13 ottobre 1972: un Fairchild FH-227D della Forza aerea uruguaiana, partito da Montevideo e diretto a Santiago del Cile si schianta sulle Ande e dell’aereo con a bordo i suoi 45 passeggeri si perdono le tracce. Inizia così la storia del volo 571, tra il gelo della neve e l’eco delle urla che si perdono sotto lo sterminato cielo azzurro della montagna che per 72 giorni intrappola i malcapitati. Oggi, a 51 anni dallo schianto e in occasione dell’uscita del pluripremiato film “La società della neve” prodotto da Netflix e diretto da Juan Antonio Bayona si è tornato a parlare del disastro delle Ande, una delle storie di sopravvivenza più crude del ventesimo secolo.
Il viaggio
Nel 1972 la squadra di rugby Old Christian Club, appartenente all’Università Stella Maris di Montevideo, organizza una partita con una squadra di Santiago del Cile nell’omonima città. L’entusiasmo è palpabile, i ragazzi sono giovani e questo viaggio rappresenta un’opportunità per visitare un paese straniero, conoscere ragazze e divertirsi tutti insieme. Partono con loro tecnici, amici e parenti e soltanto un passeggero, una donna, è estranea al gruppo, deve recarsi al matrimonio di sua figlia. L’aereo parte il mattino del 12 ottobre dall’aeroporto di Carrasco in Montevideo e il piano di volo prevede un viaggio diretto a Santiago del Cile ma, raggiunte le Ande, il comandante, il colonnello Julio César Ferradas e il suo copilota, a cui è affidato il pilotaggio, il tenente colonnello Dante Héctor Lagurara, decidono di fare scalo a Mendoza, in Argentina, a causa del mal tempo che provoca una fitta nebbia. Passeggeri ed equipaggio passano quindi la notte in hotel.
Lo schianto
Il giorno dopo le condizioni meteo non migliorano, perciò il comandante opta per un percorso alternativo: l’aereo avrebbe attraversato le Ande poco più a sud del passo di Planchòn per poi arrivare a Curicò, in Cile, per poi volare verso nord fino a Santiago. Passeggeri ed equipaggio tornano a bordo e partono diretti a destinazione. Tutto sembra andare bene durante la prima ora di volo, ma una fitta coltre di nuvole copre la catena montuosa delle Ande tanto da impedire la visuale al pilota, che commette un errore fatale: calcola male la velocità dell’aereo. Il velivolo difatti impiega più tempo del previsto ad attraversare la cordigliera a causa dei forti venti che ne rallentano il movimento. Certo di aver superato la catena montuosa e di essere vicino Santiago, inizia a scendere di quota ma gli basta un attimo per accorgersi di essersi sbagliato: l’aereo si trova ancora tra le montagne. Laguara tenta l’impossibile: cerca di riprendere quota ma non serve, l’aereo cade verso il basso, sempre più giù. Il pilota si muove fra le vette tentando di evitarle finché l’ala destra non colpisce una parete rocciosa staccandosi e portando via con sé la parte posteriore risucchiando alcuni passeggeri che sbalzano fuori dall’aereo. Allo stesso modo l’ala sinistra sbatte contro la roccia e anch’essa si stacca dalla fusoliera che, totalmente fuori controllo, scivola per due km lungo neve.
La notte d’inferno
A distanza di 51 anni dal giorno dello schianto, nessuno dei sopravvissuti ha mai dimenticato cosa è successo a bordo del Fairchild, dalle prime turbolenze alle cadute nel vuoto per centinaia e centinaia di metri che hanno tramutato la paura in panico. Un testimone, Carlos Miguel Páez, che all’epoca dei fatti aveva 18 anni, in una delle tante interviste rilasciate, ricorda il rumore dell’ala dell’aereo infrangersi contro la montagna e racconta di aver iniziato a pregare davanti a quello scenario apocalittico di corpi che come schegge volavano via nel vento assieme ai pezzi dell’aereo. Sbattuti tra la neve e le lamiere, accatastati l’uno sopra l’altro, tra grida di dolore e silenzi esangui, i passeggeri del volo 571 prendono lentamente coscienza di ciò che è accaduto loro e cercano di aiutarsi l’un altro. Tutti parlano di una persona, Marcelo Pérez, capitano della squadra di football, che da subito prende il comando anche in questa terribile situazione. Marcelo suggerisce di utilizzare le valige scaraventate a terra per costruire un muro nella parte posteriore della fusoliera, di modo che non passi il freddo.
