Il prezzo dell’indipendenza

Stori3 N° 0 – Reportage dal trimestrale Indipendenza

Luna, Francesca e Camilla sono escort. I motivi della loro scelta professionale sono diversi, così come il loro modo di vivere la quotidianità e il rapporto con i clienti. Ad accomunarle sono i soldi. Una montagna di soldi. Ma con quali conseguenze?

Il cancelletto si apre e in fondo all’atrio della palazzina Luna apre la porta del suo appartamento. La lascia socchiusa, non mi aspetta; si volta e rientra, per poi scomparire dietro alla parete curva che dall’ingresso porta al bagno. Richiudo la porta dietro di me e la aspetto all’ingresso. Sulla sinistra, su un tavolino basso di vetro, c’è una torta, una di quelle grandi torte rotonde a più piani che si mangiano ai matrimoni; tutti i piani sono rosa e alla base di ogni piano c’è un nastro dorato; all’apice due candele a forma di numero, un tre e un nove. La cucina e il salotto fanno parte di un’unica grande sala, spaziosa e ben arredata. Il riscaldamento è acceso, c’è molto caldo. Sul piano di lavoro della cucina, di marmo scuro, ci sono una dozzina di bottiglie, tutte di champagne; sono dei “regalini”, dirà Luna, che dello champagne è una vera estimatrice. Altre bottiglie sono sistemate su uno scaffale in legno in fondo alla stanza, alternate a delle foto in cornici d’argento in cui è ritratta con personaggi famosi. Sullo stesso scaffale ci sono due tesi di laurea: una in ingegneria gestionale e una in scienze alimentari. Luna ritorna camminando goffamente su dei tacchi vertiginosi; indossa un abito corto, blu elettrico, con un’ampia scollatura tonda che contiene a fatica il seno abbondante. I capelli sono castani, lisci, il naso è drittissimo e sottilissimo; sulle labbra c’è un vistoso rossetto scarlatto. «È il tuo compleanno? Auguri!» Cerco di rompere il ghiaccio. «Era due giorni fa, hai visto le storie sul mio profilo?» Luna sembra essersi dimenticata della colossale torta lì accanto. «No, è per la torta…» «Ah ma questa è di cartone, è solo per le foto! Quella vera l’abbiamo già mangiata. Comunque… accomodati». Mi siedo sul divano di velluto verde accanto alla torta; Luna si siede a sua volta. Alle sue spalle, al di là di due grandi vetrate scorrevoli, si intravede la camera da letto: è ampia, curata, velata da una leggera luce calda, e a ridosso di una parete in pietra grigio scuro c’è un enorme letto rotondo, rimboccato con lenzuola bianche e rosse. L’allestimento è curato nei minimi dettagli e non è un caso: Luna è una escort, e la camera da letto è il suo luogo di lavoro.

La sua storia comincia tra i locali di lusso della Roma Bene. «Avevo appena compiuto diciott’anni, mi piaceva andare alle feste. I ragazzi più grandi mi cercavano e a me piaceva essere notata, essere corteggiata». In uno di questi locali il proprietario le chiede di lavorare come ragazza immagine, come accompagnatrice, di essere presente a delle cene… Luna non ha bisogno di soldi: ha alle spalle una famiglia benestante che la supporta nel percorso universitario che ha appena intrapreso; ma lei si annoia, vuole giocare. «La prima volta che ho ricevuto un “regalino” è stato ad una cena: 1200 euro per poco più di dieci minuti». Quella sera Luna nasce una seconda volta. Da lì in poi inizia a selezionare i propri clienti e mi racconta che lavorando per piacere può permettersi di essere molto esigente: ricerca degli uomini di un certo spessore culturale, che la facciano stare bene, e soprattutto che sappiano valorizzare con un “regalino” adeguato il tempo che lei dedica loro; uomini che nella vita di tutti i giorni non riesce ad incontrare. «Ogni volta che provo ad avere una vita privata al di fuori del lavoro me ne pento; è come se mi pentissi di regalare qualcosa a qualcuno che non gli dà il giusto valore. Se io esco con te, tu devi capire che io ti sto regalando il mio tempo, e che quel tempo, in realtà, dovrebbe essere pagato.» E così, prima che esca dal suo appartamento, Luna si assicura che anche io le corrisponda il mio “regalino”. «Tu mi segui?» Luna è un influencer e il suo profilo conta più di duecentomila followers. Quando le confesso di non essere tra questi, mi chiede – in maniera velata, ma non troppo – di rimediare, essendo questo l’unico modo che ho di ricompensarla. 

