Stori3 N° 0 – Reportage dal trimestrale Indipendenza
Belma, Slavica, Fatima e Vela sono scappate dalla Bosnia in guerra. Il loro percorso di indipendenza intreccia la Roma di oggi, multiculturale e aperta, con lo spettro di un’identità jugoslava priva di confini.
Per alcune – la maggior parte – sono passati trentadue anni. Per altre, ventinove. All’epoca erano diciannovenni, ventenni, al massimo venticinquenni. Non è facile prendere decisioni a quell’età. Nonostante quello sia, forse, il periodo della vita in cui una persona è più chiamata a compierne, è quasi impossibile abituarsi, farci il callo. Ancor meno facile è immaginarsi un proprio futuro. Rispondere a quella domanda che il più delle volte recita, più o meno, così: «E tu, dove ti vedi, che ne so, tra trent’anni?». Solitamente, si tende a rivolgere gli occhi verso un piccolo spazio temporale che ci proietta in quei fatidici trent’anni dopo, carico di sogni, di aspettative e, inevitabilmente, di interrogativi. È l’età in cui, sebbene la propria vita appaia, quelle rare volte, in qualche modo già definita, tutto è in ballo e men che mai certo. Le possibilità possono essere infinite e provare a prevederne anche solo una o due può risultare già un successo. E, poi, che succede quando le aspettative vengono disattese? Quando quelle scelte non sono più tanto arbitrarie; quando vi è un obbligo sotteso? Una sensazione che fa pensare: così non posso essere libera? Perché, in fondo, è proprio quella voglia di libertà, di indipendenza, che indirizza le nostre scelte.
Belma e Slavica: un destino inaspettato
«La mia vita è stata un po’ uno sliding doors…», mi racconta Belma. Lei è originaria di Mostar. Il suo accento bosniaco si confonde con le parole e i modi di dire romaneschi. Capisci subito che Roma è la sua città da molto tempo, la sua casa. «Mostar ormai è piena di gente, di turisti…’na pipinara!», esclama, tra il rumore delle forchette e dei piatti del ristorante dove ci siamo fermate a mangiare. A diciannove anni si era trasferita a Sarajevo, la capitale multietnica della Bosnia, e aveva iniziato i suoi studi nel campo dell’odontoiatria. Il padre era dentista e lei avrebbe seguito le sue orme. Era il 1991. L’anno dopo, la Bosnia-Erzegovina avrebbe dichiarato la sua indipendenza dalla Federazione jugoslava, nel marzo 1992, segnando, tuttavia, in questo modo, il suo destino. Nel tentativo di tenere salda la Jugoslavia – e i poteri di cui giovava – la Serbia e l’esercito federale, prevalentemente sotto il giogo serbo, attaccarono prima la Slovenia e poi la Croazia, in seguito alla loro dichiarazione di indipendenza. Turno che toccò poi alla Bosnia, all’indomani del suo plebiscito. La Bosnia, in particolar modo, era un obiettivo importante: essa era, infatti, un coacervo di etnie sparse irregolarmente e a piccoli gruppi per tutto il territorio, che da secoli convivevano in serenità. I territori rivendicati dalla parte serba, così come dalla parte croata, erano molteplici. «Prima di un esame, noi studenti dovevamo compilare un piccolo foglio in cui bisognava indicare nome, facoltà ed esame da sostenere. Con una mia amica abbiamo notato un’altra piccola sezione da compilare: nazionalità», ricorda Belma. Era il 1992. «Non ho mai dovuto indicare la mia nazionalità prima di allora: bastava mettere jugoslava. Ora non andava più bene. Io ero bosniaca e la mia amica era serba». Ma questo, tra di loro, non importava.
La guerra in Bosnia-Erzegovina è stata tra le più cruenti e sanguinose che l’Europa contemporanea possa ricordare. È stato un conflitto in cui l’attacco alle etnie e alle religioni è stato un pretesto politico per guadagnare potere all’interno di quell’area. Soprattutto, è stata l’occasione migliore per cacciare dai loro territori la popolazione non gradita: quella che credeva in una Bosnia unita, mescolata e incurante delle diverse nazionalità che la costellavano. Leggere gli avvenimenti nei Balcani tra il 1991 (anno delle guerre in Slovenia e, soprattutto, in Croazia) e il 1995, significa comprendere, di fatto, molte delle dinamiche delle guerre che sono venute dopo e che hanno caratterizzato poi il ventunesimo secolo (basti guardare Gaza in questo momento). Il conflitto balcanico ha provocato la morte di più di centomila persone (tra civili e soldati), la fuga di oltre il cinquanta per cento della popolazione e la riduzione al quindici per cento del reddito pro capite del Novecento, comprese le ingenti distruzioni dei servizi pubblici e dell’edilizia residenziale. Dal 1992 al 1995 circa 2,2 milioni di abitanti sono fuggiti dai propri territori, di cui un milione all’interno della stessa Bosnia (sfollati) e più di 1,2 milioni in diversi Paesi (rifugiati). Belma era una di loro.
