Dal 6 al 10 dicembre l’avveniristico Nuovo Centro Congressi dell’EUR, più che una nuvola è parso un gigantesco formicaio di cristallo, una di quelle teche luccicanti dove appassionati mirmecologi con gli occhiali spessi e tendenze voyeuristiche insediano una colonia di formiche per poterla studiare e osservare con attenzione. La colonia, in questo caso, era antropomorfa. Ben 115mila persone – tra cui il sottoscritto, per l’intera giornata di sabato – radunatisi in cinque giorni di amplesso librario collettivo: Più Libri Più Liberi – d’ora in poi PLPL -, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria.
Se a teatro le commedie si dividono in Atti, le giornate a PLPL sono scandite in File – di persone, si intende –, perfettamente organizzate in appositi labirinti geometrici di paletti e nastri estraibili. Ci sono file per ogni gusto e preferenza: per accedere alle sale incontri (queste le più tediose), per i bar, per i bagni, alle casse, per incontrare gli autori, e, ovviamente, per entrare.
Fila numero uno. Controlli di routine. Nel giro di qualche minuto mi trovo davanti a due uomini ben piazzati e dotati di pettorina fosforescente che ci scannerizzano uno a uno con il metal detector. Ovviamente non ho armi con me, ma il dubbio affiora, esattamente come quando alla stazione del treno incrocio un’unità cinofila della polizia e comincio di riflesso a frugarmi le tasche, nonostante siano anni che non fumo nemmeno una sigaretta.
Fila numero due. Acquisto del biglietto. Una ventina di minuti in lenta processione e: «Prego, numero tre». Una ragazza sulla trentina, pettorina nuovamente fosforescente, indica di volta in volta a quale cassa pagare.
«Signora, numero tre. Tre signora, numero tre! A signoraaa!». Una vecchietta dal capello bianco cotonato e dall’udito carente supera la cassa numero uno, poi la due e anche la tre, fermandosi solamente alla numero otto, una volta braccata dalla giovane. «Oggi sclero, già ‘o so», borbotta la ragazza, tornando a dare indicazioni come una vera vigilessa.
In breve, la fiera è così organizzata. Al piano terra si trova la maggior parte degli stand, quelli in cui espongono gli Editori meno famosi, tre bar e la maggior parte delle sale per gli incontri. Al primo piano, che si raggiunge con tre scale mobili vertiginose, il cosiddetto Piano Forum, dove sono situati gli Editori più prestigiosi, un altro bar, e aree dalla funzione più evanescente, come lo Spazio Rai, lo Spazio Ragazzi e il Business Center.
Se i primi due spazi sono più o meno autoesplicativi, cosa si faccia al Business Center è un vero mistero. L’unica funzione che sono riuscito ad attribuirgli è quella di seminare invidia nell’animo delle povere persone che vorrebbero appoggiare il proprio sedere su una di quelle meravigliose sedie laccate bianco che si intravedono al di là dei divisori in vetro. Perché a PLPL si siedono solo i businessmen del Business Center, gli altri stanno in piedi. Non c’è nulla, in tutta la fiera, che abbia la forma – anche vagamente lontana – non dico di una sedia, ma di un cubo, di un rettangolo, di un trapezio, su cui poter riposare un minuto. Non ci si siede e non si legge. Le sale lettura che si trovano al primo piano sono poco più che degli sgabuzzini, ma questo non dovrebbe sorprendere.
PLPL indossa una seconda veste di Festival letterario, con incontri, workshop, firmacopie, ma è in primo luogo una fiera, e alle fiere l’imperativo è vendere. Chi si siede, che sia per mangiare, per parlare, o per leggere, non compra. Gli incontri con i grandi autori e i grandi presentatori sono trappole vischiose per mosche come me, che a PLPL non sarei altrimenti venuto, non amando mercati e mercatini e quella dinamica di compravendita, formale o informale che sia, in cui mi sembra di rimanere sempre fregato. Non tanto per il prezzo, quanto per il fatto che si esce “solo per fare un giro” e si torna a casa con una vaporiera in bambù a tre piani che pare un razzo spaziale.
