Oppenheimer ci ricorda la grandezza di Günther Anders (e quanto ancora dobbiamo fare per evitare l’Apocalisse)

Ormai, a oltre due mesi dalla sua uscita, l’ultima fatica di Christopher Nolan l’hanno vista quasi tutti. Inutile girarci intorno: Oppenheimer è, allo stato attuale, uno dei più grandi film di questi primi 23 anni di XXI Secolo, un capolavoro che forse – il dubbio quando si tratta dell’Academy è sempre d’obbligo – varrà più di qualche Oscar al regista e sceneggiatore britannico, per buona pace dei suoi instancabili e sempre agguerriti detrattori. Tuttavia, non è di questo che si intende discutere. Per quanto un’oggettività, specialmente in campo artistico, sia sempre difficile da stabilire univocamente, è innegabile che quest’opera fuoriesca prepotentemente dallo schermo bucandolo senza pietà e investendo chiunque vi si pari davanti senza offrirgli la benché minima possibilità di salvezza. Dunque, è chiaro che restarvi indifferenti è compito arduo. È qui che Nolan vince ed è qui che potrebbe, per non dire dovrebbe, fermarsi qualsiasi recensione.

Invero, Oppenheimer potrebbe rappresentare una ghiotta occasione per recuperare tutto quel patrimonio di autorialità critica nei confronti del nucleare che ci siamo drammaticamente persi per strada. Dal secondo dopoguerra a oggi, a metterci in guardia sulla nostra potenziale autodistruzione sono stati in parecchi. Tuttavia, per quanto concerne i discorsi sulla bomba ci si potrebbe benissimo fermare, per esaustività e chiarezza (ma anche per forza espressiva), a quelli fatti da un filosofo-giornalista-attivista quasi dimenticato che la lotta alla «cecità all’Apocalisse», come la definiva lui, l’ha assunta a vera e propria ragione di vita. Quasi dimenticato, occorre dirlo, anche a causa di un certo snobbismo accademico che lascia quantomeno perplessi, per quanto lui stesso ci abbia sempre tenuto, con piglio sarcasticamente polemico, a tirarsi fuori dal circuito delle aule. Si chiamava Günther Anders (Stern il suo vero cognome) e questa battaglia l’ha combattuta per 47 (quarantasette!) anni, dal 1945 al 1992. Fino ad allora, invano. Finora, invano.

Un mondo di musichette, mentre fuori c’è la morte
Semicitando uno dei tre sceneggiatori protagonisti di Boris, si potrebbe dire che «questo è il mondo del futuro: una società di musichette, mentre fuori c’è la morte». Ora, nella filosofia del simpatico Anders di morte si parla in continuazione: c’è la morte materiale, c’è una morte potenziale che è già in atto (un po’ a mo’ di gatto di Schröndiger) e c’è n’è anche una morale determinata da quella tecnicizzazione dell’esistenza che ben era stata operata dalla Germania nazista per i suoi scopi olocaustici; scopi, questi, portati avanti da un lato mediante un perfetto coordinamento industriale, dall’altro rendendo non responsabili i responsabili. Quando Eichmann, davanti ai giudici di Israele, dichiarava di aver semplicemente eseguito gli ordini e di essere stato soltanto una delle molteplici ruote dell’ingranaggio, non faceva altro che dirci questo: che non era responsabile della morte di sei milioni di ebrei.

