Ricordo che anni fa, nella via principale della mia città natale, aprì un negozio Terranova, una di quelle marche che, come molte altre, attirava al suo interno una me molto giovane e ingenua, tratta in inganno dalle classiche trappole di ogni marchio di Fast fashion che si rispetti: prezzi bassissimi, facilmente accessibili anche per una ragazzina di sedici anni, e capi di pessima qualità che però “andavano di moda”. Nulla di nuovo rispetto a un qualsiasi H&M, Stradivarius, Bershka, luoghi di perdizione dove compravo i miei abiti mondani di cui ora, naturalmente, non ne ricordo più nemmeno uno. Terranova, che come gli altri nascondeva chissà quale circuito insostenibile dietro la produzione di capi low cost, aveva, come se non bastasse, un difetto in più: al solo entrare venivi investito da un odore insostenibile, un profumo forte esageratamente fruttato misto a plastica, che ti si appiccicava alla pelle e non abbandonava le tue narici finché non emergevi da quell’antro e tornavi a respirare di nuovo il buon vecchio smog di città.
E oggi, a distanza di anni, quell’odore fastidioso torna a perseguitarmi. Solo che stavolta non sto facendo shopping con le amiche in un normale sabato pomeriggio adolescenziale. Sono dall’altra parte del mondo, in Guatemala, dentro un gigantesco magazzino in cui mi sono imbattuta per caso esplorando la città più vicina alla comunità dove vivo in questi mesi. Il suddetto garage mi ha attratto dal grande cartello all’ingresso, in cui a caratteri cubitali rossi e sullo sfondo di una sfavillante bandiera statunitense spiccano le parole Se abriò paca. L’edificio è composto da tre sale, separate l’una dall’altra ma comunicanti attraverso piccole porte. Tra le colonne bianche portanti, una sfilata di manichini con capi di ogni genere accoglie i visitatori. Il tetto è formato da un lungo striscione, dice “venta de ropa americana”, vendita di abiti americani, ed è zeppo di loghi di marchi famosi (riconosco Nike, Adidas, Puma, H&M, Zara, ma ce ne sono un’infinità).
Mi decido a entrare. Dentro ci sono almeno una ventina di persone affannate a rovistare in mezzo a una quantità indefinita di capi. I vestiti sono ovunque, penzolano dal soffitto, riempiono gli scaffali, occupano le lunghissime file centrali della sala e sbucano anche da ogni angolo del pavimento, buttati a terra senza un criterio. In fondo a tutto, enormi sacchi bianchi (presumo anch’essi pieni di vestiti), e tante, tantissime paia di scarpe. Vengo assalita da un senso di nausea, l’odore di plastica si mischia a quello del sudore della gente. Da uno scaffale prendo una maglietta rossa a maniche corte, è di Shein, fabbricato in Bangladesh. Il prezzo è di dieci quetzales, circa un euro e venti… Controllo altri capi, un cappello Nike – made in Vietnam – a tre quetzales, una camicia Zara – made in China – a cinque quetzales, un’altra maglia di Shein – made in Cambogia –, cinque quetzales.
Ma come ci sono finiti in questo paesino disabitato del Guatemala degli abiti prodotti in paesi asiatici e di proprietà di marchi occidentali? Provo a parlare con quello che credo sia il commesso, un signore seduto comodamente su una sedia di plastica che smanetta al cellulare. Mi presento e chiedo gentilmente se posso fargli alcune domande sul posto, ma dai suoi monosillabi e dal tono brusco capisco che non vuole dirmi nulla. Mi allontano ed entro nella seconda sala, più piccola di quella principale. Qui un ragazzo molto giovane raccoglie abiti dal pavimento e li posiziona sugli scaffali. Mi avvicino e tento la sorte. Mi dice di chiamarsi Ricardo, ha 18 anni. «Io mi occupo solo delle vendite, non so dirti molto. Il proprietario è quasi sempre fuori e ci lascia le indicazioni su cosa fare. Lavoro per lui da due anni. Sono abbastanza contento, la paga è buona». Un po’ titubante, forse per timidezza, mi spiega il loro modus operandi: ogni settimana più o meno arrivano grandi camion pieni di “abiti di ritorno” dagli Stati Uniti (roba di marca, mi dice, H&M, Adidas, Nike, Zara). Il loro compito è pagare i camionisti come pattuito e, successivamente, scaricare e sistemare gli abiti nel negozio.
«I camion carichi parcheggiano qui di fronte al negozio, non so da dove arrivino precisamente. A volte riceviamo dal capo l’ordine di aprire una nuova paca. Svuotiamo il garage dove sono rimasti meno abiti e lo riempiamo di nuovi capi appena arrivati. In questi casi significa che la roba che è arrivata è “migliore”; quindi, possiamo alzare un po’ i prezzi. Man mano che passa il tempo, abbassiamo i prezzi. A volte arriviamo anche a mettere tutto a un quetzal». Mi assicura che la roba non viene mai buttata, riescono a vendere quasi tutto, e se non riescono la spostano in altre pacas in giro per la città o nei villaggi vicini. L’imperativo è Vendere.