I ragazzi, chi di loro può muoversi, corrono in soccorso dei feriti più gravi e li sistemano dentro quello che rimane della fusoliera dell’aereo, che per tutto il tempo diventerà il loro unico rifugio in quell’ambiente ostile. Ci sono Roberto Canessa e Gustavo Zerbino, due studenti di medicina al secondo e al primo anno, gli unici “dottori” presenti sul posto, che ce la mettono tutta per aiutare nonostante le loro limitate conoscenze accademiche e pratiche. Páez la definisce “notte d’inferno” quella prima notte passata sulla montagna, a 4200 metri di altitudine, a -30 gradi senza dei vestiti adatti, senza medicine e alcun tipo di attrezzatura. Parte della fusoliera è coperta dal muro di valige ma questo non impedisce al freddo di entrare. I ragazzi dormono l’uno attaccato all’altro per tentare di scaldarsi e non morire dal freddo. È una notte lunga, gelida, insonne; alla fine il sole sorge ma qualcuno non l’ha superata. Nell’impatto sono morte 12 persone, altre 5 nel corso della nottata e durante il giorno successivo.
La modalità sopravvivenza
“Ci stanno cercando” è ciò che continuano a ripetersi, perché è quello che dicono ogni giorno le notizie che ascoltano da una piccola radio, l’unico strumento che in mezzo a quella desolazione li connette al mondo civilizzato. Infatti, perduto ogni contatto con il Fairchild, la notizia si diffonde a macchia d’olio e il SAR (servizio di soccorso aereo cileno) inizia immediatamente le ricerche. I soccorritori individuano un’ampia zona delle Ande dove effettivamente si trova l’aereo ma questo sembra essere svanito nel nulla poiché la fusoliera bianca mimetizzandosi con la neve ne rende difficile l’avvistamento. Le speranze di ritrovare i dispersi si fanno sempre più deboli, dopo dieci giorni le ricerche vengono interrotte e ascoltare quella notizia è come schiantarsi una seconda volta. Il mondo li aveva dimenticati.
“La sofferenza va in secondo piano e si passa alla modalità sopravvivenza dove non si piange e non si sente dolore” racconterà molti anni dopo Nando Parrado, un altro sopravvissuto. Nando subisce una lesione che lo fa rimanere in coma per due giorni, salvo poi svegliarsi e riprendere lentamente coscienza. Era partito con sua madre Eugenia e sua sorella Susana. La prima è morta nell’impatto mentre la seconda morirà qualche giorno dopo, agonizzante, tra le sue braccia. I sopravvissuti sotterrano i corpi dei loro compagni sotto cumuli di neve bianca. Non piangono, non si disperano, il cielo sopra di loro è troppo vasto per sentire il suono dei loro lamenti. Nessuno li avrebbe salvati, erano soli nel posto più desolato al mondo. È così che inizia la modalità sopravvivenza di cui ci parla Nando: quel gruppo di ragazzi che non sapeva nulla della vita all’improvviso diventa una macchina dagli ingranaggi perfetti, in cui ognuno svolge una mansione: c’è chi si occupa dei feriti, chi di costruire oggetti utili al loro sostentamento, chi di partire per delle spedizioni, chi di razionare il cibo.
La fame
Svolgere quest’ultima mansione non è affatto facile. Sull’aereo non ci sono grandi scorte di cibo a parte qualcosa nelle valige dei passeggeri e degli snack comprati in aeroporto. Una volta compreso che mangiare la neve non disseta bensì gela la bocca uno dei ragazzi, Fito Strauch, utilizza un pezzo di lamiera ricavato dai sedili per catturare il calore del sole e far sciogliere la neve così da ricavarne dell’acqua da far convogliare in alcune bottiglie. Razionare il cibo è difficile, le porzioni sono limitate e consistono in una quantità minima di vino e poca marmellata a pranzo e un pezzetto di cioccolata a cena. Ma le scorte terminano in poco tempo e ben presto i dispersi rimangono senza nulla da poter mangiare. I giorni passano, le notti si fanno più fredde e i corpi più deboli alle prese con un dolore primordiale, che chiunque di noi farebbe fatica ad immaginare: la fame, quella di chi non mangia da giorni e che non riceve le energie necessarie per far funzionare il proprio organismo come dovrebbe, una fame che non guarda in faccia, che ti mangia da dentro, consumandoti lentamente.