Ad ogni modo, tornando agli incontri, i nomi sono davvero di rilievo. Il primo in programma a cui sono interessato è Zone di guerra, a cui partecipano Cecilia Sala, Francesca Mannocchi, e Paolo Giordano. Il dibattito si svolge in Auditorium, una sala conferenza maestosa, della capienza di 1.800 persone, rivestita internamente da ben 4.725 pannelli di lucente ciliegio americano. L’Auditorium si trova sulla Nuvola – da qui il nome del centro congressi – un intricato groviglio di acciaio e fibra di vetro microforato che ricorda una nube in sospensione, e ci si accede dal Piano Forum per mezzo di due lunghissime scale mobili. Zone di guerra, così come tutti gli incontri che si svolgono in Auditorium, è preceduto da un rituale scrupoloso.
Questa la scena. Alle estremità delle scale mobili, una che sale e l’altra che scende, parallelamente, ci sono due addetti, uno per estremità, che bloccano rispettivamente salita e discesa con la solita coppia di paletti e nastro estraibile. Per ragioni di sicurezza – così mi dicono – sulla Nuvola non si può rimanere a piacimento, e quando finisce un incontro in Auditorium, anche se si vuole partecipare a quello successivo, è necessario scendere per poi risalire. E così, dietro agli addetti, due legioni di automi, rigorosamente in fila, pronte a darsi il cambio.
Se in Metropolis, il capolavoro di Fritz Lang, la scena iniziale vede due schiere di proletari in uniforme e testa china (metafora di un soggiogo fisico e psicologico) attendere il ritirarsi di una grata di ferro per potersi dare il cambio, i due reggimenti ai capi delle scale mobili attendono invece il riavvolgimento del nastro estraibile. E quando questo avviene, chi era in attesa si può roboticamente riversare sulle scale mobili in modo da potere tornare ognuno alla propria occupazione: chi a fare acquisti, chi al prossimo incontro.
Grazie alla perfetta sincronia dei due addetti, il tutto assume i contorni di una danza fantasmagorica: corpi che scendono da una parte, corpi che salgono dall’altra. Inizialmente lontani, si avvicinano sempre più, al ritrarsi di un gradino alla volta, fino al momento in cui iniziano a sovrapporsi, a sommarsi in un intreccio lisergico.
Ad avermi affatturato, portandomi a PLPL, sono stati quindi gli incontri. Ma di una cosa sono certo: non compererò nessun libro. Non ne ho bisogno. “Sono già impegnato”, come si dice quando si è fidanzati e si rifiuta un’avance. Da buono studente con velleità pseudo intellettuali, per ricalcare adeguatamente lo stereotipo, da qualche giorno ho sul comodino Petrolio – di Pasolini, se occorresse dirlo.
E come potrei allora tradire il buon Pier Paolo, come potrei lasciarmi lusingare dal piacere dell’acquisto e comperare qualcosa di cui non ho la minima necessità, dopo che PPP in persona – tramite interviste su YouTube, si intende – mi ha messo in guardia sulla società dei consumi e sui suoi tranelli? Non accadrà. Conosco il meccanismo e quando si conosce lo stratagemma non ci si lascia fregare. Sono forse un gonzo?
Così mi dico, mentre ripenso a quando ad Atene, nel giro di 10 minuti ho perso 60 euro, a colpi di 20, al celeberrimo gioco delle Tre carte. La ricetta del raggiro, così semplice da risultare deprimente, era questa: un pittoresco vicoletto cittadino e una bella giornata di sole, un ignaro pollo italiano da spennare – il sottoscritto, quattro o cinque vecchietti greci sulla settantina. Un mazziere dirige il gioco, due “compari” finti giocatori che fomentano la preda e qualche palo a sorvegliare la situazione. Come si svolge il gioco l’ho scoperto dopo, ma anche se non si sa bene come funzioni è facile intuire che sia truccato, e vincere impossibile.
