Il paradiso artificiale delle sostanze stupefacenti 

Stori3 N° 0 – Reportage dal trimestrale Indipendenza

Volontà di evasione, necessità performative, carenze d’amore: tante le dinamiche dietro le dipendenze da sostanze stupefacenti. Al C.e.I.S. per uscire dall’abisso. Un nuovo inizio è possibile, ma niente sarà come prima.

Centro Italiano di Solidarietà don Mario Picchi. «La droga ti cattura piano piano e ti uccide lentamente». Seduto davanti a noi c’è Alessio, un ragazzo di 33 anni. Ha il volto spento, lo sguardo fisso. Accanto a lui c’è Guido, di anni ne ha 37, capelli cortissimi, camicia a quadri e un sorriso imbarazzato. Siamo al Ce.I.S – Centro sociale italiano di Solidarietà don Mario Picchi, uno dei tanti istituti della capitale che si occupa di aiutare chi vive il problema delle dipendenze. «Terza porta a sinistra» ci dice un signore all’ingresso del centro, appena arrivate. Entrare è strano: l’occhio si perde tra le tante stanze della comunità, gli spazi aperti, gli alberi, il campo da calcio. Il Centro è nato negli anni Settanta grazie a un gruppo di volontari che, guidati da don Mario, hanno fondato la prima comunità di accoglienza per tossicodipendenti. In questi anni di attività, il Ce.I.S. si è sviluppato con numerose strutture a Roma e nella sua provincia: dalla comunità terapeutica per i dipendenti da sostanze, alla cura dei giovani con dipendenza e problemi psichiatrici.

Noi, di preciso, siamo alla Comunità Ambrosini. «Qui il servizio – ci spiega il Dott. Andrea Pascucci – è impostato come percorso terapeutico-ria­bilitativo semi-residenziale per coloro che vogliono affrontare gli aspetti disfunzionali collegati all’uso di sostanze». “Siamo qui perché non c’è alcun rifugio dove nasconderci da noi stessi”, recita la filosofia “Progetto Uomo”, ideata dal fondatore della comunità. Essa pone la persona al centro della sua stessa vita, libera da ogni schiavitù e alla ricerca del bene, indipendentemente dalle sue qualità o dal suo livello culturale e sociale; senza distinzione di età, sesso, etnia e credo religioso. Il “Progetto Uomo” è questo: credere che la persona non coincida con il sintomo che la rappresenta. Nel centro si sperimenta la potenza della parola: la parola per conoscermi, farmi conoscere e conoscere l’altro.

Negli anni ‘90 è avvenuto il passaggio dalle droghe da “estraneazione” – di cui era emblema l’uso di eroina endovena – alle droghe da “prestazione”, socializzanti e performanti, come l’ecstasy, le anfetamine, la cocaina. Della cocaina si ama la sensazione di controllo. Quel senso di forza quasi onnipotente che però tende, in parallelo, a creare l’illusione di poter smettere quando si vuole. In realtà, quando l’effetto eccitatorio si spegne, la persona si sente così svuotata e priva di forze, che il desiderio di un’altra dose diventa incontenibile. Così ne vuoi altra, sempre di più… È il fascino della cosiddetta polvere bianca, che poi bianca non è. La pasta in origine nasce marrone e poi viene sbiancata dai narcos. Tutto questo per essere più appetibile sul mercato. 

La dipendenza da stupefacenti è caratterizzata da un desiderio continuo di una sostanza e dall’incapacità di smettere di utilizzarla, nonostante problemi fisici e psichici. Le dipendenze sono un po’ come le malattie autoimmuni: latenti, ti mangiano dentro, poco alla volta. Un tossicodipendente non è mai solo un tossico, ma purtroppo, nella nostra società, viene visto soprattutto così. La tossicomania, però, non ha una radice sociale, anche se si sviluppa giocoforza nella società: alla sua origine c’è quella fame di infinito propria della gioventù, fame che, se non trova pane per i suoi denti, scopre nelle droghe il più soddisfacente dei surrogati. L’adolescenza è il periodo cruciale della vita e il terreno più fertile per l’incontro con le droghe – perché è nell’esperienza della solitudine adolescenziale – che scopriamo di avere un mondo interiore con i suoi peculiari sentimenti. L’uso delle sostanze permette di “viaggiare” con la mente, appagando quel bisogno di evasione alla ricerca di un proprio posto nel mondo.

