Stori3 N° 0 – Reportage dal trimestrale Indipendenza
Con i progressi medici che hanno allungato di molto le aspettative di vita delle persone disabili, sorge un problema: come garantirgli un futuro dignitoso e autonomo, fuori da strutture private, quando i loro genitori non ci saranno più?
Piccoli poster attaccati alle pareti e una libreria Ikea, nient’altro. La stanza dell’Anffas al Centro per i Volontari di Fermo è spoglia. Dalla finestra una luce fioca. Davanti a noi c’è Fortunato Cutini, presidente dell’associazione, voce dimessa, occhi vissuti: «Dopo il mio primo figlio Alessandro, affetto da autismo, che ora ha 41 anni, ho avuto un secondo figlio, Giulio, anche lui affetto da autismo. Quando nasce un bambino con disabilità, i genitori si chiedono subito cosa sarà di lui quando non ci saranno più. È una paura disarmante».
Fortunato ci racconta dei viaggi interminabili tra Fermo e Macerata per le terapie. Degli improvvisi cambi di turno a lavoro con i colleghi che lo prendevano per sfaticato. Della scelta condivisa da lui e sua moglie di vivere in due case separate a 40 km di distanza perché Alessandro e Giulio hanno paura l’uno dell’altro. Ma anche dell’invecchiamento, del calo di risorse fisiche e mentali da dedicare ai propri figli. Le parole di Fortunato fanno un tonfo nel silenzio della stanza in penombra.
Più di 76 milioni di euro nel solo 2024: sono i fondi stanziati su scala nazionale per la legge 112 del giugno 2016, detta del “Dopo di Noi”, che interviene in sostegno di persone con disabilità grave prive del sostegno familiare o in procinto di esserlo. Introducendole in un percorso di autonomia personale, l’obiettivo è la co-abitazione in appartamenti messi a disposizione dalle famiglie o acquistati tramite i fondi della legge. A disegnare i percorsi di autonomia sono gli Ambiti Territoriali di ogni regione e a Fermo, dopo una prima fase di avvio fermata dalla pandemia, il progetto del Dopo di Noi è ripartito a pieno regime dal novembre 2023. Gestito dall’Ambito territoriale XIX, coinvolge le cooperative NuovaRicerca.AgenziaRes, Faro, COOSMarche, le associazioni Psiche 2000 e Anffas Fermo, la Fattoria sociale Montepacini.
«Attraverso abitazioni sparse per il territorio fermano, vogliamo sperimentare i primi nuclei di convivenza e condivisione, sotto la supervisione dei nostri operatori» – spiega Alessandro Ranieri, coordinatore dell’Ambito Territoriale XIX, che continua: «al momento abbiamo inserito otto persone nel programma, divisi in due gruppi, in base al loro tipo di disabilità. Tre di loro compongono quello che chiamiamo il “gruppo Fermo”. Gli altri cinque, il “gruppo Servigliano”, dispone di un appartamento che abbiamo acquistato con i fondi della legge 112. Lì, nel pomeriggio, organizziamo le attività per l’autonomia».
Strade per l’autonomia
Appartamento di Servigliano. Lucia, operatrice Anffas, sta per tornare dal supermercato con la spesa. Intanto Giorgia racconta della sua passione per la musica napoletana, per l’Attimo Fuggente, suo film preferito. Katia, invece, sta per compiere 50 anni e prevede grandi festeggiamenti. Lavora in un cappellificio. Poi spunta Matteo, prima impegnato a fare le distensioni per la schiena, nella sua camera dotata di un sollevatore. Mi ammonisce per la barba lunga, vuole sapere tutto della mia auto. Ci raggiungono anche Alessia e Marta, gemelle, fresche di pisolino.
Il menù del pomeriggio è yogurt con frutta e cereali, ad ognuno viene assegnato un compito. Chi lava la frutta, chi la sbuccia e la taglia, chi prepara tazze e cucchiaini per mangiare. «Riuscire a prendersi la responsabilità di portare a termine un compito, e farlo bene, è uno dei primi passi verso l’autonomia individuale» – spiega Federica, psicologa, dopo essersi seduta in disparte, al riparo dalla bolgia che avvolge ora l’appartamento: è cominciato il karaoke.
