Olio di palma in Guatemala. Storie di lotte e resistenza

Stori3 N° 0 – Reportage dal trimestrale Indipendenza

Provando a cercare su Google Earth la regione del Petén, a nord est del Guatemala, ingrandendo a poco a poco nelle aree in prossimità di industrie di olio di palma, ci si accorge di un cambiamento radicale di forma e di colore rispetto al verde della vegetazione che caratterizza il paese. Il nome stesso Guatemala è incorretto. Le popolazioni maya insediate nella zona la chiamavano, infatti, ‹‹Cuauhtemalan››, che vuol dire ‹‹terra dei tanti alberi››, nome che fu poi cambiato dagli invasori spagnoli in quello che conosciamo noi oggi. Gli alberi, sacri nella cultura maya, hanno sempre fatto parte dell’identità indigena; non a caso, la regione del Petén è caratterizzata da una vegetazione che copre quasi l’intera regione (la Riserva della biosfera maya, la più grande area verde del Paese, occupa il 30% della superficie del Petén). 

Gli abitanti di Nuevo Horizonte, il villaggio in cui vivo, mi parlano delle minacce che ogni giorno le comunità indigene del Petén devono affrontare: tra questi, l’espansione costante delle industrie da olio di palma. Sono anni che queste piantagioni avanzano nella selva deforestando e togliendo spazio, ettaro dopo ettaro, alle comunità locali che vivono di agricoltura. Dall’alto del navigatore satellitare, si può osservare la differenza tra il verde più chiaro della Riserva maya e quello scuro delle palme africane, che si estendono con le loro forme squadrate precise ma sempre più grandi. È un verde anomalo, di una pianta che arriva addirittura da un altro continente, ma che si è facilmente confuso con il resto della vegetazione, risultando quasi invisibile ad occhi meno attenti. 

Piantagioni di palma in Guatemala

Dentro la palma. Una storia di invasione

Faccio la mia prima conoscenza con la “palma” in uno dei lunghi viaggi in moto con Miguel, agronomo di Nuevo Horizonte con cui lavoro. Miguel è la mia guida in questi mesi, è uno dei referenti locali di Amka, l’associazione di volontariato che mi ha condotta fino in Guatemala. Ha 29 anni ed è laureato in Scienze agrarie. Se non è indaffarato ad aggiustare qualche tetto o impegnato in qualsiasi altro lavoro di riparazione, lo si può trovare al campo, sperimentando qualche nuova tecnica di semina o cura delle piante. Ma, oltre ad essere un instancabile lavoratore, non gli mancano nemmeno grande curiosità e spirito d’avventura. Per questo, lo convinco ad accompagnarmi in una zona dove, mi hanno detto, sono disseminate diverse piantagioni di palma da olio. 

L’area in cui arriviamo è recintata da un grande filo spinato. L’industria proprietaria del terreno è Tikindustrias, ma in Guatemala le aziende “palmeras” sono più di quaranta. Appartengono a poche famiglie ricche, alcune guatemalteche, molte altre straniere, che formano un oligopolio di multinazionali. Dagli anni ’70 e sempre più rapidamente dagli anni ’90, il Guatemala ha assistito ad una costante espansione di queste piantagioni, sulla scia di economie neoliberiste adottate dagli ultimi governi in carica, economie che ne hanno favorito la crescita senza troppe regolamentazioni. Nel Paese, la regione del Petén è quella dove la coltivazione di palma è più incisiva (quasi il 58% della produzione), grazie al suo clima tropicale che la rende perfetta per la crescita della palma africana. Secondo la Central American Business Intelligence (CABI), nel 2021 il Guatemala era il terzo esportatore mondiale di olio di palma grezzo, mantenendo una quota dell’1,5% sul mercato globale. 

Anche se la zona è protetta e ricca di telecamere, addentrarci nel fitto della piantagione non è difficile. Miguel, però, mi avverte: “Siamo riusciti ad entrare solo perché Tikindustrias è una delle più “tranquille”. Nelle aree più a Sud, verso Sayaxché, è lì che la situazione è davvero pericolosa. Ci sono da anni scontri tra i contadini e gli impresari della palma. Brutte storie di morti sul lavoro, violenza e sfruttamento”. Osservo i chilometri di palme che si estendono ai nostri lati, mentre procediamo in moto sul selciato. Dei buoi trascinano un carro enorme pieno di caschi di frutti arancioni che ricordano delle olive giganti. Più in avanti, un gruppo di lavoratori molto giovani utilizza dei lunghi rastrelli per colpire le palme più basse e cercare di far cadere gli stessi frutti visti poco prima. 

