L’assassina silenziosa – il giorno della tragedia
Era il 18 gennaio 2017 quando il telegiornale dava la notizia di una valanga che aveva travolto l’Hotel Rigopiano nel comune di Farindola, a poca distanza dalla mia casa a Pescara. Scesa dal Monte Siella lungo la Grava di Valle Bruciata, la slavina, diventata ormai una frana di legno, neve e rocce, ha investito la struttura con un peso di 120 mila tonnellate e una velocità di 100 km/h. L’impatto è stato talmente forte da distruggere anche i muri e i pilastri in cemento armato della struttura. Mentre una serie di blackout avevano gettato alcune zone del pescarese nel buio, con i cittadini privi di luce e riscaldamento, nelle aree montane era tutto bianco: il cielo, l’aria, gli alberi e le macchine. Le cause più rilevanti della tragedia riguardavano le particolari condizioni meteoclimatiche che avevano interessato il sud Italia e la ravvicinata sequenza sismica nel gennaio del 2017. A distanza di otto anni dal devastante terremoto che il 6 aprile 2009 ha colpito l’Aquila, un’intera popolazione aveva riscoperto le proprie fragilità.
Ricordo bene quanto mi ha scosso la vicenda. Forse perché si trattava di una valanga, e per una che vive molto la montagna, soprattutto d’inverno, le valanghe sono certamente qualcosa da cui guardarsi. Nell’albergo alloggiavano 40 persone: 28 ospiti, di cui 4 bambini, e 12 dipendenti. Solo 11 di loro si sono salvati.
L’Hotel era un’oasi di pace e benessere per gli amanti della natura e per coloro che cercavano un po’ di tranquillità dal caos della città. Rigopiano è una conca carsica, sita nel Comune di Farindola, che sorge nel cuore del massiccio del Gran Sasso, a circa 1200 metri sul livello del mare. Una zona battuta in lungo e in largo dagli escursionisti già a inizio Novecento. Tanti erano i rifugi nell’area e l’Hotel Rigopiano, all’inizio, era uno di questi. Dopo anni di contese da parte degli eredi – periodo in cui la struttura rimase inattiva – i proprietari hanno creato la Società Del Rosso S.r.l.. I lavori di riqualificazione del complesso sono iniziati solo nel 2007 e, da modesta pensione quale era, la struttura è divenuta un resort di lusso con spa e piscine all’aperto. Un’oasi che in pochi istanti si è trasformata in un vero e proprio inferno.
Quel giorno la neve scendeva come poche altre volte e anche chi avrebbe voluto passare dei giorni di pace si era convinto che era meglio andar via. Le strade di collegamento erano però bloccate, compresa l’unica via che faceva da ponte tra i paesi e la valle. Il nervosismo stava contagiando tutti, anche chi nel resort lavorava da tanto tempo e aveva già vissuto una situazione simile. Due anni prima, infatti, venti persone erano rimaste prigioniere della struttura a causa di un’ingente nevicata: omogeneizzati, pannolini e paracetamolo erano arrivati grazie a un elicottero dei vigili del fuoco solo molte ore dopo. A salvarli era stata una telefonata effettuata dal direttore del resort ai carabinieri di Farindola. Ma stavolta era diverso.
All’interno dell’Hotel si comunicava soltanto con WhatsApp, perché il sistema wi-fi funzionava, ma non la linea telefonica. Mancava anche la corrente: era saltata nella notte tra il 16 e il 17, come del resto in metà Abruzzo, ma non lo sapeva ancora nessuno. Ne era a conoscenza però Roberto Del Rosso, proprietario dell’hotel, che per stemperare la tensione aveva ordinato un pranzo al buffet per tutti gli ospiti, radunati nella hall dell’albergo perché spaventati dalle forti scosse di terremoto.
Mentre la paura si diffondeva, sui monti sovrastanti la struttura la neve si accumulava. L’intera massa nevosa aveva raggiunto lo spessore di due metri ed era in una situazione di instabilità: alle ore 8:00 il bollettino Meteomont annunciava un rischio valanga 3 su 5, riclassificato poi 4 su 5. L’evacuazione dell’hotel sarebbe dovuta avvenire già dal primo pomeriggio di lunedì 16 gennaio, quando il bollettino aveva confermato lo scenario di possibile attività valanghiva. Quest’ultimo, però, era caduto nel dimenticatoio dei cassetti della Prefettura di Pescara e del Centro funzionale della Regione Abruzzo.