Molti di loro, continua a raccontarmi Federica, hanno vissuto pesanti situazioni di isolamento per lunghi anni. Per le persone con disabilità fisica, cognitiva o con sindrome di down, la solitudine è un muro che si somma ad una preesistente prigione interiore. La socialità diventa, così, un territorio libero dalle paure profonde che si portano dentro.
Alla base dei percorsi di autonomia c’è anche la necessità di saper fare scelte personali consapevoli. È la finalità del laboratorio creativo, altra attività in cui il gruppo di Servigliano è coinvolto. A gestirlo è Laura, educatrice, arte-terapeuta. «Molti di loro hanno difficoltà anche solo a decidere cosa mangiare. Questo perché non hanno mai scelto, non riescono proprio o non ne hanno avuto l’occasione». Mi indica la parete con le scaffalature zeppe di disegni, magliette e oggetti vari creati durante i laboratori negli ultimi due anni. «Qui sperimentano l’assoluta libertà di scelta. Possono anche strappare il foglio se lo desiderano, o non fare nulla per tutto il pomeriggio. Là fuori c’è un’apparente libertà, viviamo in una società poco inclusiva, con una democrazia apparente. Il nostro è un mondo stereotipato, dai ritmi frenetici, non abbiamo tempo per ascoltare gli altri. Le persone disabili vivono un senso di solitudine estremo».
La condanna alla solitudine per Simone arriva a 17 anni quando, di punto in bianco, un’emorragia celebrare paralizza metà del suo corpo. Operazioni su operazioni, terapie su terapie, recupera soltanto parte della mobilità persa. Nel mentre i suoi compagni salutano l’adolescenza. Rimangono presenti per quanto possono, ma arriva l’età adulta e quindi figli, mogli, lavoro, il proprio percorso. Quello di Simone, però, è stato bloccato da una disabilità fisica comparsa dal nulla. Cosa si prova a vivere tutto questo? Me lo chiedo mentre guardo Simone entrare alla Fattoria sociale di Montepacini, fermarsi e perdere lo sguardo verso un punto imprecisato.
Questo pomeriggio il gruppo Fermo preparerà biscotti. Marina e Giulia, entusiaste, dimenticano le lancette dell’orologio ma Simone, invece, dei biscotti è poco interessato. Preferisce parlarmi delle offerte alla Conad, del suo viaggio in Romania fatto a 26 anni, dei paesi che vorrebbe visitare, delle donne, rimaste appannaggio del desiderio. «Adesso tiriamo avanti giorno per giorno”, mi ripete, «tiriamo avanti, tiriamo avanti».
«Per Simone servono attività più stimolanti. Non è diverso da noi, è consapevole di tutto» mi dice Loris, educatore, mentre guardiamo il pulmino allontanarsi con i tre del gruppo Fermo. «Ognuno ha bisogno di un percorso personale cucito sulle proprie caratteristiche. La nostra sfida è di riuscire a creare gruppi omogenei, perché ognuno ha un diverso grado di autonomia che può raggiungere. Senza contare le diverse capacità di interazione sociale, sempre diverse. L’obiettivo finale è la coabitazione, ma dovranno essere loro a scegliersi, in base ai legami che hanno creato».
Per un domani
Camicia a quadri e jeans, 81 anni, Angelo lega l’ultimo mazzo di legna da ardere il prossimo inverno, lo accatasta sopra gli altri e, vedendoci arrivare, rimane immobile a guardarci mentre parcheggiamo. Con la moglie Pina, 73 anni, abita in un gran casolare con mattoni a vista nei dintorni di Fermo. Lo seguiamo fino all’entrata sul retro. Intorno a noi colline e campi roventi per il sole estivo.