Sulla spersonalizzazione di Eichmann, se fosse vera o meno, permangono dei dubbi. Ma era certamente valida per tanti altri nazisti: perfetti padri di famiglia per metà giornata, mostri incapaci di provare rimorso per la restante metà. La «banalità del male», la chiamava Hannah Arendt, per qualche anno moglie dello stesso Anders. Ma c’è differenza tra Eichmann e chi, eseguendo gli ordini, ha sganciato Little Boy su Hiroshima e Fat Man su Nagasaki? O rispetto a chi ogni giorno, sul proprio posto di lavoro, compie, più o meno consapevolmente, azioni orrende che si rivelano tali soltanto ex post e che producono effetti ancor più orrendi, deresponsabilizzandosene perché quella è la sua mansione, il suo lavoro, e non gli è consentito, da chi lo precede nella scala gerarchica, di porsi domande morali sul proprio fare? Per Anders, no. E infatti, ci dice, noi facciamo ma non agiamo, perché se agissimo, imponendo la nostra volontà ai fini della realizzazione di un nostro intimo scopo, allora non accetteremmo così alacremente di eseguire questo o quell’altro compito impartitoci. È l’arcinota questione marxiana: nel tempo dell’alienazione capitalista – soltanto uno degli effetti antropologicamente drammatici causati dalla razionalizzazione e tecnicizzazione dei processi produttivi e sociali, leggasi anche Weber – appropriarsi del lavoro è, almeno per buona parte dei lavoratori, impossibile poiché è l’oggetto stesso del lavoro, il suo scopo, a non essere proprietà di chi lo produce, bensì di altri – dove con “altri” ci si riferisce oggi, al tempo dell’economia globalizzata, agli imprenditori megalomani (dei quali Musk si è imposto quale assoluta icona) e al sistema economico-finanziario che, attenendosi da bravo soldatino al dogma della crescita, si espande ormai in maniera pressoché autonoma e autoreferenziale, incurante di tutto il resto (inclusi gli imprenditori megalomani). Per questo, e molto se ne sta parlando ultimamente a partire dal fenomeno degli hikikomori (Franco “Bifo” Berardi ci ha recentemente scritto un bel libro, edito da Timeo, intitolato Disertate!), in tanti parlano di alienazione nei termini di quel non-senso del lavoro che investe tutti, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza e dalle filosofie politiche ci ricorda Anders, e che sta alla radice della nevrosi collettiva identificata decenni fa, in parte già a partire da Freud, nella frizione tra le singole volontà esistenziali (laddove vi sia ancora una volontà, fatto non scontato) e il vincolo del lavoro tecnicizzato per il soddisfacimento della triade plusvalore-profitto-crescita. La condizione giovanile odierna, parola di Miguel Benasayag, è investita da questo non-senso, e Anders ne aveva già parlato in lungo e in largo a partire dagli anni ‘50 (con chiarezza disarmante, tra l’altro, nel saggio Il senso, contenuto nel secondo volume de L’uomo è antiquato). Ce lo dicono psicologi, psichiatri, filosofi, sociologi, professori di ogni tipo ma soprattutto i protagonisti inascoltati di questa tragedia, i quali talvolta finiscono per gridare l’estraniazione esistenziale togliendosi la vita – secondo i dati Istat, dal 2018 al 2020 sono stati in 1.523 a suicidarsi nella fascia tra i 14 e i 34 anni.

Ma tornando alla questione atomica: come ci si fa a sentire responsabili degli effetti di così tante morti, se non si riesce a sentire la responsabilità neanche per tutte quelle azioni apparentemente amorali, come montare un singolo bullone dell’ordigno, che si rendono necessarie a produrle, quelle stesse morti? La risposta è una soltanto: non possiamo. Anzi, non riusciamo. Perché la nostra coscienza, ripete quasi ossessivamente Anders, non è oggi capace di assimilare una distruzione così enorme. In primis, perché tale distruzione ci appare compiuta “indirettamente”, cioè azionata attraverso tutta una serie di mediazioni spersonalizzanti quale può essere, ad esempio, un pulsante, ben diverso dallo sparare a una persona che ci si para davanti (chiedere a tutti i soldati tornati in patria col PTSD e simili). In secundis, perché la nostra immaginazione, e questa è una delle massime ossessioni della filosofia, non concepisce il nulla. Se ne deduce che dinanzi a una non-esistenza fattuale, come quella generata dall’atomica, sia complicato, se non addirittura impossibile, sentire davvero, moralmente, l’orrore prodotto. Orrore che, in virtù della già citata spersonalizzazione, crediamo che non ci riguardi, dal momento che l’atomizzazione del lavoro ci ha resi responsabili soltanto della corretta esecuzione della nostra mansione, degli ordini che dobbiamo portare a compimento. Così, in quanto «utopisti a rovescio» in grado di realizzare ciò che non immaginiamo, non facciamo altro che «sopraliminare»: a un effetto troppo grande, reagiamo con una presa di responsabilità minima o nulla. Al massimo, come parte di questa schizofrenia morale, ci scandalizziamo per un tempo limitato o, forse peggio, ci buttiamo su un sentimentalismo vacuo che cela in realtà uno iato incolmabile, che poi è vera indifferenza, verso l’oggetto dello scandalo. A tal proposito, l’esempio più vicino alla nostra quotidianità ci è dato dalle morti nel Mediterraneo o da quelle in Ucraina, per non parlare poi dei suicidi giovanili. Vasi che continueranno a rompersi sotto lo stupore di (quasi) tutti e i cui pezzi troveranno, come hanno fatto in passato, il proprio spazio tra quelli che già formano la montagna abbandonata nel dimenticatoio della coscienza collettiva e individuale, rendendola sempre più alta e difficile da scalare.