In alcuni casi il primo contatto con una sostanza può essere del tutto accidentale, in altri può essere una consapevole ricerca di esperienze o, ancora, un tentativo paradossale di ribellione. Nel caso di Guido, l’approccio alle droghe è iniziato molto presto: «Il mio percorso di recupero in una struttura è iniziato nel 2016 quando avevo più o meno trent’anni, dopo che per quindici anni avevo fatto un uso cronico e quotidiano di quasi tutte le sostanze stupefacenti meno l’eroina. Sono arrivato a capire che avevo bisogno di allontanarmi dal contesto che frequentavo, perché ero passato dall’uso in compagnia all’uso singolo: questo mi aveva fatto rimanere da solo». Così inizia il suo racconto: una luna di miele con le sostanze stupefacenti. Quella sensazione che ti fa sentire invincibile, che distorce la realtà, che ti fa dimenticare tutto il resto.

Un effetto che, però, ha un tempo di scadenza e si esaurisce con il passare del tempo. Le droghe ti portano alla privazione di te stesso e del mondo che ti circonda: quello che provi quando ti fai non lo dimentichi, ti resta dentro. È come un orgasmo, finisce subito e ne vuoi sempre di più. «Purtroppo, dopo che ho finito il primo percorso in comunità, preso dalla noia di una vita diversa, ho avuto una ricaduta con l’alcol e lì sono tornato indietro come al primo giorno…» Guido cerca di trovare le parole giuste, ma si emoziona, non riuscendo a continuare. Poi sospira, lasciando un attimo di silenzio. In quel momento Alessio lo segue con lo sguardo guardandolo bonariamente e sorride: «La dipendenza è nata da una non accettazione di me stesso: volevo modificare una parte di me che non riuscivo a gestire. Questo mi aveva fatto avvicinare a compagnie sbagliate. È stato difficile accettare di avere un problema: avevo quattordici anni quando ho iniziato, ero solo un bambino. Ho provato tutte le droghe: alcol, cocaina, marijuana… Nel primo colloquio con una comunità mi hanno detto: “Ecco, è arrivato un altro tossico”. Quella parola non l’ho mai accettata. In realtà era solo la chiave per capire se fossi pronto per iniziare un percorso comunitario. Purtroppo, non era il mio momento».

Un tossicodipendente è una persona sola che, in fondo, non si è mai voluta bene. Quando fai uso di droghe non hai più niente: non ti alzi più dal letto, non mangi, non ti curi. Diventi statico, inerte e felice di esserlo. La comunità è quel luogo che ti consente di acquisire un senso dell’orientamento, ma oltre quella soglia sei tu a dover inventare giorno per giorno la tua strada. Il periodo iniziale è incentrato sulla cura dell’aspetto personale e sul recupero dei rapporti con i propri familiari. I tossicodipendenti, spesso, cercano di persuadere le persone care, tentando di convincerle che non hanno bisogno di una terapia. Il rapporto di Alessio con la propria famiglia è tutt’oggi burrascoso. «Con la droga, il rapporto con la famiglia cambia perché sei tu che cambi. Sei tu quello che ha sbagliato, non sono loro che devono cambiare. I miei familiari, dopo tante delusioni, hanno perso la fiducia in me».

La fiducia è come uno specchio, una volta che si rompe le cose non saranno mai più le stesse. «I miei non si fidano perché noi siamo bravi a manipolare, lo abbiamo fatto per tanti anni, – continua – però non bisogna buttarsi giù: se vuoi veramente smettere di fare uso di droghe, lo devi fare per te stesso. Se lo fai per qualcun’altro ci ricadi. A me non ha fermato neanche mia figlia. Ognuno ha dei passaggi durante la dipendenza e, secondo me, devi toccare il fondo per capire veramente che hai un problema. A un certo punto ho cominciato a capire che perdevo pezzi della mia vita: amori, lavori, rapporti… fino a quando, dopo aver fatto uso di sostanze per un lungo periodo, mio nonno mi ha trovato steso davanti alla porta di casa. È lì che ho deciso di provare a cambiare la mia vita».