Incuriosita dal riferimento alle “altre pacas”, esco e inizio a vagare per la città. Senza difficoltà trovo altri negozi molto simili. Entro in uno dal nome Exclusivos Allison, che mi sembra originale e ben curato. Anche l’interno è nettamente diverso dalla paca dove mi trovavo prima: qui i capi sono sistemati in ordine, e l’atmosfera in generale è quella di un negozio “normale”. Alla cassa c’è una ragazzina, chiedo di poter parlare con il proprietario e mi dice di aspettare.
Torna dopo qualche minuto con una ragazza molto bella, ben vestita e dai capelli castani raccolti in uno chignon. Si chiama Allison e ha 30 anni, è un’avvocata e da quattro anni ha deciso di aprire questo negozio. «Gli abiti che vendo arrivano dagli Stati Uniti quando i grandi negozi di marca lì fanno il cambio di stagione. Non sono io a comprare direttamente i vestiti, ci sono degli intermediari che esportano gli abiti dagli USA e altri che li ritirano e li portano in punti di raccolta. Io ho un contatto con uno di questi intermediari, è lui che mi fa arrivare una volta ogni due settimane un carico di vestiti». Le chiedo quanto paga per un camion. Mi dice che dipende da quanti vestiti le porta, dai 3000 QT ai 20mila QT (da 400 a 2400 euro). Mi faccio un giro nel suo negozio, la maggior parte degli abiti che trovo dentro sono di Shein e costano quasi tutti dai 50 ai 300 QT (dai 5 ai 35 euro). Allison mi spiega che per decidere i prezzi cerca di riguadagnare il 100 percento di quello che ha speso per comprarli. Se non riesce nella vendita, inizia piano piano ad abbassare i prezzi, fino a regalare letteralmente gli abiti invenduti a chiunque voglia prenderli. «Il mio intento è di non buttare nulla e la maggior parte delle volte riesco a terminare tutto. Se non li vendo, li lascio ai camion che vengono a ritirare la spazzatura». Continuo la mia esplorazione, ma Allison rimane l’unica ad aver risposto alle mie domande senza problemi.
In un’altra paca dove entro, molto grande e dal vivace color giallo, dal nome La gringa economica (gringo è il termine con cui i latinoamericani indicano gli statunitensi), le due signore alla cassa non vogliono rispondermi, mi dicono che non sanno molto, se non che lavorano per il proprietario che, guarda caso, è fuori. In un’altra paca più piccola provo a parlare con due ragazzi che stanno svuotando i famosi sacchi bianchi che avevo visto nel primo negozio. Anche loro non vogliono ricevere domande, e in più mi vietano di fare fotografie. Rientrata nella mia comunità, Nuevo Horizonte, parlo con Miguel, il ragazzo con cui lavoro nella cooperativa e con cui ho legato molto in questi mesi. «Da quello che ricordo le pacas ci sono sempre state. Forse quando ero piccolo se ne vedevano di meno. Adesso sono letteralmente ovunque. Tutti vanno a comprare in questi negozi, sono economici, trovi letteralmente di tutto. Se hai bisogno di qualcosa al volo per una festa o un evento, ti basta andare in una paca e hai risolto il problema senza spendere troppo» mi dice. «E poi è tutto di seconda mano, no? Gli abiti vengono dai gringos che non li usano più. Invece di buttarli, vengono mandati qui e riutilizzati».
Questa idea del “riuso” però continua a non convincermi del tutto. Nei nostri negozi questi capi verrebbero disposti in maniera accurata, secondo precisi criteri estetici. Qui sono buttati alla rinfusa, perché chi non vive nel nord del mondo non ha diritto nemmeno ad un’apparenza di qualità. Eppure gli abiti sono esattamente gli stessi, a New York come a Ciudad de Guatemala. Sicuramente è una maniera facile per i Paesi ricchi di disfarsi di tutta l’enorme quantità di vestiti che sforna l’Industria del Fast fashion. Un metodo rapido e indolore per ripulirsi la coscienza.
I prezzi bassi hanno sempre un forte potere di attrazione, questo è indubbio. Funzionano perfettamente per noi Europei, figuriamoci in Paesi come il Guatemala, che ha un tasso di povertà del 60 percento. Penso al marasma di capi della prima paca e alla gente che li raccoglieva da terra. Che consapevolezza dell’acquisto c’è dietro questo tipo di shopping compulsivo e dettato solo dal bisogno di riempirsi l’armadio? Mi chiedo se possiamo giustificare un gesto così irresponsabile da un punto di vista etico solo attribuendogli l’etichetta “di seconda mano”. Ma cosa stiamo comprando? Dove è stato fabbricato? Da chi e con quali materiali?
Ormai nel mondo del Fast fashion il materiale più utilizzato per produrre i capi d’abbigliamento è il poliestere. Dato il suo costo contenuto, negli ultimi vent’anni l’utilizzo di poliestere è decuplicato. Questa fibra sintetica deriva direttamente dal petrolio greggio e rilascia un gran numero di microplastiche in seguito ai numerosi lavaggi, microplastiche che finiscono direttamente nei nostri fiumi e mari.