Non c’è dunque di che stupirsi se in un’epoca dove lo sviluppo tecnico e l’espansionismo economico, servendosi a vicenda, procedono per fatti loro, abbia attecchito l’idea che la bomba, così come il nucleare, sia un semplice mezzo a nostra disposizione. Questa, secondo il filosofo di Breslavia, è un’assurdità bella e buona: un oggetto del genere è infatti un assoluto tra gli assoluti che ci rende onnipotenti e assolutamente impotenti allo stesso tempo. Perché «dato che possediamo la forza di apprestarci vicendevolmente la fine, siamo i signori dell’Apocalisse. L’infinito siamo noi» (G. Anders, L’uomo antiquato, Vol. 1: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale (1956), trad. di M. A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 225).

Tra l’altro, come può una simile tecnologia essere smistata nella categoria dei mezzi se il suo utilizzo – soprattutto se in un conflitto atomico su larga scala – preclude la possibilità di porsi altri fini? Un mezzo, infatti, serve a questo: ad agguantare un risultato. Ma che risultato sarebbe sparire dalla faccia della Terra trascinando con noi anche tutto il resto? Ultimo ma non ultimo, l’atomica ci priva anche della nostra libertà, giacché gli stati sono costretti a rivedere i propri piani ogni qualvolta li si minaccia con nuove bombe, armi super avanzate e test missilistici. In questo quadro, l’alternativa al retrocedere con la coda fra le gambe è rappresentata dalla guerra o dallo stallo alla messicana, che il mondo ha largamente sperimentato durante la Guerra Fredda con la Mad (mutual assured destruction). Fatta eccezione per qualche nichilista che con buona probabilità mente a se stesso, tali prospettive non sono esattamente allettanti.

Tra condivisione e non proliferazione
Ma quindi, quali sono queste musichette? In fondo, è dal secondo dopoguerra che facciamo accordi globali che riducono quasi a zero – ma «zero sarebbe meglio» – il rischio di un’altra Hiroshima. Tutto vero, assolutamente. Non possiamo affermare che queste siano state misure inadeguate o insufficienti: molti sono gli stati che vi hanno aderito e che sembrano intenzionati a mantenere gli impegni presi. Ciononostante, vale la pena soffermarsi su alcune contraddizioni che, almeno allo stato attuale, possono rendere questi trattati inefficaci.