Anche per gli psicologi e gli operatori è difficile fidarsi. «Io a loro dico sempre: mi voglio fidare, ma è difficile. I tossicodipendenti sono dei bravi manipolatori! Noi veniamo pagati per cercare il meglio in ogni persona: quando riusciamo ad avere quel pezzetto di cuore ancora in grado di cercare il bello nelle persone, possiamo dire di aver fatto un buon lavoro» ci dice Marco, operatore del Ce.I.S.. L’abbandono delle droghe è solo il primo passo di una rinascita. «Riuscire a perdonare sé stessi è un lavoro enorme, ci vuole tempo – continua – a volte ci riesci, a volte no. Abbiamo bisogno di accettare il caos che vive dentro di noi: quello dei sentimenti, delle fragilità, dei dubbi…»

«In una struttura per tossicodipendenti c’è una giornata tipo con orari uguali per tutti spiega Alessio – al C.e.I.S. la routine giornaliera prevede varie fasi: arriviamo qui per le 8:30, poi alle 9:00 c’è l’incontro del mattino, dove si parla di un argomento comunitario. Dopo iniziamo con i settori lavorativi fino alle 12:00. Alle 12:50 si pranza tutti insieme e c’è il turno delle pulizie. Abbiamo un arco di tempo libero fino alle 14:40 dove iniziamo l’incontro organizzativo per i vari settori del giorno dopo e per l’incontro del mattino. Ci sono anche i gruppi terapeutici con più fasi: orientamento, prima, seconda, terza e quarta fase». Attività apparentemente semplici ma fondamentali per chi vive una dipendenza.

La vita in una comunità semi-residenziale non è facile. «Io ho lavorato per tanti anni in comunità h24 e so cosa vuol dire, so quanto il luogo è importante. Qui entri la mattina alle 8:00 ed esci il pomeriggio alle 16:30: non c’è alcun filtro con la realtà» precisa l’operatore. Riconoscere i propri punti forti è un lavoro enorme, è un percorso a piccoli passi continui: c’è tanta gioia ma anche tanta sofferenza. A volte ci arrivi, a volte no. «La vita non è facile anche per chi non si droga…» don Mario Picchi diceva: “un tossicodipendente è una persona con un problema in più”.

«È stato piacevole parlare con voi» ci dicono Alessio e Guido, sorridendo, al momento di salutarci. Torniamo a casa e quello che ci rimane sono i loro occhi imbarazzati: lo sguardo quasi assente, fuori dal tempo.

Servizio per il trattamento delle dipendenze

Il C.e.I.S è un ente accreditato presso la Asl e – come ormai quasi tutte le comunità – l’accesso avviene tramite il Ser.D, Servizio per il trattamento delle dipendenze, istituito per affrontare le problematiche legate alla dipendenza patologica dalle sostanze. Un giorno di aprile, decidiamo di visitare quello della città di Velletri. “Servizio per le dipendenze” leggiamo su un poster accanto alla porta d’ingresso. Ci accoglie Cristina, assistente sociale: «È un piacere avervi qui con noi». Con lei ci sono Alessandro e Luca, disponibili a portarci le loro testimonianze. Cristina ci spiega che all’interno del Ser.D c’è un’équipe professionale di psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori e medici. L’accesso è gratuito e si effettuano colloqui di accoglienza per accertare lo stato di salute del paziente, per poi impostare un programma terapeutico personalizzato. Le stanze della struttura sono accoglienti, ma al tempo stesso asettiche, vuote. Ognuna ha il nome di un colore: blu, viola, giallo… Noi entriamo nella stanza blu e ci sediamo attorno a un tavolo circolare. C’è un grande silenzio. 