Nel disegno degli strateghi serbi, ma anche croati, che rivendicavano un predominio in quei territori e che puntavano ad una spartizione del territorio bosniaco, l’allontanamento forzato della popolazione civile prevedeva un viaggio di sola andata. L’obiettivo intrinseco del conflitto era quello di non permettere il ritorno dei rifugiati di guerra nei loro vecchi paesi, nelle loro stesse case. Dei 1,2 milioni di rifugiati all’estero, soltanto 442.137 fecero ritorno, tra il 1996 e il 2006. Eppure, tutto questo, i bosniaci – quelli abituati alla convivenza interetnica, che non conoscevano un altro tipo di Bosnia – non lo credevano possibile. Il momento in cui i venti di guerra si trasformarono in veri e propri colpi di mortaio fu il 5 aprile, quando si riunì a Sarajevo una folla di circa duemila persone, schierata contro l’escalation di violenza in Jugoslavia. Un franco tiratore colpì una studentessa di medicina, Suada Dilberović, considerata simbolicamente la prima vittima del conflitto bosniaco, e altri quattro civili vennero uccisi dai cecchini serbi, appostati ai piani alti dell’Holiday Inn. Belma e Suada erano amiche. Nell’aprile del ’92, Belma decise, quindi, di lasciare Sarajevo e prendere l’unico treno che viaggiava durante i giorni di una piccola tregua e che la portava dalla sua famiglia a Mostar. «Ero andata alla stazione con la valigia e con questi occhiali da sole…non mi rendevo proprio conto». Un viaggio di tre ore ne durò sette e, alla fine, riuscì ad arrivare nella sua vecchia casa. Il giorno dopo quei binari vennero fatti saltare in aria. Si rifugiò, poi, per tre mesi a Spalato, prima di prendere la decisione di andare via, da sola. La madre aveva un contatto a Roma. Da quel giorno, lei vive lì.
Per Slavica, invece, non se ne parlava di uscire dalla Bosnia. Mai dalla sua Sarajevo. Lei e suo figlio hanno vissuto la guerra, quasi nella sua interezza, all’interno della capitale assediata. Sarajevo, la città più grande della Bosnia, contava una popolazione prebellica di circa 350.000 abitanti. Durante gli anni della guerra, i morti furono più di 11.500, di cui duemila bambini, e i feriti 52.000, tra i circa 280.000 abitanti rimasti durante l’assedio. Questi sono sopravvissuti alle granate, al fuoco dei cecchini, alla fame e all’assenza di acqua, luce e gas. Sarajevo ha visto l’assedio più lungo nella storia bellica della fine del XX secolo: quattro anni sotto le bombe, in una città spettrale, dove si sopravviveva giorno per giorno. «Noi che vivevamo in Bosnia pensavamo che una cosa del genere non sarebbe potuta succedere nel nostro paese», ricorda Slavica. Cominciò ad uscire tutti i giorni per andare al mercato e comprare (o barattare) del cibo da portare a suo figlio di quattro anni. Il mercato era, in realtà, un vero e proprio tunnel. Uno spot clandestino creatosi negli anni dell’assedio sotto l’aeroporto della capitale, che ebbe un ruolo vitale nel rifornire la città e i civili che vi abitavano, nonostante al suo interno vi circolassero anche reti di contrabbando e meccanismi utilizzati clandestinamente per rifornire e finanziare le parti opposte del conflitto. Slavica non sarebbe mai andata via da Sarajevo. Gran parte dell’assedio lo aveva già passato lì e pensava che, se fosse morta, almeno sarebbe rimasta nel suo paese e con la sua gente. Nell’aprile del 1995, tuttavia, fu costretta ad uscire, per motivi legati alla salute del figlio.
![Slavica sale sul tram 14](https://rivistastori3.it/wp-content/uploads/2024/10/image00004-2-1024x683.jpg)
All’inizio di quell’anno, infatti, aveva ricominciato a lavorare in una pizzeria italiana dove era stata assunta tre anni prima. Ricorda di come, lì, il telefono squillasse in continuazione: la gente aveva preso a lasciare quel numero ai propri cari all’estero, per poter ricevere da lì delle chiamate. Nella Sarajevo assediata e, in generale, nella Bosnia-Erzegovina in conflitto, le comunicazioni interne non funzionavano, ma era possibile ricevere chiamate dall’estero. Slavica lasciò, così, il numero di quella pizzeria a sua sorella, che all’inizio della guerra partì, rifugiandosi in Italia. Decise di raggiungerla. Attraversò, insieme a suo figlio, il tunnel sotterraneo che portava a Butmir e da lì riuscirono a spostarsi verso Roma, con dei convogli umanitari. Lei che non si sarebbe mai spostata da Sarajevo, neanche sotto i colpi dei cecchini (le granate cadute sul centro cittadino potevano arrivare ad essere ottocento o mille nei giorni più intensi), oggi vive a Roma da quasi trent’anni. Ha avuto da subito una sorta di imprinting con la città. Le è sembrato di ritornare alla Sarajevo in cui aveva da sempre vissuto: «I romani sono un po’ caciaroni, proprio come i sarajevesi…c’è uno spirito di comunanza. Adesso, anche Roma è multiculturale: quando cammini per Trastevere puoi sentire le persone intorno a te parlare in tutte le lingue del mondo. Poi, ho visto il tram numero quattordici: era dello stesso colore di quello che prendevo sempre a Sarajevo. Mi sono sentita a casa».
