Alle pendici del monte Ararat. Pezzi di Kurdistan in Italia

Centro socio-culturale Ararat, giugno 2023

L’arco che separa le vie del Testaccio dalla piazza di Ararat sembra essere un passaggio simbolico tra Italia e Kurdistan. Qui sventolano le bandiere del PKK, il partito di liberazione curdo fondato da Abdullah Öcalan, i muri sono dipinti con i colori ed i volti della resistenza, nell’edificio sono appese le fotografie dei martiri caduti in lotta. Fiumi di çay si preparano nella cucina comune e vengono offerti ai presenti, mentre si chiacchiera seduti insieme nel cortile esterno, in curdo, turco o italiano, di questioni politiche e di uguaglianza. Non si è mai realmente stranieri quando si entra all’Ararat, perché i sorrisi e la gentilezza di chi vi abita sono pronti ad accoglierti, anche quando non capiscono la tua lingua. Il legame tra curdi ed italiani è raffigurato dalla targa toponomastica che dà il nome alla piazza che ospita il centro, dedicata a Dino Frisullo, attivista e militante politico da sempre attento ai problemi dei migranti e dei popoli oppressi, fondatore dell’associazione Senza Confine. Il palco che ospita gli eventi organizzati dal centro è sempre montato, lo striscione in cima chiede libertà per Öcalan, ormai in carcere da 24 anni.

Targa della piazza dedicata a Dino Frisullo

Roma ha avuto la grande fortuna di conoscere la storia curda ben prima del resto dell’opinione pubblica occidentale, ridestatasi solamente nel 2014, quando la minaccia dell’ISIS toccò anche le città europee. Qui, nel 1998, Öcalan, chiamato da tutti Apo, zio in lingua curda, arrivò con un messaggio di speranza, che l’Italia non era pronta ad accogliere. L’arresto del loro leader, tuttavia, non impedì ai curdi arrivati in Italia di restare, e quell’edificio abbandonato nei pressi dell’ex mattatoio divenne il loro nuovo punto di riferimento, una casa per tutti quelli che scappavano dalla loro terra in guerra.

Oggi non attraverso il solito arco, ma quello accanto, sulla destra. L’Ararat non è infatti l’unica realtà del largo, ma condivide in parte i suoi spazi con l’Accademia delle Belle Arti, la Città dell’altra Economia, il Villaggio Globale. Ed è lì che devo incontrare Sait. “Bene pubblico, spazio di tutti” cita la pagina instagram del posto: un luogo aperto, solidale e multiculturale, dove l’arte regna protagonista. Sait mi aspetta sorridente all’entrata, mi fa strada tra i corridoi pieni di murales fino al suo laboratorio: una falegnameria che condivide con altre artigiane; qui realizza giocattoli in legno a partire da materiali recuperati ed abbandonati. “Ho iniziato a costruirli per me stesso, poi per gli altri. È una terapia”, mi racconta, mostrandomi alcuni dei suoi pezzi esposti, ed un aeroplanino costruito ad incastro, a cui sta lavorando.

Alcuni giocattoli realizzati da Sait

Sait ha 40 anni e vive in Italia da più di vent’anni; l’arte di intagliare il legno l’ha imparata da suo padre nella sua terra natale, un villaggio ai piedi del monte Ararat, nel Kurdistan turco; con un coltello costruiva i giocattoli che non poteva avere, per sé stesso e gli altri bambini, sotto le bombe dell’esercito turco. Ha messo piede in Italia per la prima volta nel maggio del 2000, all’età di sedici anni, con l’obiettivo di spostarsi in Austria, che raggiunge dopo due settimane di permanenza a Como. La vita che era nel frattempo riuscito a costruirsi viene completamente distrutta all’inizio del 2002, quando, per la sola colpa di essere clandestino, le forze dell’ordine austriache lo portano in carcere. Dopo un mese di permanenza viene rispedito “come un pacco”, ironizza, in Italia, accompagnato da due agenti. Gli chiedo perché proprio in Italia e non altrove: secondo il trattato di Dublino, il primo Paese appartenente all’area di Schengen in cui si approda diventa il Paese competente della tua storia, posto in cui sei costretto a tornare. “Pensavo sarei ritornato in Austria, ma una volta riportato qui a Roma ho conosciuto persone, incontrato sorrisi che mi hanno fermato; la cosa che mi ha fermato di più è stato leggere la scritta La legge è uguale per tutti: non era per tutti gli italiani, ma per tutti e basta. Ed io ho pensato di far parte di quel tutti”. All’inizio ha lavorato nell’edilizia, poi come operatore sociale nei centri di accoglienza, infine come interprete presso le commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo. Nel frattempo inizia a mettere in piedi il suo laboratorio di giocattoli, aperto ufficialmente nel 2019. Si chiama “DAY” e viene dalle iniziali dei suoi tre figli.