Con Miguel nelle piantagioni di palma

Avanziamo per almeno due chilometri prima di uscire finalmente da tutto questo verde ipnotico e a tratti inquietante. Alla fine della piantagione, ci accoglie una fabbrica bianca, circondata da alte mura di cinta. Di fronte all’ingresso, file di militari camminano su e giù con fucili di dimensioni considerevoli. Miguel mi spiega che la fabbrica è il punto finale. Qui vengono condotti i camion carichi di frutti e dove avviene poi tutto il processo di estrazione dell’olio. Mi dice anche di non fare foto, indicandomi con lo sguardo i militari che ci hanno già avvistato e ora ci fissano, osservando ogni nostra mossa. Non appena provano ad avvicinarsi, Miguel dà gas alla moto e ripartiamo verso Nuevo Horizonte.

Costretti a vendere la propria terra

Don Saul Pau è un abitante della provincia di Sayaxché, nel Sud del Petén, ed è un ex leader di una comunità della zona. Saul ha affrontato nel 2015 un processo contro l’industria di palma REPSA, giudicata colpevole di aver provocato un ecocidio nel fiume La Pasión a causa di scarichi abusivi contenenti un agrochimico altamente tossico. 

Durante una mia visita nella provincia di Sayaxché lo incontro per farmi raccontare nel dettaglio il modus operandi delle imprese di palma: “Il primo passo è quello di acquistare terreni sparsi nel Paese all’interno degli appezzamenti familiari, convincendo ed esercitando pressioni tramite i loro ‹‹agenti›› nei confronti dei vicini, persino attraverso minacce e violenza aperta. Quelli che resistono alla vendita vengono circondati da terreni acquistati dalle compagnie di palma, che limitano così il ‹‹diritto di passaggio›› per i membri delle comunità vicine. Dopo aver acquistato gli appezzamenti e seminato le piantagioni, l’azienda isola la popolazione locale con un cancello con lucchetto sulla strada. Diverse comunità devono dunque passare per una via diversa, attraversando altre comunità, allungando il loro percorso di diversi chilometri. Molti, a questo punto, sono costretti a vendere la propria terra”. 

Saul mi racconta che, dopo le accuse contro REPSA, cominciarono a sparire persone. Rigoberto Lima Choc, un maestro che aveva denunciato pubblicamente la palma, venne ucciso da tre colpi di pistola nel centro cittadino. Altri corpi vennero ritrovati in mezzo alle piantagioni dell’industria. Avvertimenti, minacce, strategia del terrore, sono tutti i mezzi utilizzati da chi, in Guatemala, detiene il potere. 

Dendé, frutto da cui si ricava l’olio di palma

“È una rete di oligarchie – mi dice Saul – “che di fatto ha guidato il destino del Paese, usando tutti i mezzi a sua disposizione per impedire al popolo di avere una democrazia. Sono latifondisti, grandi proprietari terrieri, impresari straricchi in combutta con aziende multinazionali statunitensi ed europee. Riescono facilmente ad ottenere le terre di cui hanno bisogno espropriandole ai contadini. Non parliamo solo della palma, che è la più diffusa. Ci sono anche monocolture di papaya, mango, banano. Tutto destinato all’esportazione”.

In Guatemala c’è da anni anche una disputa sul possesso della terra, che non è affatto migliorata in seguito alla fine del conflitto armato interno che ha sconvolto il Paese per trentasei anni. In un quadro di corruzione, criminalità in crescita ed espropriazione, l’espansione delle palme da olio minaccia l’indipendenza e l’organizzazione di molte comunità guatemalteche, soprattutto indigene. I cambiamenti nell’uso del suolo provocati dalla monocoltura di palma africana hanno portato a gravi carenze alimentari, a causa della riduzione delle aree coltivate per la produzione di cereali di base. C’è sempre meno terra da coltivare, sia sulla propria terra che su quella in affitto. Vendendo le loro terre ai produttori di palma da olio, le famiglie contadine stanno perdendo i mezzi per produrre il loro cibo e quindi sono costrette ad accedere a cibo lavorato (fast food) e spesso importato, che sostituisce la produzione locale, con una chiara violazione del diritto all’alimentazione. 