Una sola idea serpeggia nelle menti di tutti, talmente infima che nessuno ha intenzione di parlarne, ma così necessaria che, nell’undicesimo giorno viene affrontata e per molto tempo i ragazzi discutono tra loro di religione, morale ed etica. Scegliere di mangiare i cadaveri dei compagni morti non è una decisione facile, ma un qualcosa dettato dalla disperazione e solamente dopo ore passate a discuterne il gruppo prende la sua decisione, nonostante qualche voto contrario. Alcuni di loro stringono un patto solenne: nel caso della propria morte ognuno avrebbe messo a disposizione il proprio corpo per far sopravvivere gli altri. Fito Strauch insieme a Roberto Canessa e ad altri compagni escono dalla fusoliera impugnando un pezzo di vetro e incominciano a tagliare i vestiti di uno dei cadaveri, senza aver il coraggio di guardarlo in viso. Ciò che stanno per fare è indispensabile alla loro sopravvivenza e ben presto diventerà per tutti quanti normale amministrazione.
La valanga
Tra le alte montagne innevate, Dio non solo sembra averli abbandonati ma, come dirà Carlos Páez, la notte del 29 ottobre li pugnala alle spalle. Un rumore assordante, come una mandria di cavalli, si fa sempre più vicino e in un attimo una valanga ricopre l’intera fusoliera uccidendo otto persone. Per quattro giorni i sopravvissuti sono rimasti sotterrati all’interno della struttura riuscendo soltanto ad aprire un varco per far passare aria mentre fuori si scatena una lunga tormenta. I ragazzi impiegano otto giorni per spalare via la neve dalla fusoliera e rimuovere i cadaveri. Fra questi c’è quello di Marcelo Pérez, il loro leader, e anche quello di Liliana Methol, l’unica donna rimasta del gruppo.
Spinti da questa ulteriore difficoltà e senza lasciarsi intimorire, organizzano alcune spedizioni alle quali partecipano Nando Parrado, Roberto Canessa, Numa Turcatti e Antonio Vizintin. I giorni passano e la situazione sembra degenerare: l’atmosfera si fa sempre più tesa e le discussioni fra i ragazzi sono all’ordine del giorno ma questo non impedisce loro di rimanere uniti anche nei momenti di peggior sconforto, perché sanno bene che è la loro unione a non farli crollare. Parrado è deciso a partire assieme a Vizintin e ad un dubbioso Canessa. Tutti quanti si adoperano per preparare loro scorte di cibo e attrezzature adatte con il poco che hanno. Tuttavia Canessa è sempre più titubante e tenta di rimandare il viaggio finché accade qualcosa che lo fa ritornare sui propri passi.
“Non c’è amore più grande di dare la propria vita per i propri amici”
Sono queste le ultime parole di Numa Turcatti, scritte su un bigliettino trovatogli in mano quando è morto, l’11 dicembre. Numa è l’ultima vittima del disastro delle Ande, muore con varie piaghe da decubito piene di pus e a causa di un’infezione chiamata sepsi. Nel film di Bayona è stato scelto proprio lui come narratore degli eventi, per ricordare tutte le vittime dell’incidente. Il suo interprete, Enzo Vogrincic, ritrae quello che viene descritto come un ragazzo timido, umile e con un gran cuore; ce lo dimostra sulla montagna dove non ha mai smesso di darsi agli altri, persino alla fine, offrendo agli amici il proprio corpo come ultimo atto d’amore. È la morte di Numa che spinge Canessa a partire il 12 dicembre assieme a Parrado e a Vizintin. Prima di lasciare gli amici Nando da loro il permesso di nutrirsi dei corpi di sua madre e di sua sorella lasciando ciò che di più prezioso ha pur di salvarli. L’ennesima dimostrazione di umanità che questa storia ci insegna.