Luca
Luca

Alessandro ci sembra agitato, nel suo sguardo percepiamo una certa tenerezza. È un uomo di 48 anni, originario di Genzano, che è stato inghiottito dal paradiso artificiale della droga. «La cocaina mi ha portato anche una malattia psichiatrica: sono psicotico indotto da sostanze d’abuso. Per lo Stato sono un invalido civile. La patologia è arrivata quando avevo solo diciotto anni, sono state le allucinazioni a farmi capire che avevo un problema». Anche Luca ha un passato da tossicodipendente: «Ero un alcolista. Oggi racconto la mia testimonianza durante le riunioni del martedì al Ser.D. di Velletri, per incoraggiare gli altri che tutti possono farcela – il suo racconto inizia così – sono 1048 giorni che non bevo. Al momento affronto la mia vita giorno dopo giorno: lo spettro dell’alcol, però, me lo porto sempre dentro. Non posso dimenticare il mio passato». Per Luca l’uso della cocaina era solo a scopo ricreativo, Alessandro, invece, la descrive come “un demone”. «La cocaina è l’unica droga che mi dava sicurezza: verso l’altro sesso, verso il lavoro, verso la società». Le droghe agiscono in termini di aumento del rilascio della dopamina, la quale viene rilasciata dai neuroni per dare una risposta a segnali naturali di piacere. È come un circolo vizioso: la sostanza viene cercata in modo compulsivo, indipendentemente dagli effetti negativi provocati.

«Avevo solo quattordici anni quando ho iniziato, la usavo inizialmente per migliorare le prestazioni sportive». La rinascita per Alessandro è stata dolorosa: «Ho fatto tanto lavoro terapeutico in questi anni: due anni di semi-manicomio, tre anni di comunità, tanti trattamenti sanitari obbligatori. Il mio primo incontro con il Ser.D. di Velletri è avvenuto sei anni fa, venivo ogni lunedì». All’inizio gli davano le benzodiazepine: sostanze sintetiche che appartengono al gruppo dei depressori del sistema nervoso centrale, utilizzate in medicina per la cura dell’ansia e dell’insonnia. Ci racconta, però, che con ottanta gocce di benzodiazepine si faceva la pipì a letto ogni notte e non riusciva a dormire. «Ho chiesto allo staff di usare il CBD, uno dei cannabinoidi rintracciabili nella pianta di cannabis. Era l’unico modo per provare a staccarmi dalla cocaina». La particolarità di questa sostanza è che non ha un effetto inebriante, anzi rilassa e favorisce il sonno.

«Un giorno, per curiosità, sono andato a vedere come facevano la pasta di cocaina. Lì ho acquisito la sensazione ancora maggiore della paura e ho detto basta. Sono tre anni che non la tocco». È così che Alessandro ha smesso di fare uso di cocaina. Negli ultimi sette anni si è costruito una posizione sociale. «Sono partito dal pensarmi ricco perché compravo la cocaina, a rendermi conto che ero povero perché non avevo uno status sociale». Oggi è felice, con chiunque. Si occupa della casa, del giardino, della cucina. «Non lavorando, mi dedico a mamma e papà, soprattutto a papà che è invalido. Ho pochi amici perché non esco. L’unico di cui mi fido è il mio cane, si chiama Birillo, ha 15 anni. Lo porto ogni giorno a passeggio, il suo amore riempie le mie giornate». I progetti per il futuro non sono tanti. Il suo lavoro sarà quello di occuparsi dei suoi genitori fino a quando saranno in vita. «Se avrò tanti soldi – dice – prenderò una casa per ospitare tanti ragazzi che ne hanno bisogno. Mi piacerebbe anche dedicarmi a qualcuno più anziano di me: ho imparato il rispetto verso gli anziani con il tempo». 

Ci lasciamo così. È una calda giornata e, di ritorno verso casa, cerchiamo di mettere insieme i pochi pezzi appresi dal grande puzzle delle dipendenze. Le scelte hanno un peso. Sono sigilli scolpiti addosso, sensi di colpa. Quelle sbagliate stanno lì dinanzi a uno sguardo indeciso, ci guardano con sfida, non distolgono lo sguardo da quello che invece cerca di sfuggire al dilemma. E poi quel “ma se provo una volta che sarà mai?” e la scelta è fatta. Cadere nella trappola delle dipendenze è facile, ma il percorso di guarigione è lungo e complesso. Le parole di Alessandro sono impresse dentro di noi. «Purtroppo, dalla droga non si sta mai fuori. Puoi contare da quanti giorni, mesi, anni non ti fai…. ma non ne esci mai del tutto. La droga è un fantasma che ti seguirà per sempre».