Alcuni si erano messi a spalare per liberare le proprie auto, con la speranza di fuggire al più presto da quel luogo diventato inferno. Le macchine sembravano delle sagome, sepolte da quei fiocchi bianchi. Il tempo si era fermato e l’atmosfera si faceva sempre più pesante, nel giro di mezz’ora sarebbe sceso il buio e le speranze nell’arrivo dei soccorsi erano svanite. Poi, all’improvviso, un fortissimo vento, seguito da un rumore, un fracasso. Cessato il fragore, l’intera montagna piombò in un silenzio di cristallo. In quel momento tutti erano fantasmi, soli in una terra desolata.
Erano le 17:08 quando Giampiero Parete, cuoco pescarese che al momento della slavina stava andando in macchina, ha dato l’allarme. «È caduto, è caduto l’albergo», ha gridato al suo datore di lavoro Quintino Marcella. Oltre a Parete, ha cercato di dare l’allarme anche Fabio Salzetta, operaio manutentore dell’albergo che si trovava nel locale caldaia e si è salvato per miracolo. Ci sono state diverse chiamate, ma all’inizio si pensava a un falso allarme. «I vigili del fuoco hanno fatto la verifica e non c’è nessun crollo all’hotel Rigopiano», riferiva una funzionaria della Prefettura. I primi soccorsi sono arrivati dopo venti ore e lo scenario è apparso subito drammatico: la traccia bianca della valanga aveva raso al suolo il bosco che sovrastava l’albergo, la visibilità era ridottissima e la neve fresca lasciava scorgere soltanto il colmo del tetto dell’albergo. Le ricerche dei sopravvissuti sono continuate per giorni e trovare i sopravvissuti non è stato facile: la neve aveva attutito suoni e rumori.
Il Soccorso Alpino ha salvato per primi Giampiero Parete e Fabio Salzetta, che nel momento della slavina si trovavano fuori dall’hotel. Decisivo è stato l’aiuto di Salzetta ai soccorsi, poiché, conoscendo perfettamente la struttura, è riuscito a indicare la posizione precisa degli ospiti al momento del disastro. Dalle macerie i vigili del fuoco hanno poi estratto vive, tra la giornata di venerdì 20 gennaio e l’alba di sabato, nove persone. I primi a essere tratti in salvo sono stati la moglie di Parete, Adriana e il figlio Gianfilippo. La figlia Ludovica è stata salvata solo qualche ora dopo insieme ad altri due bambini, Edoardo Di Carlo (in vacanza con i genitori, vittime della slavina) e Samuel Di Michelangelo (figlio del poliziotto Domenico, morto con la moglie Marina). Un altro gruppo di superstiti è stato individuato dai cani nel pomeriggio della stessa giornata: tra questi, Giorgia Galassi (in vacanza con il fidanzato Vincenzo Forti) e Francesca Bronzi (a Rigopiano per festeggiare il compleanno del fidanzato Stefano Feniello, morto sotto le macerie). Il giorno dopo, i soccorritori sono riusciti a liberare Giampaolo Matrone, rimasto intrappolato per 62 ore insieme alla moglie Valentina Cicioni, che però non è riuscita a sopravvivere. Il 26 gennaio sono stati ritrovati gli ultimi corpi senza vita.
Tornare a Rigopiano
Un giorno di dicembre decido di raggiungere Rigopiano per vedere con i miei occhi ciò che la valanga aveva lasciato dietro di sé dopo sei anni. Vorrei capire qualcosa in più di quella tragedia osservata solo attraverso uno schermo del televisore. Da quel giorno c’è qualcosa di strano nella quiete delle mie giornate: l’assoluzione della maggior parte degli imputati nel febbraio 2023, ha risvegliato in me la voglia di scavare, per quanto posso, sulle ombre rimaste attorno a questa vicenda che, per la sua indefinitezza, era rimasta sepolta in un angolo della mia mente.
Inizio così il viaggio che da Pescara mi avrebbe portata a Rigopiano. Il percorso, in un saliscendi perpetuo, danneggiato da buche e dissestamenti, si rinnova con panorami naturali punteggiati da minuscoli paesini avvolti da un lussureggiante entroterra abruzzese. All’improvviso incontro tre piccole frane: un misto di fango e detriti da una parte e il baratro verso il bosco dall’altro. Poco più in là alcuni operai stanno rifacendo il manto stradale e mi suggeriscono di rallentare per i lavori in corso.
