettività, i sentimentalismi, e teme che essi possano trasparire dai suoi racconti. Poi si ricrede: non si può scrivere sentendosi diversi da ciò che si è. Natalia è una donna che sa storie di donne, e che non potrebbe mai scrivere adottando la prima persona maschile. La scrittura della Ginzburg non fa leva su posizioni ideologiche, è piuttosto il testamento di una realtà passata, la descrizione di uno schema sociale più rigido rispetto a quello di oggi. Se l’uomo ginzburghiano non tollera altro che argomenti scientifici e politici mentre la donna aderisce anche al “futile”, non è perché questa sia ottusa e remissiva, ma proprio perché la scrittrice, nemica delle invenzioni, compie la scelta stilistica di riportare le circostanze in quanto tali, scegliendo il dato di fatto come fondamento narrativo.
Gli uomini e le donne di Natalia agiscono parallelamente e in modi contrapposti, un po’ come illustra il “balletto” dell’evitamento di Marta e del marito Francesco. Un aspetto presente anche in Lessico Famigliare, dove il padre dell’autrice viene descritto come accigliato, incollerito, che rimprovera la moglie invitandola a smettere di babare, di ciaciare e di star dietro a tutti quei sempiezzi. E la madre Lidia, di canto suo, fa delle docce gelate pur odiando il freddo, si fa confezionare gli abiti dalle sartine, ha orrore delle vecchie – che sono poi le sue coetanee – , eppure legge Proust, frequenta il teatro, non teme l’alternanza tra frivolezza e serietà.
Mi rendo conto di come la produzione letteraria della Ginzburg sia in bilico tra quell’antico assetto socio-culturale della “donna angelo” e i primissimi segni di emancipazione del femminile: come ricorda la Giuliani, le donne ginzburghiane sono dentro e fuori, sospese, hanno i contorni sfocati. E lei non fa altro che raccontarle. Si parla di donne dinamiche, contestatrici, che compiono scelte indisciplinate e non convenzionali: è il caso di tutte, ma in particolare di Barbara, personaggio principale di Fragola e Panna (1966) – interpretata da Arianna Pozzoli nei Diari d’amore di Nanni Moretti –, che scappa di casa lasciandosi alle spalle un marito timido e violento e il figlio neonato, si allontana da Roma e si avvia verso la campagna per ricongiungersi con il suo amante – che, per inciso, di lei si era già stancato. La donna ginzburghiana è forse una sola, una donna che muta nei connotati fisici e ambientali, e che è insieme fittizia, reale e pacatamente autobiografica – seppur parzialmente. Suggerisce un continuum tra una novella e il racconto successivo, passeggia tra un romanzo e l’altro con disinvoltura e sfrontatezza.
Sicuramente mi trovo di fronte a un caso letterario ibrido per natura, quello di un’autrice-testimone a cavallo tra un’epoca e l’altra. Natalia Ginzburg contesta i canoni sociali prescritti, e non lo fa per dottrina, ma per istanza osservatrice. Natalia Ginzburg è timida, le sue poche interviste televisive sono impacciate, balbetta e incespica nelle sue stesse parole. Il ruolo di predicatrice non le si confà, il libro è la sua casa.