Per comprendere a pieno le incoerenze, e le trappole, che si celano dietro alle buone intenzioni, sarebbe utile partire dal famigerato Nuclear sharing. Stando a questa politica di deterrenza impiegata in passato per controbilanciare nel blocco occidentale l’espansionismo nucleare dell’Urss, tutti gli stati Nato privi di arsenale atomico hanno diritto, in vista di un potenziale conflitto nucleare, a riceverne dagli stati che ne sono in possesso, i quali dovrebbero anche impegnarsi nel fornire l’addestramento militare necessario all’impiego di tali armi. Parliamo, dunque, di Regno Unito, Francia e, soprattutto, Usa, unico stato dell’Alleanza Atlantica che, in accordo a patti bilaterali, ha già condiviso le proprie armi di distruzione di massa. Queste vengono attualmente ospitate sui rispettivi suoli da Italia, Belgio, Germania, Paesi Bassi e Turchia, i quali, se dovesse essere necessario, avrebbero la possibilità di difendersi da un eventuale attacco nucleare nemico, contrattaccando – questa è l’unica possibilità – con lo stesso tipo di tecnologia. La condivisione nucleare dovrebbe anche garantire, all’interno di uno scenario bellico, un fair play tra gli stati non nuclearizzati della Nato e quelli nuclearizzati che non fanno parte dell’organizzazione. Ma come può esserci fair play se, in caso di conflitto, tali armi potrebbero essere dispiegate esclusivamente a seguito di un’offensiva nucleare della quale si sarebbe vittime e che potrebbe potenzialmente annullare qualsiasi possibilità di difesa? Chiaro, si presume che attraverso il lavoro di intelligence si sarebbe pronti, in anticipo rispetto all’attacco, a un piano difensivo e a una controffensiva. Ciononostante, a molti questa non pare una grande garanzia (anche perché c’è da considerare il controspionaggio). Bisognerebbe poi chiedersi cosa ne pensino tutti quegli stati “puliti” che, essendo fuori dal Nuclear sharing, non hanno nella propria disponibilità armi in grado di garantirgli un posto nell’equilibrio della deterrenza nucleare, tenendo presente che il mondo cambia in fretta e che è impossibile escludere la possibilità di una catastrofe atomica che coinvolga, in qualità di offesi, paesi insospettabili.

Ma contestualmente alla definizione della condivisione nucleare, tra fine anni ’60 e inizio ’70 entrava in scena il tanto discusso Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), elaborato dalla presa in considerazione condivisa della «devastazione che colpirebbe tutta l’umanità a causa di una guerra nucleare e della conseguente necessità di compiere tutti gli sforzi possibili per scongiurare il pericolo di una simile guerra e per adottare misure per la salvaguardia delle popolazioni», così come dal ritenere che «la proliferazione di armi nucleari aumenterebbe drammaticamente il pericolo di una guerra nucleare» (tda). Garantendo a Usa, Uk, Francia, Russia (al tempo Urss) e Cina la possibilità di mantenere il proprio arsenale, il Tnp, specificatamente negli Articoli I e II, prevede non soltanto che gli stati militarmente non nucleari non sviluppino armi atomiche proprie, ma anche che gli stessi non accettino di riceverne da nessuno degli stati militarmente nucleari. L’esito? Trattato firmato e ratificato dagli stati non nuclearizzati che fanno parte del Nuclear sharing. C’è però un problema: nessuno di questi stati, Italia inclusa, ha rinunciato a ospitare l’arsenale statunitense. Pertanto, quantomeno rispetto a questa fattispecie il Tnp non ha avuto il peso che si riteneva dovesse avere.

La proibizione che non c’è
Quello della contraddizione tra Nuclear sharing e Tnp è un problema non indifferente, considerando che ha intaccato anche l’efficacia di quel trattato del 2017 fatto inizialmente passare come possibile soluzione definitiva alla questione atomica. A ragione, dato che il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw) prevede tanto la rinuncia allo sviluppo di arsenale nucleare, quanto lo smantellamento di quello già operativo. Ma con una differenza sostanziale rispetto al Tnp, del quale rappresenta in effetti una versione più radicale: per superare il discrimine formalizzato da quest’ultimo, questa volta neanche alle potenze militarmente nucleari è consentito possedere armi atomiche. E allora, il Tpnw risulta firmato e ratificato esclusivamente da tutti quegli stati, militarmente non nucleari, che si trovano fuori dalla Nato. Perché? I motivi sono molteplici.