Sait nel suo laboratorio

Davanti ad un bicchiere di birra mi faccio raccontare la storia del centro socio-culturale Ararat, che è strettamente intrecciata all’arrivo di Öcalan a Roma. Apo credeva che un Paese come l’Italia, membro dell’UE, della Nato e in cui risiede il Vaticano, avrebbe fatto la differenza del tentativo di stabilire un negoziato di pace con la Turchia. Arrivato all’aeroporto, Öcalan si presentò come leader del popolo curdo e del PKK, con in mano un passaporto che dichiarò falso, perché non lo rappresentava, richiedendo asilo. Fu arrestato a causa di un mandato di cattura emesso dal tribunale tedesco, liberato dopo quattro giorni da Regina Coeli per motivi di salute. L’allora governo D’Alema, sollecitato dagli altri Stati ad estradare il leader curdo, decise di non assumersi la responsabilità di concedergli l’asilo, a meno che lo stesso Öcalan non avesse rinunciato al sogno di un Kurdistan libero. Il leader del PKK decise dunque di ripartire; arrivato a Nairobi, in Kenya, fu catturato e riportato in Turchia.. la sua condanna? Essere il leader di un partito considerato terrorista da Stati Uniti, Turchia ed Unione Europea.

Fotografia di Abdullah Ocalan

Parliamo di politica, mi racconta della difficile situazione curda in Turchia, della mancanza di sicurezza e di libertà. Il regime dittatoriale di Erdogǎn, specchio della parte ignorante e nazionalista della popolazione, non accetta l’esistenza dei curdi; le stesse condizioni pretese dal presidente per l’entrata di Finlandia e Svezia nella NATO lo dimostrano. Lo strapotere che detiene gli permette di ottenere ciò che vuole anche con l’inganno e la forza, come abbiamo visto nelle ultime elezioni. La situazione sembra la medesima in Siria, nel territorio del Rojava, quel barlume di speranza che è riuscito a proteggere la popolazione dall’ISIS. “I ragazzi curdi sono diventati un esempio per tutto il mondo, ma il mondo è così ingrato nei loro confronti. Nonostante i sacrifici, ancora non vuole accettarli” riflette Sait. E la Turchia, che mira ad ampliare i suoi confini, potrebbe invadere il territorio curdo di fronte allo sguardo inerte delle democrazie, complici di aver intessuto accordi con la nazione mediorientale, a cui difficilmente rinuncerebbero. “Non c’è più il valore del singolo, esistono solo gli interessi nazionali”. 

L’identità di curdo con nazionalità turca è una veste difficile; “noi curdi che siamo cresciuti in Turchia abbiamo paura anche di noi stessi” – mi spiega Sait – “perché per anni ci hanno messo in testa che essere curdo è un qualcosa di inferiore. Cercavamo di nascondere questa parte. Ci ho messo più di dieci anni di libertà prima di arrivare ad esprimere questo sentimento, prima di dire io sono curdo senza paura”. Gli chiedo se ha mai pensato di tornare nella sua terra, mi rivela che in realtà lo ha già fatto in passato. Ma adesso tornarci sarebbe un grosso rischio: come renitente alla leva turca e dissidente del governo finirebbe in carcere.

Ritratto di un martire e mappa politica del Kurdistan

Dopo aver salutato Sait torno verso l’Ararat; qui trovo Erol, in compagnia di altri ragazzi. L’accoglienza è subito calorosa, immancabile la tazza di çay. A rendere ancor più suggestiva l’atmosfera, ci raggiunge un breve ma forte acquazzone estivo. I gatti che girovagano nel cortile si avvicinano, uno di loro si siede accanto a noi. Gli altri non parlano italiano, ma le conversazioni in curdo mi vengono subito tradotte da Erol; è raro trovarsi così a proprio agio con persone che si conosce appena, ma questo è l’effetto di pace che dona l’Ararat.

Poster appeso all’interno del centro

Scese le ultime gocce, decidiamo di andare a sederci in giardino; l’hanno chiamato “Azadî”, libertà in curdo. Erol mi spiega che tutti gli alberi presenti sono stati piantati, uno alla volta, ogni anno, in occasione del compleanno di Öcalan, il 4 aprile, per dare vita alla natura e ringraziarla. Un compleanno simbolico, deciso da tre compagni martiri, prendendo spunto dal periodo di fioritura sui monti Zagros, che inizia i primi di aprile.