I vestiti che ho visto nelle pacas erano tutti prodotti in Paesi asiatici, Bangladesh, Cina, Vietnam, luoghi ben lontani dal Guatemala. Nella maggior parte dei casi, la decisione delle grandi aziende di Fast fashion di dislocare la produzione presso i Paesi in via di sviluppo è dettata dall’assenza di normative che dovrebbero tutelare i soggetti salariati. Il procedimento è il seguente: l’industria dell’abbigliamento cresce e la domanda aumenta; di conseguenza, per mantenere bassi i costi e livelli di produzione elevati, le aziende dei Paesi sviluppati esternalizzano la lavorazione dei tessuti nelle regioni del Pianeta caratterizzate da una manodopera a basso costo. Dal rapporto Benchmark Clothing and Textiles del 2022, leggo che in Guatemala, per le aziende tessili che esportano, sono previsti regimi speciali con benefici di esenzioni dalle imposte sul reddito, dall’imposta sul valore aggiunto (IVA) e dalle tasse di importazione. Inoltre, per queste aziende vengono rimborsate l’IVA e le tasse di importazione sui macchinari. Restano esenti dalle tasse su materie prime, imballaggi, etichette, prodotti intermedi e combustibili. Il rapporto spiega anche che, se tali aziende desiderano vendere il prodotto finito in Guatemala, devono effettuare la nazionalizzazione, cioè, pagare la rispettiva IVA e le tasse di importazione. Tutto un gioco che favorisce la vendita all’estero piuttosto che nel mercato interno.
Come se non bastasse, la continua apertura delle pacas indebolisce le produzioni artigianali. Piccoli tessitori locali (per la maggior parte donne) chiudono perché gli acquirenti preferiscono comprare più merce a un prezzo inferiore. Si perde la componente culturale di quei lavoratori che non riescono a contrapporsi a un mercato in continua crescita. Da quando sono qui in Guatemala, di negozi di abbigliamento locali ne ho visti davvero pochi, forse un paio. E la cosa peggiore è che a volte sono proprio donne come Allison che scelgono di aprire una paca, per comodità e guadagno facile.
La tessitura tradizionale richiede tempo e manodopera. La rivendita di abiti usati provenienti dagli Stati Uniti, invece, è semplice e veloce. Da una ricerca più approfondita scopro che l’Industria tessile guatemalteca è altamente competitiva con la Cina e continua a espandersi, anche grazie ad alcuni accordi di libero scambio con gli Stati Uniti e con l’Europa, che facilitano ancora di più l’esportazione. Alcune soluzioni si stanno mettendo in moto, certo. L’impresa Ethical Fashion Guatemala consente agli artigiani locali di guadagnarsi da vivere preservando il proprio patrimonio culturale offrendo e promuovendo tecniche e materiali tradizionali. Ethical Fashion ha stretto anche un accordo con la compagnia di trasporti DHL, con il fine di arrivare ancora più vicini ai propri clienti ed essere ancora di più “a portata di mano”. Bisogna, in sintesi, creare una nuova coscienza sull’uso dell’abbigliamento. Dobbiamo cercare di introdurre nuove pratiche per utilizzare i nostri abiti più a lungo, mantenendoli bene, ma anche investendo in un guardaroba più piccolo con meno capi di migliore qualità.
Ripenso agli abiti delle pacas. Una volta venduto anche l’ultimo capo al prezzo più basso possibile, dove va a finire tutto, alla fine della giostra? La qualità è pessima, dopo qualche anno questi vestiti verranno ovviamente gettati via. Peccato che, però, nella comunità dove vivo il camion della spazzatura passi soltanto una volta ogni due mesi. Le persone del mio villaggio, per non accumulare troppa spazzatura, la sotterrano, le danno fuoco nel giardino di casa, la gettano nelle discariche più vicine. Una volta in moto con Miguel sono passata di fronte ad una di queste discariche a cielo aperto. Grandi colline di spazzatura (tra cui anche molti abiti) che viene smaltita chissà ogni quanto, e che nel frattempo continua a inquinare l’ambiente circostante. Ricordo di essere rimasta colpita dal gran numero di avvoltoi che si stagliava sulla cima di questo paesaggio artificiale, colorato e maleodorante. «Stanno sempre lì, vicino alle discariche. Noi li chiamiamo limpiamundo, pulitori del mondo», mi aveva detto Miguel mentre osservavo i volatili trafugare in mezzo ai rifiuti scrollando di tanto in tanto le grandi ali nere. È ironico che un animale normalmente associato alla morte sia visto quasi come un benefattore. Pensando alle conseguenze provocate da industrie fuori controllo e all’impotenza del singolo individuo di fronte a danni smisurati, viene da chiedermi: chi è che questo mondo, invece di aiutarlo, lo sta portando – o lo ha già portato – a un punto di non ritorno?