Anzitutto, dato che il trattato, allo stesso modo del Tnp, non permette neanche lo stazionamento di armi atomiche sul proprio suolo o sul suolo altrui, allora tutti gli stati aderenti al Nuclear sharing non possono ovviamente aderirvi, o almeno non senza avere garantito l’impegno per il disarmo e lo smaltimento di tutto l’arsenale di cui si è in possesso o che viene ospitato, come parte della condivisione nucleare, sul proprio suolo. Se questo non è stato fatto durante cinquant’anni di Tnp, perché dovrebbe essere fatto per questo nuovo trattato? Non solo: oltre a non avervi aderito nessuno stato Nato, a tirarsi fuori sono stati anche Russia e Cina, per i quali sarebbe impensabile, così come lo è per le altre superpotenze, rinunciare a un’arma di deterrenza, pressione e portata bellica simile; un’arma che realmente, e non solo metaforicamente, rende superpotenti. Inoltre, come detto il Tnp permette loro di mantenere il proprio arsenale.

Andando oltre, c’è poi il caso di Corea del Nord, India, Israele e Pakistan, i quali non hanno aderito neanche al progetto per la non proliferazione (la Corea, ancora sotto il governo di Kim Jong-il, ritirò la propria adesione nel 2003, mentre Israele resta ambigua sulla sua disponibilità di arsenale atomico nonostante siano da anni nelle mani della comunità internazionale conferme a riguardo). Doveroso ricapitolare anche la situazione dell’Iran, stato che, dopo aver aderito al Tnp, ha continuato la ricerca sul nucleare attuando un programma di arricchimento dell’uranio formalmente indirizzato, così come garantito dal trattato, alla realizzazione di scopi civili. Ciononostante, il programma ha causato i sospetti dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, convinti, insieme alla Germania (da qui il “5+1”), che esso nascondesse l’intenzione di sviluppare armi di distruzione di massa – prospettiva che va contestualizzata anche nella posizione, di appoggio dichiarato a certe fazioni del terrorismo islamico, che l’Iran ricopre all’interno dei conflitti mediorientali, con particolare attenzione alle ostilità verso Israele e, di fatto, tutto l’Occidente democratico. A seguito delle sanzioni e restrizioni, non accolte dall’Iran, stabilite dalla Risoluzione 1747 del 2007, si è arrivati nel 2015 al Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa) con il quale il governo di Teheran accettava di depotenziare pesantemente il proprio programma nucleare in cambio della cessazione delle sanzioni imposte da Usa, Ue e Onu. Se non fosse che nel 2018 il governo Trump, appoggiando le pressioni e le denunce provenienti da Gerusalemme, decide di ritirarsi dall’accordo accusando il regime iraniano di minacciare Israele attraverso la costruzione di basi missilistiche in Siria, di supportare l’organizzazione paramilitare libano-sciita Hezbollah (alleata del presidente siriano Bashar al-Assad) e, contestualmente, quella degli Huthi yemeniti, appoggiati anch’essi dai vertici di Damasco nella guerra contro il governo centrale di Aden. Ristabilendo le sanzioni nonostante il parere contrario dei firmatari dell’accordo del 2015 – le cui imprese, a loro volta, hanno dovuto interrompere gli investimenti in Iran per non subire la punizione trumpiana –, gli Stati Uniti hanno ovviamente provocato il dietrofront di Teheran, che ha riattivato a pieno regime il proprio programma nucleare con la promessa di ignorare l’accordo fin quando da Washington non avessero ritrattato la propria posizione. Un aut aut, dunque, che continua anche con la presidenza Biden, la quale – seppure si siano susseguite voci riguardo la volontà di trovare un nuovo accordo, possibilmente fuori dal Jcpoa, dopo le promesse ufficiali fatte a partire dal 2021 – non sembra stia facendo passi in avanti davvero concreti. A onor del vero, va detto che, stando a un recente report confidenziale dell’Aiea riportato dall’Ansa, le scorte iraniane di uranio arricchito sarebbero calate di 949 kg, passando a 3.795,5 kg per restare in ogni caso superiori di 18 volte al limite consentito dall’accordo di otto anni fa. Che si tratti di un tergiversare strategico, anche in vista delle prossime presidenziali, da inquadrare nel clima rivoluzionario scoppiato a partire dalla morte di Mahsa Amini, che continua a mietere vittime e prigionieri tra i protestanti? Forse poteva essere così fino al 6 ottobre scorso, prima dell’attacco che Hamas, forte del sostegno dell’Iran, della Siria e di Hezbollah (sciiti e sunniti condividono tanto l’antisionismo quanto l’antisemitismo), ha sferrato ai danni di Israele. Da allora, considerando anche lo scenario che si aprirebbe a partire da un potenziale allargamento di quella che è già un’escalation, la probabilità che venga siglato un nuovo accordo si sta radicalmente, e velocemente, abbassando. Bisogna a questo punto chiedersi se la spaccatura non sia ormai diventata incolmabile. Di certo, a prescindere dalla risposta a questa e ad altre domande, lo scenario che ci si para davanti non è dei più rassicuranti.