I gatti di Ararat

Erol è arrivato ad Ararat da pochi anni, ma ne conosce bene la storia: il centro era stato inizialmente occupato dai compagni italiani, nel 1998, ed è stato donato l’anno successivo al popolo curdo. Da qui si è sempre identificato come centro di accoglienza: viene offerta ospitalità ai richiedenti asilo senza un posto dove dormire, li si aiuta negli affari burocratici, nelle difficoltà che è facile incontrare e che sono comuni a quelle degli altri migranti. “I governi giocano sulla nostra pelle, lamentano il problema dei migranti ma è un problema che creano loro: basterebbe chiudere le fabbriche d’armi. La gente scappa dalla guerra, ma non credo che nessun essere umano sia felice di allontanarsi dalla sua terra.” – mi spiega – “Hanno messo il nostro partito all’interno della lista dei terroristi per interessi economici, ma da una parte ne siamo orgogliosi, perché vuol dire che sono preoccupati dei nostri ideali antistato. Siamo contro gli stati perché il sistema capitalista degli stati-nazione sta creando solo problemi all’umanità, la sta trasformando in qualcosa di non umano, di meccanico”. 

Il giardino Azadi

Ma Ararat è anche un luogo che propone eventi culturali ed occasioni nuove per imparare: Erol mi cita le lezioni di danza, le serate cinematografiche, i corsi di lingua italiana e curda; anche, ovviamente, l’attività politica. Vengono festeggiate le maggiori tradizioni curde. La più importante è quella del 21 marzo, Newroz, conosciuta come il Capodanno curdo. Viene allestito un grande falò al centro della piazza e si balla attorno al fuoco disegnando dei cerchi. Le origini di questa celebrazione, festeggiata con le sue varianti da diverse comunità ed etnie in tutto il Medio Oriente, affondano nella religione zoroastriana persiana; per il popolo iraniano segna l’inizio del calendario persiano e della primavera. Per i curdi, è una festa di ribellione e liberazione: il mito narra di un re assiro, Zohak, che pretendeva di cibarsi quotidianamente del cervello dei suoi sudditi per diventare più forte, ed in particolare di quello dei bambini curdi, considerati più intelligenti. Un gruppo di curdi, guidati dal fabbro Kawa, un uomo che era stato costretto a sacrificare sedici dei suoi diciassette figli, si ribella ed uccide il re, incendiando il suo castello. Davanti all’enorme fuoco iniziano a ballare: la danza diventa così il simbolo della resistenza curda all’oppressione.

Ragazzi del centro giocano a pallone accanto al murales di Ocalan

Ci spostiamo all’interno dell’edificio. In cortile, vicino ai murales di Öcalan e Lorenzo Orsetti, gli altri ragazzi giocano a pallone; mi chiedono una foto, il sole ora splende e fa brillare i colori della bandiera curda. Erol mi mostra la stanza dei vestiti tradizionali, appesi tutt’intorno alle pareti. Entriamo nella sala dei martiri, dove si svolgono le assemblee, così denominata perché piena dei ritratti di coloro che sono caduti in nome della libertà.

La stanza dei vestiti tradizionali curdi
Una brocca di çay sul tavolo della cucina comune

Gli domando della sua storia personale. Arrivato a Roma nel 2016, nel 2018 decide di partire per il Rojava, con l’intento realizzare un documentario sull’idea di confederalismo democratico teorizzata da Apo ed adottata dal popolo curdo, ovvero il rifiuto di ogni legame con il capitalismo e lo stato-nazione a favore dell’autonomia, l’autogestione, la parità di genere, l’autodifesa e l’ecologia; un diverso modo di vivere, in cui la piramide del potere viene rovesciata, ed è la decisione collettiva delle comunità che abitano i luoghi ad avere importanza. Una risposta diversa all’oppressione causata dagli altri Stati e dalla guerra, che i curdi conoscono da tutta la vita, ed una soluzione di convivenza pacifica tra le varie comunità che coabitano la stessa terra.

Ritratti dei combattenti caduti durante la lotta

Nato nel Kurdistan turco 32 anni fa, nella provincia di Gimgim, Erol ebbe il suo risveglio politico ai tempi delle medie, durante l’arresto di Öcalan. Le sue idee ed il suo attivismo gli hanno causato non pochi problemi: prima cacciato da un liceo, ha dovuto terminare il ciclo di studi altrove; intrapresi gli studi politici in università, fu arrestato con l’accusa di aver realizzato degli sketch teatrali di propaganda a favore della questione curda. Venne liberato dopo quasi sette mesi di carcere, ma la causa non fu archiviata; dopo tre anni arrivò un’ulteriore condanna, di ben 7 anni e 3 mesi. Era il 2015, l’anno in cui Erol decise di scappare dalla Turchia per rifugiarsi in Europa, stabilendosi poi in Italia. Ricorda del suo primo periodo in Sardegna, dove aveva iniziato a studiare agraria, e delle innumerevoli cose in comune che la popolazione sarda sembra avere con il popolo curdo. La morte di Lorenzo Orsetti scombussola la sua quotidianità: inizia uno sciopero della fame, che durerà in tutto 71 giorni. Fu un periodo di scioperi della fame estremi, iniziato dai prigionieri politici nelle carceri per protestare contro le torture subite e contro la volontà di Erdogǎn di attaccare la città di Afrîn, nel Kurdistan siriano. Nel medesimo periodo decide di spostarsi nella capitale. Ora a Roma Erol studia cinema, ma il suo sogno è quello di tornare in Rojava, fare della macchina da presa la sua arma per raccontare la resistenza e dare un contributo concreto alla lotta curda.