Prima di arrivare sul luogo della tragedia mi fermo alla “Tana del lupo”, una taverna dispersa nel verde in un lembo del Gran Sasso, isolata dal caos cittadino. Il titolare Domenico si sfoga con me: «dal giorno della tragedia siamo stati abbandonati. Le strade provinciali sono disastrate, vengono sempre meno clienti. Ormai apriamo solo durante le feste natalizie».
In quel momento entra una coppia con due bambini e chiede di sedersi ai tavoli fuori, all’ombra degli alberi. Così il proprietario va ad accoglierli porgendogli il menù del giorno. Subito dopo torna da me. «La Provinciale 8 è un’arteria fondamentale per l’intera comunità di Farindola, poiché la collega con altre tre province. Quando è stata chiusa il danno è stato enorme e da quel momento non arrivano più turisti. Molte attività storiche della zona sono state costrette a chiudere». Giorni prima, infatti, avevo già tentato di raggiungere Rigopiano, ma la strada era chiusa a causa di frane che l’avevano resa inagibile. Mentre vado via, Domenico si riempie un calice di vino rosso e fissa con uno sguardo desolato la porta della locanda che si chiude. L’Hotel Rigopiano, vero traino economico per tutta la contrada, non c’è più. Le poche attività rimaste resistono stoicamente tra mille difficoltà di natura logistica e strutturale.
Proseguo verso Rigopiano. La strada è tortuosa e ai lati ci sono pochi cumuli di neve che rendono l’atmosfera ancora più gelida. Nello scorrere lento dei chilometri, alzo la testa e mi guardo intorno: c’è un’aria surreale, un po’ fantasmatica, che avvolge il paesaggio che mi circonda. In fondo alla strada si staglia in controluce la montagna innevata, mentre a destra si intravedono distese di ulivi e campi di cereali. Appena arrivo, scendo dall’auto e vedo un panorama che mi lascia senza fiato: non c’è nessuno, non una macchina che passa, non una persona che passeggia lungo la strada principale. Sono immersa in un silenzio quasi irreale, rotto, ogni tanto, dal fruscio delle foglie o dal cinguettio di qualche uccello. La neve ha portato con sé, con il suo peso, molte vite. Davanti a quello scenario è come tornare indietro nel tempo, le parole dei soccorritori risuonano nella mia testa insieme alle immagini che avevano trasmesso in televisione in quei giorni. «C’è qualcuno» era l’urlo costante dei soccorritori che accompagnavano le torce nel buio e nel freddo delle macerie dell’albergo sepolto dalla valanga.
L’ingresso dell’hotel è sbarrato da una rete su cui chiunque può lasciare un ricordo e da un cartello che avvisa del sequestro giudiziario con divieto di accesso. Una poesia ricorda che il fiore più bello di Rigopiano «è stato tradito alle spalle, straziando gli steli di 29 fiori». A sinistra dell’ingresso, proprio sotto il totem con le quattro stelle del resort, ci sono il memoriale con le foto, i fiori, i pensieri e un alberello addobbato dai familiari con delle palline realizzate con i nomi delle vittime. Sulla destra c’è anche un presepe, opera di un falegname di Farindola. Spuntano, qua e là, gli unici segni di ciò che era l’hotel Rigopiano e una recinzione rossa che delimita la scena della tragedia. Pochi metri più su, si scorgono le tracce della furia della valanga, del canale che l’ha instradata e ingigantita metro dopo metro. Sul percorso ci sono ancora sassi enormi, tronchi e radici strappate. Sembra di stare in un paesaggio lunare. È qui che emerge la forza sovrumana della natura, dinanzi alla quale l’uomo non può che restare inerme.
Nel tragitto di ritorno verso casa ripenso a tutte le sensazioni che ho provato. È ormai buio e il sole tramonta, lasciando spazio a una bellissima e inaspettata luna piena. Le montagne bianche brillano di luce propria. Quanto accaduto a Rigopiano sembra aver tracciato una linea capace di indicare un prima e un dopo: sapevamo già che il clima stava cambiando, anche per effetto delle attività umane, ma è stata la tragedia di una valanga che ha trascinato con sé ventinove vite a far radicare una consapevolezza maggiore. “Questa tragedia si poteva evitare?”, mi chiedo. Ma subito mi rendo conto che non so rispondere a questa domanda. Forse anche senza tutti gli errori tecnici e burocratici che si sono accavallati nelle ore della tragedia, alla fine non sarebbe cambiato molto. O magari no. Forse qualcosa si sarebbe potuta fare, quanto meno per limitare i danni.