Il mazziere mostra una carta e comincia la magia. Seguo quella carta senza batter ciglio, non una volta, non una sola, e il cuore batte come un martello pneumatico, mentre il tempo avanza a rallentatore. Il mazziere mischia, mischia e rimischia ancora, e quando smette so con matematica certezza che è lì, la carta che ha mostrato all’inizio è lì e non può essere altrove. «È quella!». La carta si gira. Il sorriso euforico si trasforma in una smorfia. Pallore. La carta ovviamente non è quella, non può essere quella. E ci casco non una, non due, ma tre volte, in una escalation delirante di adrenalina e psicosi da rivalsa, finché con quel residuo di amor proprio che mi è rimasto raccolgo il mio corpo, ridotto a guscio inerme, e riprendo a camminare con l’espressione tipica della disforia post-coitale.
Tutto questo per dire che non ho davvero la più pallida idea di come io sia finito in coda allo stand di Contrasto, con in braccio una copia fresca di acquisto di Abecedario fotografico di Ferdinando Scianna, in attesa dell’autore per una firma. Non so come sia successo, lo giuro. Anche questa volta non ho battuto palpebra. Come è stato possibile?
Tutto ciò che ricordo è che ero nella Sala Polaris – che nome evocativo – per la presentazione del libro, e Scianna in persona partecipava. Primo fotografo italiano a fare parte di Magnum Photos, testolina pelata e lentigginosa incastonata in un collo corto e una schiena senza spalle, racconta con marcato accento siciliano aneddoti divertenti della sua vita da fotografo. A dire il vero, Scianna, fino a qualche minuto fa non sapevo chi fosse, e a essere ancora più sincero, secondo i piani, non mi sarei nemmeno dovuto trovare lì.
La mia intenzione era quella di partecipare, in Auditorium, all’incontro con Alessandro Barbero, ma la fila, in questo caso, non era una semplice fila: era la Fila, la Fila per eccellenza, la magna Fila. Un biscione interminabile che si addentra nei meandri più reconditi del Piano Forum e di cui non ho mai trovato la fine o, per meglio dire, l’inizio.
Così ho rinunciato, e aprendo l’opuscolo alla ricerca di un’alternativa, ho letto Abecedario fotografico: il nome mi ha colpito e mi sono fidato. Ciò spiega la mia presenza alla presentazione del libro, ma non giustifica il mio corpo eretto con tanto di libro in mano e scontrino quale incontrovertibile prova del delitto, intento a fare la fila all’esterno dello stand di Contrasto.
«Non sono né un fotografo scrittore, né uno scrittore fotografo», borbotta scherzosamente Scianna mentre firma la mia copia. «Allora alla prossima volta», rispondo istintivamente con un gran sorriso, come a dire la prossima vita. Mi è uscito spontaneo perché dentro di me, scherzosamente, l’unica macabra giustificazione che sono riuscito a trovare da quando ho comperato il libro è che possa acquistare valore dopo la morte dell’autore. Solo dopo che le parole hanno ormai lasciato l’epiglottide mi rendo conto della possibile indelicatezza, ma a Scianna, dall’alto dei suoi ottant’anni, poco interessa, e il suo volto non muta minimamente espressione. O forse non mi ha sentito. Vabbè. «Tieni», mi dice, riporgendomi il libro con un gesto deciso del braccio come a dire “Bene, uno in meno”. Ora che la mia copia è firmata, la ripongo con cura nello zaino, e non appena lo richiudo sono colto dalla stessa disforia post-coitale che mi ha colpito ad Atene. Sono stato fregato. Sono un pollo. Arrivato a casa, riapro lo zaino, e prendo la prova del mio fallimento. La tengo in mano per qualche istante, la osservo, e infine la ripongo sullo scaffale. Accanto a Abecedario fotografico, per ironia della sorte, Il Gattopardo: l’unico libro che ho comprato per pochi euro un anno fa, quella singola volta in cui mi sono lasciato trascinare ai mercatini di Porta Portese. Ovviamente, non l’ho ancora letto.