Fatima e Vela: il volontariato come lezione di vita
Incontro Fatima al Centro di Servizio per il Volontariato, dove lavora da diversi anni. Fatima si definisce una «profuga per caso». Lei è originaria di Kakanj, un villaggio della Bosnia centrale, ma, come tante, si era trasferita a Sarajevo per l’università. All’inizio del ’92, stava progettando di venire in Italia durante l’estate dello stesso anno, con l’intento di imparare la lingua e di lavorare, per mantenersi, come ragazza alla pari in una famiglia italiana. Nel mese di febbraio, infatti, aveva già tutto pronto: l’agenzia interculturale l’aveva messa in contatto con la sua host-family e la partenza era programmata per il mese di luglio. Scoppiò il conflitto e fu presto costretta a cambiare i suoi piani, anticipando il suo viaggio. Questa volta, non più nei panni di una turista, ma in quelli di rifugiata di guerra. «Un conto è quando è una tua scelta. Un altro è quando devi scappare. Il tuo percorso dopo questo evento diventa più difficile. È successo tutto da un giorno all’altro»: Fatima ricorda così la sua partenza verso Roma, lontana dalla famiglia. Durante gli anni del conflitto, lavorò comunque come baby-sitter in una famiglia, dalla quale ricevette sostegno e conforto, riuscendo poi a laurearsi in Lingue alla Sapienza. Oggi, è presidentessa dell’associazione Bosnia nel cuore, nata proprio nel 1992 come iniziativa spontanea dei bosniaci residenti a Roma già prima della guerra.
Lei, tuttavia, venne a conoscenza dell’associazione soltanto nel 2001, quando l’allora presidentessa, Enisa Bukvić, la contattò per diventare una delle accompagnatrici ed educatrici, grazie alla sua conoscenza delle lingue. Dopo la laurea, un Master in Diritti Umani e Cooperazione Internazionale, dal programma molto chiaro: «Educazione alla Pace». «È nato tutto dalla mia esperienza personale. Quando sono arrivata a Roma non ho ricevuto tanti aiuti e mi sono resa conto di quanto sia difficile: quanto lo è stato per me e quanto lo sia per gli altri». Per questo, quando è scoppiata la guerra in Ucraina e decine di migliaia di donne e bambini si sono riversati verso le capitali europee, in cerca di supporto e riparo, Fatima è stata tra le prime a prestare aiuto. «Queste donne sono venute a conoscenza del nostro centro (CSV) attraverso il passaparola. Quando si tratta di stranieri dell’Est Europa sono principalmente io ad occuparmene. Ho costituito tre associazioni che sono fatte dalle donne ucraine, che fanno attività rivolte a profughi ucraini. Praticamente, è quello che faceva l’associazione Bosnia del cuore, trent’anni fa».
![Fatima, all’interno del CVS. A fianco a lei, l’installazione di una mostra sulle partigiane italiane](https://rivistastori3.it/wp-content/uploads/2024/10/image00001-3-1024x702.jpg)
Vela aveva solo 23 anni quando è scoppiata la guerra in Bosnia ed Erzegovina. La sua famiglia è originaria di Tuzla, ma al momento dei primi combattimenti, iniziati in primavera, lei si trovava a Sarajevo, dove si era trasferita per studiare Economia e Commercio all’università. Nel mese di marzo decise di lasciare il Paese. «Non avevo tutta questa consapevolezza», racconta, tra un sorso e l’altro del suo tè. Spaesata, come molte, in un’età in cui il futuro si costruisce, cambia e non si ha idea di cosa significhi, Vela partì, prima per Pisa, poi per Roma: «In quel momento non eravamo ancora considerati come dei rifugiati, perché non si dava ancora peso alla guerra in Bosnia. Non c’era nessun provvedimento». Insieme al suo compagno si improvvisarono guardiani di cavalli, fotografi per matrimoni e divennero, infine, lui regista e lei segretaria di produzione, ruolo che ricopre tutt’oggi: «Per il viaggio, avevo portato con me soltanto una borsa. Alla fine, non siamo più tornati». Ad oggi, sono trentadue anni che Vela vive a Roma, tornando di tanto in tanto a Tuzla, nella casa in campagna della famiglia, per salutare amici e parenti durante le feste o le ricorrenze nel suo Paese di origine. Mi manda una foto via Whatsapp (in questi giorni è, infatti, in Puglia per la realizzazione di un film). Si tratta di un souvenir che aveva comprato quando era alle medie, durante una gita in Slovenia. È un porta-sale e pepe in legno, ornato con piccole pitture: «È stato l’unico oggetto che ho ritrovato nella mia casa a Tuzla, dove vivevo prima del conflitto dieci anni dopo essere potuta rientrare». La loro vera casa, infatti, è stata liberata dagli occupanti serbi, soltanto nei primi anni del 2000, in seguito agli accordi di Dayton nel 1995.
