“L’ape è indicatore infallibile della salute del nostro ecosistema. Laddove ci sono le api, prospera la vita”
Marco Valsesia
Il 2023 sarà ricordato, tra le altre cose, come l’anno più caldo mai registrato nella storia del pianeta. I colori freddi delle temperature nel grafico di Copernicus, il Programma di osservazione della Terra dell’Unione Europea, lasciano spazio, nel corso degli anni, a dei rossi e arancioni accesi, a riprova di un riscaldamento globale che ha investito tutto il pianeta, ma i cui effetti, inevitabili, si abbattono in misura particolare su determinate aree del globo, definite hot-spot, tra le quali il Mediterraneo e, di conseguenza, il territorio italiano. Alle eccezionali ondate di calore e a periodi siccitosi si affiancano intensi eventi alluvionali in periodi stagionali anomali, ripercuotendosi sugli ecosistemi naturali e, di conseguenza, sui minuscoli insetti impollinatori che ne permettono il funzionamento, le api. Per questi piccoli esseri, nutro da sempre sentimenti contrastanti, che vanno dalla curiosa attrazione all’istintivo timore, senza vie di mezzo, ma, nell’ultimo periodo, ho provato ad ascoltarne il ronzio, il caos organizzato, e a pormi non poche domande, per comprenderne il funzionamento. Nello specifico, mi sono chiesta quanto il cambiamento climatico stesse incidendo sui meccanismi naturali delle api nei territori italiani e, soprattutto, in una regione che io stessa avrei descritto, anni fa, come “inesistente”, ma che da tre anni a questa parte considero come una seconda casa, il Molise.
Proprio per le sue dimensioni ridotte e per la poca rilevanza che spesso gli viene riconosciuta, il Molise può fornire un ottimo quadro di quanto gli effetti del cambiamento climatico si ripercuotano su porzioni di mondo che, in linea di massima, non ne sono i diretti responsabili. Infatti, paesini con meno di 500 persone, come Duronia, in provincia di Campobasso, arroccata su una formazione rocciosa e immersa nella natura, possono essere considerati complici di tali effetti, devastanti e sempre più frequenti, sulla Terra? E questi stessi effetti, si avvertono anche in luoghi così “incontaminati”? Ad un occhio esterno, come il mio, la natura del paese, vigilata dal Gigante di Duronia, roccia con le sembianze di un profilo umano che svetta su un’altura rocciosa, sembrerebbe non essere stata toccata dalle conseguenze del riscaldamento globale, ma uno sguardo interno mi fa comprendere il contrario.
Cinque anni fa, due giovani del territorio, Alessio Manzo e Davide De Vincenzo, fondano, un po’ per caso e un po’ per gioco, un’azienda apistica, DurHoney. Il progetto nasce in seguito a una coincidenza di eventi: a Davide non viene rinnovato il contratto lavorativo; mentre Alessio, oggi al secondo anno di Dottorato in Scienza del suolo e laureato in Triennale e Magistrale in Agraria all’Università del Molise, sceglie, tra i diversi corsi universitari, quello sullo studio della famiglia degli apoidei, tenuto dal professore Antonio De Cristofaro che, Alessio tiene bene a precisare, “farebbe innamorare della materia chiunque”. E infatti è ciò che è successo. Alessio mi racconta, scherzosamente, che hanno iniziato così, “io fresco di corso, lui fresco di licenziamento, abbiamo detto: ma perché non prendiamo un paio di alveari e vediamo com’è quest’ambiente e che cosa si può fare?”. Oggi, dai due alveari del primo anno, l’azienda, tra le colonie in produzione, quelle per la pappa reale e quelle per la produzione delle regine, ne conta 180, che producono, ufficialmente, 3 o 4 tipi di miele, tra i quali sulla, castagno e diversi millefiori.