Resistenza

L’espansione della palma in Guatemala mostra uno scenario ramificato di corruzione, appropriazione, sfruttamento e impatto ambientale. Eppure, di fronte a queste minacce che si intrecciano con il narcotraffico e con la violenza, c’è anche chi non si arrende e non si dà pace per difendere i propri diritti. Quelle delle comunità costrette a vendere la propria terra alla ‹‹palma›› sono storie di resistenza e lotta per la propria indipendenza. Una di queste storie è quella di Matias Pop Asig, leader della comunità di Santa Elena y Rio Salinas.

Matias Pop Asig nel suo campo di mais

Santa Elena è un minuscolo villaggio di 150 famiglie nato nel 1979 che ha avuto la sfortuna di sorgere vicino ad un fiume molto grande, il Salinas, lo stesso che ha attirato nel 2012 le mire espansionistiche dell’industria di palma Chiquibul S.A., di proprietà di uno sceicco dell’Arabia Saudita. Matias è un contadino di cultura q’eqchi’, ha otto figli ed è l’unico della sua comunità a parlare un po’ di spagnolo. Quando lo incontro, nel campo di mais che era di suo padre e di suo nonno prima di lui, mi racconta degli anni trascorsi come lavoratore per l’impresa Chiquibul ad uno stipendio di Q60 al giorno (circa 2/3 euro), con una giornata lavorativa di 14 ore e nessun contratto, nessun giorno di ferie, nessuna forma di previdenza sociale né sicurezza sul lavoro. 

Un giorno ha deciso di dire basta. Si è ribellato con altri membri della comunità iniziando a protestare e scioperare pacificamente. Per gli impresari della palmera Chiquibul, però, la parola “pacifico” non ha nessun significato. Per loro quelli di Matias e dei suoi compagni erano atti di violenza contro il datore di lavoro e, come tali, andavano estirpati. “Sono arrivati con enormi pick up e fucili di alto calibro, hanno iniziato a minacciarci, a dirci che ci avrebbero sparato se non avessimo smesso di protestare. Alla fine ci hanno sparato davvero, hanno colpito un mio compagno e ci siamo arresi. Poi ci hanno trascinato in carcere, a me e ad altri quattro compañeros. Lì ho trascorso tre mesi, sono stato costretto a pagare anche la talacha di 40mila quetzales. Sono riuscito a tornare dalla mia famiglia solo dopo due anni.”

Matias è stato in carcere tre mesi e, successivamente, è stato costretto a passare due anni ai domiciliari lontano da Santa Elena e dalla sua famiglia a causa del processo in corso contro Chiquibul. Un processo che, grazie all’aiuto di associazioni comunitarie, attivisti e avvocati, è stato vinto dalla difesa e che ha permesso a Matias di tornare a casa. “A dicembre 2021, sono riuscito a tornare qui, a Santa Elena, e ho potuto riprendere il mio lavoro. Però il processo, ci hanno detto, non è ancora concluso del tutto. L’impresa continua come se nulla fosse. Molte delle famiglie della mia comunità hanno scelto di emigrare negli Stati Uniti. Ci è stato detto che adesso l’impresa paga un po’ di più i suoi dipendenti, sui 90Q al giorno per una giornata lavorativa di dieci ore. Ma la situazione non è cambiata di molto. Chiquibul è arrivata nel 2012 come un invasore, togliendo la terra alla nostra gente, pagandola un prezzo bassissimo, dicendo di voler offrire lavoro che poi, alla fine, non veniva mai pagato. Come può mangiare questa gente che non ha più una terra? Come può guadagnare, come può mantenere la sua famiglia, sua moglie e i suoi figli, una persona a cui è stato sottratto l’unico mezzo che aveva per vivere?”.

L’esempio di Matias è solo uno di tante lotte che gli abitanti del Petén hanno dovuto affrontare in questi anni, denunciando i soprusi di molte imprese e manifestando per riavere i loro diritti. Matias ha ripreso il suo lavoro da contadino, mi ha mostrato fiero le sue piante di cacao che, grazie alla pioggia degli ultimi mesi, sono cresciute e daranno frutti nel giro di qualche anno. L’universo di Matias, come quello di tutti gli altri abitanti di Santa Elena, ruota intorno alla terra e al legame che il contadino ha con essa. È nella sua forza d’animo ancestrale, non ancora piegata dalle attuali dinamiche economiche e politiche, non ancora scalfita dal potere delle multinazionali, che ho intravisto una luce, una speranza di un’indipendenza ancora possibile.