Dice di non riconoscersi più nel territorio che è stato lasciato dopo le guerre: «Quando hanno firmato la pace a Dayton abbiamo capito che un Paese così devastato e profondamente cambiato non era più vivibile. Hanno diviso un territorio senza criterio. Devo ancora capire la divisione corretta. So a dove appartengono le città principali, ma di alcuni posti non ne ho idea. Loro si sono fatti la loro divisione: è una cosa che non mi appartiene». Vela mi parla di come, da poco, sia stata a Londra, per incontrare un’amica serba specializzata in studi sui rifugiati di guerra e sulla pratica del displacement. In questa piccola trasferta, è andata a vedere una proiezione di un documentario degli anni Settanta. In uno degli episodi, il regista effettuò le riprese in uno scompartimento di un treno, intervistando le persone che emigravano verso la Germania. Vela dice di essere rimasta molto colpita dal racconto di una giovane ragazza appena maggiorenne, che stava migrando verso un nuovo Paese: «come lo racconta lei è poesia», afferma, sottolineando la consapevolezza di questa ragazza nell’intraprendere la sua scelta. «Lei neanche era arrivata in Germania e già vedeva cambiare la sua vita, pensava a dover cambiare tutto. Io, per esempio, non avevo tutta questa consapevolezza. Sicuramente l’unica certezza che avevo è che non volevo far parte di tutto quel che stava succedendo nel mio Paese. Eravamo concentrati a cercare noi stessi, a capire cosa volevamo fare nella vita. Eravamo ventenni. Io avevo un obbligo: cosa ne faccio della mia vita?». Mi racconta di come, negli ultimi tempi, abbia scoperto il volontariato. Quando non lavora, tra una produzione di un film e l’altro, si dedica a diverse organizzazioni no-profit. Insegna l’italiano a Casa Africa, una scuola che fornisce supporto e insegnamento a stranieri e migranti di ogni provenienza, dedicandosi, poi, all’associazione Ciampacavallo, che realizza varie iniziative, prevalentemente a sostegno di disabili psichici e fisici, con la passione per il cavallo.
![L’unico oggetto che Vela ha ritrovato nella sua casa a Tuzla](https://rivistastori3.it/wp-content/uploads/2024/10/image_123650291-1024x1015.jpg)
Trent’anni dopo
È molto probabile che, alla domanda «Dove ti vedi tra trent’anni?», nessuna di loro avrebbe risposto «Roma». Così come migliaia e migliaia di rifugiati non avrebbero pensato di finire in Svezia, in Canada o in Australia. Nemmeno una guerra è riuscita a sottrarre il desiderio di libertà di queste donne. Sono partite, sole, alla ricerca di un futuro migliore. Sono rimaste, perché la loro vita era da costruire. Hanno iniziato a definirla proprio in quegli anni, in un altro paese, impossibilitate a rientrare in quello di origine. Senza supporti da parte di uno stato, come quello italiano, impreparato a gestire un’emergenza profughi come quella dei Balcani in quegli anni. Con tutti i traumi conseguenti ad una condizione imposta, non voluta, non condivisa. «La mia generazione è quella che ha pagato di più»: è stata la prima cosa che Belma mi ha detto, nel raccontarmi quegli anni. Nonostante questo, la loro ricerca di indipendenza è stata il motore dei loro spostamenti. Proprio quell’indipendenza costata tanto cara alla loro nazione, divisa in due, dopo gli accordi di Dayton del 1995. Oggi, la loro vita è attraversata da questo solco che separa il «qui» e il «lì» di una vita precedente, che continua, però, a germogliare in loro ogni giorno. Consapevoli che i loro sforzi sono stati ripagati, che le loro decisioni hanno dato dei frutti: la loro indipendenza è salva.
![Il tram 14 in partenza](https://rivistastori3.it/wp-content/uploads/2024/10/image00005-1024x683.jpg)