Gru pieghevole da officina, stufa a pellet, banchi in ferro da lavoro, attrezzi di ogni tipo, diverse carrozzine, un trattore, un tornio, fasce per sollevare carichi, bombole varie: soltanto alcuni degli arnesi che gli occhi captano nel seminterrato immerso nell’ombra. Sopra la nostra testa un soffitto meccanico con carrucole, aste in ferro estraibili dalle pareti con sollevatori a motore che Angelo, con fierezza, racconta di aver costruito da solo. Saliamo al piano abitativo con un ascensore da sei persone, fondamentale per Matteo e la sua carrozzina. «Va bene fare tutto a norma, certo, ma le attrezzature andrebbero fatte ad uso. Le carrozzine che hai visto le ho fatte io. Ogni disabile ha i suoi bisogni, anche nelle attrezzature», mi dice sotto il rumore metallico dei cavi dell’ascensore che si arrotolano.
Seduti al tavolo del salotto, Angelo esordisce: «quando scopri della disabilità di tuo figlio, piangi. E basta. Poi col tempo non piangi più, perché ti finiscono le lacrime». Al momento del parto, Matteo è stato estratto con il forcipe, ma la stretta della pinza, eccessiva, ha causato danni celebrali. Ha così passato i suoi attuali 53 anni in carrozzina. «All’epoca c’erano meno aiuti, ma forse più umanità. L’abbiamo sempre portato noi a scuola, al pomeriggio andava al Centro Diurno. Mantenere un lavoro, se hai questi impegni, è impossibile. Anna l’ha perso, così ho preso il carico di tutti. All’inizio c’era poco lavoro. Quindi pochi soldi». Niente rancore, dalla voce di Angelo traspare un puro senso del dovere. Pina prende la parola: «Spiegare la disabilità a chi è fuori non è facile. Ti condiziona la vita, non puoi permetterti il lusso delle vacanze. Non c’è spazio per cose superflue. Matteo ha bisogno di tante attenzioni. Non ti sa dire se sente caldo o freddo, se è sazio o meno, di fuori basta una folata d’aria che si ammala. Domani, quando non ci saremo più, chi penserà a tutto questo?».
Chiedo ad entrambi di descrivermi un sogno. Angelo poggia i gomiti sul tavolo, guarda Pina alla sua destra e sistema gli occhiali. Sognare permette di accedere ai paradisi del possibile. Ma il possibile, nel loro caso, si è sempre scontrato con una realtà da accettare così com’è. Quello che manca, da questo scontro di forze, è la speranza. Al suo posto una visione pragmatica dell’esistenza che non ammette, però, nessuna forma di arrendevolezza. «Oggi si spendono tanti soldi, c’è la cultura del grande. Ponti da 30 metri ma niente passerelle per le carrozzine. In cinquant’anni solo chiacchiere. Il Dopo di Noi, almeno, è qualcosa di concreto».
Angelo è un ingegnere mancato e prima di salutarci ci mostra il pezzo forte della casa. Nel seminterrato, in un bagno di servizio, Matteo ha la sua oasi di pace. Un sollevatore lo separa dalla carrozzina, lo adagia su una superficie in legno collegata ad un sistema di scorrimento verticale che lo immerge in una vasca idromassaggio. «Tutto è per Matteo. Tutto».
La cura di un figlio disabile copre l’arco di una vita intera. Capire i loro bisogni prima che si presentino, per i genitori, è un gesto automatico, ma sia per la loro vecchiaia che avanza, che per volontà di indipendenza dei figli stessi, si tratta di un rapporto di codipendenza da cui emanciparsi per il benessere di entrambi. Per questo, anche i genitori vengono inseriti all’interno dei percorsi di autonomia e distacco del Dopo di Noi. Ma come assicurare ai familiari che, in un futuro senza di loro, le persone disabili abbiano un livello di cura esterna pari al precedente? Come garantirgli che le eventuali risorse economiche donate, tra denaro liquido e proprietà, vengano gestite con efficienza e trasparenza?