Com’è stato possibile costruire una struttura così in un posto del genere, a 1200 metri di altezza? D’altronde, negli anni passati c’erano state segnalazioni, denunce ed esposti. Una tipica storia italiana, mi verrebbe da aggiungere. L’albergo, a seguito della ristrutturazione che aveva permesso l’introduzione di un centro benessere, era stato oggetto di un’inchiesta per presunto reato di occupazione abusiva di suolo pubblico, ma gli indagati furono tutti assolti. La zona si trova in prossimità dello sbocco del canalone “la Ganzanella”, collegamento diretto dalla vetta della montagna sino a valle e scolmatore naturale delle cime sovrastanti. La storia dell’area del Rigopiano evidenzia quanto essa sia stata sempre soggetta a fenomeni valanghivi: già nel 1999 uno studio sottolineava che l’edificio stesso era stato costruito sui detriti di una precedente slavina. Al momento della ristrutturazione principale dell’hotel, quindi, c’erano tutti gli elementi per accorgersi del rischio che si sarebbe corso edificando tale struttura in quel luogo, ma ciononostante, nessuno si è opposto.
L’inchiesta giudiziaria e un futuro incerto
Dolore, disperazione, preoccupazione, rabbia. Sono mille le emozioni provate dai parenti dei morti nella tragedia. Ci si aggrappa ancora a una giustizia che vede nei tribunali l’unica sede di un possibile accertamento della verità. Storie di vita e di morte si intrecciano trasformandosi in rinascita o in tragedia. Storie che esaltano la supremazia della natura sulla debolezza dell’uomo.
Il lungo processo sulla tragedia di Rigopiano ha preso il via il 16 luglio 2019 e, dopo uno stop dovuto all’emergenza Covid-19, è continuato nel 2022. L’inchiesta principale si è concentrata su tre nodi: la mancata realizzazione della carta valanghe, le presunte inadempienze relative alla manutenzione e sgombero della strada che portava all’hotel e il tardivo allestimento del centro di coordinamento dei soccorsi. Si aggiunge, inoltre, la vicenda del depistaggio che coinvolge i prefettizi, i quali avrebbero omesso di riportare le segnalazioni di soccorso che erano pervenute in Prefettura. L’accusa ha chiesto 26 condanne per un totale complessivo di 151 anni e mezzo di reclusione e quattro assoluzioni.
Il 23 febbraio 2023, dopo sei anni dal disastro e tre anni e mezzo dall’inizio del processo, è arrivato il verdetto per la strage: il giudice della sentenza ha assolto 25 dei 30 imputati e ci sono state solo cinque condanne. Tanta la rabbia e la delusione tra i parenti delle vittime che attendevano al contrario le condanne dei responsabili.
Il 6 dicembre è partito alla Corte d’appello dell’Aquila il processo relativo alla tragedia richiesto dalla Procura di Pescara. Nell’atrio delle aule di udienza i familiari delle vittime hanno sistemato uno striscione che riporta, insieme alle foto delle vittime della tragedia, soltanto due parole: “Mai più”. A febbraio 2024 i giudici hanno riformato in parte la sentenza iniziale e i tre imputati che erano stati assolti, sono stati condannati in appello.
Testimonianze
Giampaolo Matrone, pasticcere di Monterotondo, è l’ultimo dei sopravvissuti alla slavina. Sua moglie, Valentina Cicioni, purtroppo ha perso la vita. Il 31 marzo Giampaolo, dopo più di due mesi in ospedale e cinque interventi, è tornato a casa e ha cercato di riprendere in mano la sua vita, ripartendo da sua figlia Gaia. «Ci hanno scortato verso la morte la sera prima. Hanno pulito la strada, aprendoci la via per non tornare più a casa». Giampaolo mi porta con sé nei suoi ricordi. «La voglia di tornare a casa era tanta ma era impossibile andare via da quel posto. Il rumore del vento mi ricordava quello della metropolitana ma cento volte più forte. Io e mia moglie eravamo nella hall dell’albergo e all’improvviso sono volato via; mia moglie Valentina era accanto a me, ma da quel momento non l’ho più vista. Poi una grande esplosione e un silenzio tombale».