Ammettiamolo: siamo ciechi
Queste sono le musichette di cui si sta parlando: trattati potenzialmente risolutori che nei fatti possono diventare, da un momento all’altro e per i motivi più disparati, carta straccia che brucia in mezzo ai caduti. Musichette, in mezzo alla morte. E se consideriamo anche gli effetti a lungo termine del nostro sperimentare – tra il 1945 e il 1998 sono stati 2053 i test nucleari effettuati – la situazione diviene ancor più inquietante. Perché gli esperimenti «non sono più esperimenti» (ivi, p. 243), bensì vere e proprie esplosioni che non possiamo ignorare e dimenticare, come abbiamo fatto, giusto per citare un esempio, con Mururoa e Fangataufa, atolli polinesiani che sono stati letteralmente bombardati per trent’anni dal governo francese – e sugli effetti di questa folie nucléaire, in particolar modo relativi all’incidenza del cancro alla tiroide, gli esperti ancora stanno indagando, seppure inizino a esserci delle evidenze. E la lista di casi simili sarebbe lunga. Per non parlare, poi, della questione energetica: ultimamente si ha come la sensazione che le esperienze di Chernobyl, Fukushima e Majak non abbiano insegnato nulla. E quindi al via i programmi per l’energia nucleare, tanto pulita – se generata tramite fusione, più difficile da realizzare rispetto alla più tossica fissione – quanto potenzialmente mortale. Se per la legge dell’eterogenesi dei fini capiterà poi che qualcuno si troverà costretto a dover ingurgitare pillole di iodio, poco importa. Si attueranno delle soluzioni come abbiamo sempre fatto, in ritardo e mai in anticipo. Perché il progresso tecnico è il nostro dogma e guai a rinunciarvi, neanche quando ad annunciare l’assurdità della «fede nel progresso automatico della storia» (ivi, p. 261) sono economisti del calibro di Serge Latouche. Pena l’essere accusati di essere reazionari, come accadde ad Anders al tempo e come accade da almeno vent’anni al capostipite della decrescita. Ma bisogna ammettere che il filosofo di Breslavia, quantomeno su un fatto, aveva ragione da vendere: noi siamo «quelli-che-esistono-ancora» (idem, Diario di Hiroshima e Nagasaki. Un racconto, un testamento intellettuale (1959), Ghibli, Milano 2014, p. 201). Viviamo in dilazione, rischiando ogni giorno di ritrovarci a essere, tutto d’un tratto, gli ultimi della nostra specie. Allora, bisognerebbe concedere almeno un po’ di preoccupazione – ma sarebbe più utile se questa si trasformasse in paura vera e propria, diranno sia Anders sia Hans Jonas – quando il despota Putin annuncia il programma per la creazione di  nuove armi atomiche «in grado di mantenere un equilibrio strategico nel mondo». Ma più che l’equilibrio, a essere mantenuto sembra proprio il pericolo di un annichilimento di massa che potrebbe assumere, e forse ha già assunto, le sembianze di una cottura a fuoco lento. Sì, l’inascoltato Anders ci aveva visto lungo: siamo ciechi all’Apocalisse.