L’adesione al progetto Dopo di Noi, e la sua buona riuscita, ruota attorno ad un punto cardine: la fiducia. Guadagnarla è la sfida principale dell’équipe fermana di educatori e operatori, che si muove su possibili soluzioni da sperimentare, in cui i percorsi di autonomia individuali vengono ridisegnati di continuo se, come per Simone, le attività proposte non sono adatte. Le soluzioni adottate da altri Dopo di Noi sparsi per l’Italia, allo stesso modo, possono funzionare solamente come linea guida: ogni territorio ha le sue specificità culturali, sociali, geografiche – l’Ambito XIX, il più ampio delle Marche, gestisce 23 comuni ed opera quindi in un rilevante contesto di frammentazione territoriale.
Tante le questioni che rimangono aperte e che troveranno risposta nel lungo periodo. Già individuabili, invece, alcune certezze. La prima è la necessità di inserire le persone disabili in un progetto di indipendenza personale da dopo l’adolescenza, fase di maggiore assorbimento degli stimoli esterni, per ottenere un grado di autonomia maggiore nel momento in cui la vecchiaia dei genitori renderà difficile l’assistenza. Preoccupa l’attuale assenza di politiche pubbliche che vadano verso questa direzione.
La seconda certezza è l’amore. Per Francesco, operatore sociosanitario, dedicarsi a loro è “una missione”. L’amore genitoriale non ha pari, e quando mancherà sarà un vuoto incolmabile. Posso però dire di aver visto, e percepito, in questi giorni di immersione totale nelle attività del Dopo di Noi organizzate da educatori ed operatori, espressioni d’amore puro, trasparente, lontano dai confini degli interessi individuali che regolano le relazioni considerate “normali”.
Prima di lasciare le colline marchigiane alle nostre spalle visitiamo Gianfranco e Valeria, genitori ultrasettantenni di Alessia e Marta. Gemelle, nate premature, nel trasporto in ambulanza da Montegiorgio ad Ancona i sanitari hanno dimenticato di aprire le bombole di ossigeno collegate alle incubatrici. A seguire, un guasto all’impianto di distribuzione dell’ossigeno all’ospedale di Ancona: seconda ipossia. Entrambe riportano gravi danni cognitivi irreversibili. Le loro giornate, oggi, si dividono tra il Centro Diurno e l’appartamento di Servigliano.
Gianfranco, bianchi baffi folti e occhiali, parla con la decisione di chi ha vissuto una vita tra la campagna e la fabbrica: «al momento siamo ancora in forma. Ma un domani, quando non ci saremo più, questa casa andrà al Dopo di Noi». Nel mentre Valeria, stretta in una corona di capelli ricci, indica il corridoio affianco a noi con due camere, un bagno e una cucina. Un ascensore porta al piano superiore che comprende altre due camere e un bagno. Spazi sufficienti anche per assistenti e operatori, mi spiega, con voce velata. «Gianfranco ha fatto tanti sacrifici. Io ho perso il lavoro nel ’93. Ero sindacalista, e il sindacato mi ha licenziato e basta, senza darmi maternità o altro».
Primo giorno di scuola in grembiule, cresima, comunione, compleanni, le foto di Alessia e Marta costellano le pareti del salotto. Valeria le mostra con fierezza, una ad una. «Sogno di vivere altri 100 anni per non lasciarle sole» dice Gianfranco, che insiste nel mostrarci l’orto con i pomodori appena piantati e lo seguiamo. Il sole, fuori, è ancora alto. L’ombra di un’altalena si sovrappone ai bastoni per ortaggi che spuntano dal terreno. Davanti al cancello d’uscita, salutandoci, Gianfranco si ferma e guarda basso. «In realtà, forse, il vero sogno è tutto quello che io e Valeria abbiamo messo in piedi. Non mi vergogno di avere due figli disabili! Non mi vergogno! Non mi vergogno!» continua a dire da lontano, puntando un dito al cielo, mentre ci allontaniamo.