Erol nella sala delle assemblee

Poco tempo dopo, decido di chiamare un contatto importante, che lo stesso Erol mi aveva fornito. L’aspetto della presa possesso dell’edificio che sarebbe poi diventato il centro Ararat mi interessava particolarmente, e volevo che qualcuno me lo raccontasse più nel dettaglio.

Alfonso Perrotta, 76 anni, è uno scrittore ed un attivista sociale, ed era presente all’epoca dei fatti in quanto coordinatore, oltre che uno dei fondatori, del Villaggio Globale. Lo raggiungo al telefono: in questo momento si trova in Calabria, sua terra d’origine, per trascorrere le vacanze estive, prima di tornare nella caotica Roma. È un uomo di elevato spessore culturale e di grande esperienza, e quasi mi sento in imbarazzo a porgli le mie domande, ma la sua genuina disponibilità e gentilezza sciolgono subito i toni della chiacchierata. Ora in pensione, è stato insegnante e dipendente presso il Comune di Roma. Ha iniziato ad interessarsi di immigrazione negli anni ’80 con la Lega dei Diritti dei Popoli; è stato uno dei promotori, insieme a Dino Frisullo ed Annamaria Rivera, della Rete Antirazzista. 

Mi faccio raccontare che aspetto avesse la piazza e cosa stava succedendo alla fine degli anni ’90. Mi parla di Dino Frisullo, del suo arresto in Turchia, della campagna per la sua liberazione, delle movimentazioni a seguito della cattura di Öcalan. Con una popolazione curda rimasta a Roma senza alcun riparo, vari centri sociali si stavano mobilitando per creare una casa del rifugiato. Erano stati occupati diversi edifici, molti dei quali sgomberati poi dalla polizia. Quelli di Villaggio Globale, che già si trovavano all’ex mattatoio, avevano notato un edificio che poteva essere adibito allo scopo. La palazzina ospitava inizialmente delle famiglie Rom, che erano nel frattempo riuscite ad ottenere un’assistenza alloggiativa. Poiché in quel momento la necessità era curda, l’edificio fu affidato ai curdi, che potevano gestirlo in maniera autonoma. Grazie al lavoro degli architetti di Stalker sono riusciti a portare avanti delle iniziative che hanno reso il centro attivo ed accogliente. I curdi potevano ottenere ospitalità e servizi di assistenza. La scelta, voluta dal Comune, fu poi quella di farlo diventare un centro culturale.

Già da tempo, in realtà, il Villaggio Globale aveva presentato un progetto al comune di Roma per far diventare piazza Campo Boario una piazza dei popoli, estendendo l’idea del villaggio a tutta la zona, trasformandola in un centro culturale d’accoglienza. Ad oggi, gli edifici del Campo Boario sono catalogati come occupazioni abusive regolamentate dalla delibera 26. Alfonso oggi non ha più un ruolo di responsabilità al Villaggio, ma continua ad occuparsi del suo archivio e delle sue iniziative. Una delle collaborazioni più recenti l’ha avuta con gli studenti della NABA per la catalogazione di manifesti e documentazioni.

La zona di Testaccio che ospita il centro socio-culturale sembra quasi uno spazio liminale, fuori città, in un tempo diverso. Siamo alle pendici del monte Ararat. Nei cortili in cui si respira quiete la lotta continua: è una lotta interiore, di chi ha dovuto dire addio alla propria casa senza potersi voltare e tornare indietro; è la lotta di un popolo, che resiste e rivendica la propria esistenza e la propria storia, urlandola a gran voce; ed è la lotta di un simbolo, di un leader che non sarà mai dimenticato, la cui libertà è un traguardo collettivo. Volti diversi, di sacrifici e speranze, uniti non da confini tracciati su una mappa geografica, ma da una memoria condivisa, un vissuto autentico. Non solo una casa, non solo un edificio amministrativo, ma la testimonianza di una minoranza vessata ma coraggiosa, che ha saputo guardare in faccia alla guerra, e non ha alcuna intenzione di lasciarsi perdere. Per noi occidentali, un promemoria: non voltarsi dall’altro lato, non ignorare le grida d’aiuto, né degli oppressi di oggi, né di quelli di domani.

Una foto di Alfonso Perrotta