Il clima molisano, infatti, presenta ottime condizioni per lo sviluppo di un’elevata diversità floristica e, di conseguenza, per la diversificazione nella produzione di miele, ma le api e i due apicoltori devono fare i conti con i mutamenti del clima e con la progressiva perdita di quelli che Alessio definisce “i normali andamenti stagionali, legati a precipitazioni e temperature”. Attraverso le pagine chiare, dettagliate e ricche di ricordi del libro di Marco Valsesia, La vita segreta delle api, vengo lentamente a conoscenza del funzionamento dell’alveare, questo “superorganismo perfetto e complesso che solo la natura e l’evoluzione naturale potevano concepire”. Una vita, quella delle api, sempre in attività, scandita dall’alternarsi delle stagioni, che però, negli ultimi tempi, “impazziscono” sempre più spesso, tra periodi di caldo soffocante e di fasi fredde improvvise, portando al danneggiamento degli ecosistemi, alla perdita delle fonti nettarifere e, di conseguenza, a squilibri nel comportamento degli insetti impollinatori e nel loro normale ciclo lavorativo e di vita. Mi sorprende scoprire che dai primi giorni della loro nascita e a seconda dell’alimentazione con polline, miele o pappa reale, alle api venga “associato un destino prestabilito” che le porterà a crescere come operaie, fuchi o possibili regine, “la madre di tutte le api” e, tuttavia, anch’essa soggetta al suo ruolo per il funzionamento del superorganismo.
Quando ho conosciuto Alessio mi è sembrato un giovane silenzioso, di poche parole, l’opposto del socio Davide, più spigliato ed estroverso. Mi sono ricreduta appena mi ha parlato del suo lavoro, una passione nata dai suoi studi e che traspare dal modo che ha di raccontare, in modo semplice, il mondo delle api, che ormai è un po’ anche il suo. Durante la lunga, ma mai pesante, conversazione con Alessio, mi parla, quasi come un padre, delle malattie che possono colpire le api, del ruolo della sciamatura nella nascita di una nuova colonia, del volo nuziale della regina per la riproduzione, e della fase che lo affascina maggiormente, la produzione delle regine stesse. A questo proposito, mi racconta di colonie, con regine particolarmente intuitive ed evolute, che riescono a prevedere l’andamento stagionale, poiché “sentono che l’ambiente non è in grado di dargli quello di cui hanno bisogno per accrescersi” e, di conseguenza, riducono il proprio sviluppo preventivamente, adattandosi perfettamente ai mutamenti del clima. Infatti, sono le api stesse a dire agli apicoltori quando è possibile produrre miele, in base a come percepiscono l’ambiente, proprio perché da esso dipende la disponibilità di fonti nettarifere e, quindi, di cibo.
Tra le altre cose, Alessio mi spiega poi i diversi tipi di ape e quella che utilizzano loro, l’apis mellifera ligustica, autoctona dell’Italia che, verso la fine dell’inverno, tendenzialmente, diminuisce la covata, quindi il numero di popolazione, per poi riesplodere esponenzialmente nel periodo dei primi caldi primaverili. O almeno questo è ciò che dovrebbe accadere con l’adeguato alternarsi delle stagioni. Ultimamente, invece, l’anno apistico e le produzioni sono, per i piccoli produttori di DurHoney, impossibili da organizzare, vista l’imprevedibilità stagionale che di anno in anno richiede interventi specifici. Nella primavera del 2023, ad esempio, Alessio mi descrive una situazione in cui, per tutto il mese di aprile, delle piogge torrenziali si sono abbattute sul territorio di Duronia, protraendosi fino a maggio, provocando non poche problematiche per il mantenimento delle colonie e comportando un calo nella produzione di miele dell’80% in tutti i territori molisani, rispetto alla stagione precedente, secondo l’Osservatorio miele e come riportato dall’analisi della Coldiretti.
Le colonie, infatti, come mi spiega Alessio, uscite dall’inverno, quindi, dalla stagione più complicata, e consumando le scorte di miele, in primavera, di norma, avrebbero dovuto accrescere il proprio numero per la stagione più ricca di fiori, ma, iniziate le piogge, impossibilitate a volare, le scorte insufficienti le hanno portate a stressarsi e a ridurre lo sviluppo, mentre, per Alessio e Davide, l’unico modo per salvarle è stato nutrirle artificialmente. Poi, però, il giovane apicoltore, mi racconta di una situazione opposta, quando, due anni prima, dopo una stagione invernale poco piovosa, arrivate in primavera, le api sono riuscite a svilupparsi e a raccogliere nettare e polline molto presto, per poi essere investite da un caldo afoso, tanto che i suoli e, di conseguenza, i fiori si sono seccati, e nel periodo di luglio-agosto le api erano ormai alla fame. Insomma, da un lato, una siccità, dovuta all’aumento delle temperature, un’anomalia soprattutto in zone tendenzialmente fresche come Duronia, che ha danneggiato la vegetazione con conseguenze sull’ecosistema e sui meccanismi di impollinazione compiuti dalle api e, dall’altro, delle precipitazioni troppo abbondanti che hanno influito negativamente sul loro ciclo vitale. Due situazioni che, seppur diverse, “creano disagio”, come precisa Alessio e non solo a loro come apicoltori.