La spedizione
Basandosi sulle indicazioni dategli dal pilota il viaggio prevede scalare la montagna ad ovest e dirigersi verso il Cile. I ragazzi impiegano tre giorni per arrivare alla cima della montagna, a 4600 metri di altitudine, però una volta raggiunta non trovano le verdi distese cilene, ma tante altre vette innevate. Il pilota aveva sbagliato. Parrado e Canessa decidono di continuare il viaggio mentre Vizintin torna indietro e aggiorna i compagni sulla situazione riportando le parole degli amici: sarebbero andati avanti finché non sarebbero morti. Camminano per altri 7 giorni, raggiungono una valle fra le montagne e ne costeggiano il fiume chiamato Rio Azufre e qui, esausti con gli abiti laceri e le scarpe logore, dopo 10 giorni di cammino, vedono i primi segni di vita attorno a loro. Ci sono delle mucche al pascolo e questo può significare solo una cosa: la presenza dell’uomo su quella terra. La salvezza per Nando e Roberto arriva a cavallo e porta il nome di Sergio Catalàn, un mandriano che non appena vede i due ragazzi chiamarlo dall’altro lato del fiume accorre in loro aiuto lanciandogli un biglietto legato ad un sasso per poter comunicare.
Nando scrive con un rossetto il seguente messaggio: «Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell’aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?». L’uomo li soccorre, lancia loro del pane e li affida alle cure di un altro mandriano che li porta a Los Maitenes dove vengono ospitati e nutriti. Nel frattempo Catalàn corre ad avvertire le autorità. La notizia del ritrovamento dei due passeggeri del volo 517 fa il giro del mondo e le parole dell’ambasciatore cileno raggiungono la piccola radio nella fusoliera “Fernando Parrado e Roberto Canessa sono stati trovati vivi in Cile”.
Il salvataggio
È finita. Quell’inferno bianco sta per sciogliersi sotto i loro piedi e le emozioni d’incredulità, agitazione e contentezza scaldano di nuovo i corpi dei ragazzi, che ci tengono a rendersi presentabili dopo tutto quel tempo passato senza guardarsi allo specchio. C’è chi si pettina, chi tenta di radersi la barba e di lavarsi i denti mentre Vizintin prepara una valigia contenente un oggetto appartenente a ciascuna vittima da poter riportare alle famiglie. D’improvviso, ecco quel suono che da tanto speravano di sentire: il suono liberatorio degli elicotteri che li stanno venendo a salvare e con loro Nando, alla guida della spedizione. È il 22 dicembre 1972 quando lasciano la montagna. Sono passati 72 giorni dall’incidente e finalmente i sopravvissuti atterrano a San Fernando dove vengono accolti da una folla adorante di persone e decine di giornalisti che immortalano quei momenti d’inesprimibile gioia. I ragazzi vengono ricoverati in ospedale per insufficienza respiratoria da alta montagna, malnutrizione, disidratazione e traumi.
Numerosi studiosi si confrontano sul caso delle Ande, affermando che le condizioni in cui hanno vissuto per tutto quel tempo sarebbero state deleterie per chiunque ed il solo fatto che qualcuno sia uscito vivo da una situazione del genere rappresenta un caso eccezionale. Nelle settimane a venire giornali e televisioni non fanno altro che parlare di loro e, soprattutto del modo in cui sono sopravvissuti. Il cannibalismo provoca un certo scandalo all’interno della società che viene comunque giustificato viste le condizioni estreme in cui i ragazzi si trovavano. Delle 45 persone partite 16 di loro hanno fatto ritorno: la tragedia diventa così miracolo e i sopravvissuti eroi con le loro ferite, i loro corpi scarni, gli sguardi vacui, gli occhi di chi ha visto cos’è l’inferno. Ma il miracolo delle Ande non racconta una storia fatta di eroi, i suoi protagonisti sono persone ordinarie, dei ragazzi che non sapevano nulla del mondo prima di salire su quell’aereo e che d’improvviso hanno dovuto imparare a lottare per poter sopravvivere e lo hanno fatto insieme, senza egoismo, senza meschinità o codardia. Tra le montagne gli amici sono diventati fratelli, dando ognuno la propria carne pur di far sopravvivere l’altro in nome del più sacro dei diritti: il diritto di vivere.