Per sessanta ore ha impiegato tutte le sue forze per rimanere in vita, nonostante fosse schiacciato sotto nove metri cubi di macerie, neve, alberi e piastrelle. Mi spiega che «in quelle ore sotto le macerie il tempo è infinito e ti passa davanti tutta la tua vita. Il mio primo pensiero è andato a mia figlia e a mia moglie. Mi addormentavo, sognavo, mi risvegliavo e vedevo Valentina come un angelo, forse dentro di me sapevo che non ce l’avrebbe fatta». Mentre le ore passavano Giampaolo era sicuro che non sarebbe arrivato nessuno a salvarlo, ma con tutta la sua forza ha iniziato a crederci per rimanere sveglio. «Ero ormai stremato e bloccato in tutti i modi. Quando i soccorritori hanno individuato la zona in cui mi trovavo ho sentito delle voci chiamarmi, finalmente potevo parlare con qualcuno dopo quasi tre giorni. Ci sono volute più di dieci ore per liberarmi, mi sono appoggiato sullo stinco di un soccorritore ed è stato come tornare in vita». Quando Giampaolo è arrivato all’ospedale di Pescara, ha appreso che sua moglie Valentina non ce l’aveva fatta. «È come se dentro di me avessi saputo da subito che la slavina me l’aveva portata via – continua – mi sono fatto forza per mia figlia Gaia, sono stato più di cinque mesi in ospedale, facendo cinque interventi e tre anni di fisioterapia tutti i giorni». Oltre al dolore per la perdita dolorosa di sua moglie, Giampaolo cerca ancora giustizia. «Il processo è partito tardi ed è stato sempre rimandato. Nel penale di primo grado sono stati quasi tutti assolti. Vergognoso!»
Nei giorni seguenti contatto anche Francesco D’Angelo, il fratello gemello di Gabriele, cameriere dell’hotel morto sotto le macerie, che mi racconta la sua storia. «Quando è stato trovato, Gabriele non presentava traumi, ma solo un livido, le labbra e le mani viola. Non sono state le macerie dell’albergo a ucciderlo, bensì la massa di neve che l’ha portato allo svenimento fatale». Il ragazzo era anche volontario della Croce Rossa, tanto che gli uomini che hanno estratto il suo cadavere, si sono lasciati andare a un pianto liberatorio. “Era uno di noi”, si leggeva sull’account Facebook della sezione locale.
Il cameriere dell’hotel, secondo gli investigatori, ha richiesto più volte l’intervento dei soccorsi nel corso della mattinata e del primo pomeriggio. Telefonate che sono cadute nel vuoto. Quella alla Prefettura è stata anche cancellata in un secondo momento. Francesco mi esprime la sua rabbia nei confronti del processo di febbraio 2023, avviato per fare luce sulle responsabilità connesse alla tragedia di Rigopiano. Dopo ventidue mesi di inchiesta della Procura si è giunti a una assoluzione quasi totale degli imputati. Tanto dolore e tanta voglia di giustizia: «È una vergogna, hanno assolto quasi tutti. Sei anni buttati qua dentro!»
Gabriele, alle 11:38, circa cinque ore prima della valanga, ha chiamato il Centro coordinamento soccorsi della Prefettura per chiedere di liberare la strada e consentire agli ospiti dell’hotel di lasciare la struttura. «Noi aspettavamo che i responsabili venissero condannati, invece sono stati tutti assolti, il fatto non sussiste! Quattro minuti di chiamata! Chi ha chiamato mio fratello?»
Per l’ultima udienza avviata in Corte d’Appello all’Aquila il 6 dicembre, Francesco mostra il suo totale sconforto. «Io non sono andato a questa udienza, era presente solo il mio legale. Ormai per me è una perdita di tempo! Non andrò neanche alle successive». Secondo Francesco, l’Inail non riconosce quella di D’Angelo come una morte bianca. «Lo stabilisce una legge del ‘38, modificata trent’anni dopo. Se il tuo stipendio non serve al mantenimento della famiglia, non ti viene riconosciuto nulla. Detto in parole povere: non sei niente». A essere investiti da questa norma sarebbero anche altre famiglie di vittime della valanga. «Questa cosa fa male – aggiunge Francesco – se penso a mio fratello e a quanta energia dedicava al lavoro… ci teneva proprio».
La catastrofe ha un carattere totalizzante e incarna disordine: spaziale, morale e sociale. È una forma di alterazione e spaesamento, ma è anche uno sconvolgimento del tempo, il quale viene sbriciolato in una serie di scansioni e ritmi diversi che si sovrappongono e si scontrano. Con la valanga di Rigopiano il tempo si è frantumato e dalle sue crepe sono emerse svariate temporalità: il tempo dei soccorsi, il tempo del cordoglio, il tempo della prevenzione e quello della ricostruzione. La catastrofe, tuttavia, non cambia solo il tempo, bensì dura nel tempo: permette di osservare continuità e rotture, obbliga a speculare sul passato e a mantenere uno sguardo proteso verso un futuro ancora troppo incerto.