Valsesia, infatti, sottolinea che l’ecosistema e ben il 70% del fabbisogno alimentare umano dipendono dalla presenza delle fioriture e in particolare dal lavoro di impollinazione delle api e degli altri impollinatori. Una percentuale piuttosto alta che preoccupa se si tengono in considerazione situazioni come quelle descritte da Alessio. Una strategia, però, che gli apicoltori possono mettere in pratica per favorire la produzione, ma anche le api nell’opera di impollinazione, è il nomadismo, che consiste nello spostare gli alveari a seconda delle fioriture. A questo proposito, Alessio, mi racconta che hanno alcuni apiari fissi e altri nomadi, alla continua ricerca dell’ambiente più favorevole per le loro api, tra la montagna e la vallata.
“Facciamo nomadismo su piccola scala: non ci spostiamo dal raggio di 50km” mi dice e, poi, prosegue spiegandomi che tutto ciò segue dei passaggi di analisi del territorio, per verificare che vi siano fiumi e disponibilità di acqua, ma anche che non siano luoghi troppo soleggiati. In questo modo, l’azienda DurHoney conta otto apiari, quindi otto luoghi in cui hanno scelto di posizionare le api, e Alessio tiene a precisare che non superano mai le 40 colonie per posto, perché, molto semplicemente “le api si muovono sui pascoli, come fossero delle pecore, non puoi avere 1000 pecore in un rettangolo di terra, perché ci durano tre minuti e si son finite tutto. Per lo stesso motivo, non puoi avere 150 colonie in un unico posto perché i fiori son quelli”. Lo ringrazio, perché non avrei potuto chiedere spiegazione migliore. La produzione di miele, quindi, dipende fortemente dall’annata e dal territorio, i cui equilibri però, come ricorda in un intervento pubblico il Presidente dell’Ordine dei Geologi del Molise, Domenico Di Lisa, sono stati alterati dagli effetti dei mutamenti climatici, che andrebbero mitigati partendo dalla consapevolezza delle fragilità idrogeologiche, sismiche e geologiche del territorio italiano. A tal proposito, questi “piccoli satelliti” che sono le api, prendendo in prestito le parole di Valsesia, costituiscono “degli ottimi indicatori in tempo reale del mutamento delle stagioni, del variare delle temperature esterne e della presenza o meno di fonti nettarifere nelle zone limitrofe”.
L’azienda di Alessio e Davide, come precisa il primo dei due, è consapevole che “il legame api-ambiente è imprescindibile ed è il punto di forza di questa attività, coniabile solo con un ambiente sano, con un ambiente che ne permetta lo sviluppo”. Alessio, infatti, fortemente impegnato in tal senso, monitora, insieme alla rete di 3BEE, attraverso un sensore posto sotto l’alveare, la temperatura, l’umidità e l’attività delle api sotto forma di frequenze e vibrazioni. Inoltre, non contento, collabora con un gruppo di apicoltori, Apiario di Comunità della Valle del Trigno, con i quali mi ha raccontato di aver organizzato, l’estate scorsa, un evento “per portare all’attenzione un po’ il tema, per parlarne, per portare maggiore consapevolezza e far capire di più cosa c’è dietro un barattolo di miele, dietro a un settore” e come, attraverso queste attività, si possa favorire una gestione più sana del territorio, riconoscendo agli apicoltori il ruolo di “paladini della giustizia”. Sicuramente, i due soci di DurHoney lo sono, ma quanto possono influire, se i maggiori responsabili degli effetti del cambiamento climatico non si assumono le proprie colpe? Impegnarsi nel proprio piccolo, può ancora aiutare a mantenere gli equilibri di un ecosistema “impazzito”?