Anche Francesca, quando la contatto per la prima volta con la proposta di un’intervista, vorrebbe che valorizzassi adeguatamente il suo tempo. «Quanto ci guadagno?» mi chiede, per poi correggersi: «scherzo, però comunque preferirei di no, ti ringrazio» Insisto, garantendole – se fosse quello il problema – l’anonimato, ma Francesca rifiuta di nuovo. «Rimarrei anonima nell’articolo, ma se ci incontrassimo tu mi vedresti, e preferirei evitare.» Dopo una mezz’ora, Francesca mi scrive. Ci ha ripensato, ma ad una condizione: nessun incontro, nessuna videochiamata o chiamata vocale, solo ed esclusivamente messaggi di testo. La sua famiglia e i suoi amici non sanno nulla del suo lavoro come escort, e per coprire la sua seconda vita ne ha costruita una di facciata, lavoro compreso. Per questo l’ansia di essere scoperta è sempre presente, fin dal giorno in cui anche a lei, come a Luna, è stata fatta una proposta. 

Francesca, a quel tempo, ha poco più di diciott’anni e si trova in un periodo di forte difficoltà economica. Risponde ad un annuncio in cui si cerca un’accompagnatrice. È titubante, non sa cosa aspettarsi. L’autore dell’annuncio ha un piano preciso: lui avrebbe organizzato gli appuntamenti con i clienti e lei, ogni mille euro guadagnati, ne avrebbe versati trecento a lui. «I primi incontri sono stati un flop, non ci sono riuscita. Ma dopo qualche giorno la pressione delle spese e di quell’uomo che mi diceva “sei convinta o no?” mi hanno dato la spinta necessaria. E così il mio primo cliente in un hotel del centro. Duecento euro guadagnati in meno di mezz’ora. Mi si è aperto un mondo.» Un mondo che le garantisce un’indipendenza economica altrimenti irrealizzabile, che le permette di viaggiare e che porta con sé la libertà di poter decidere se, come e quando lavorare. Un mondo da cui ora vorrebbe scappare ma in cui si trova invischiata. Un mondo che detesta, così come detesta i suoi clienti. «Sono visi che non memorizzo e dimentico all’istante, appena vanno via. Ogni sorriso, ogni carezza, ogni sguardo che faccio è una recita. E loro ci credono! Quindi pure stupidi! Non nutro nessuna stima per loro e non provo nessuna empatia. I vecchi poi sono i peggiori. Evito sempre. Non li sopporto. Viscidi e incontentabili. Il loro odore mi disgusta, il loro corpo mi ripugna. Il loro modo di fare, disperati cercano di vedere se ancora funzionano… Sembrano cani con la bava alla bocca. Io vedo quotidianamente la vera natura dell’uomo. Bugiarda. Animale. Sleale.» Francesca è un fiume in piena, ma raccontandomi del rapporto con gli uomini nella sua vita privata si cheta, svelando di sé un altro lato: «se vado a letto con qualcuno perché l’ho scelto e mi piace, vivo tutto in maniera più libera. Sapere che l’ho scelto io e che non lo sto facendo per essere pagata è tutta un’altra cosa. Sono passionale, sperimento volentieri, adoro fare stare bene l’altra persona». Più che raccontare, Francesca sembra ricordare. Questo suo lato, per più di dieci anni, è stato sacrificato in nome di un’indipendenza economica che ha raggiunto, ma se ora ripensa a quella parte di sé con una certa dose di nostalgia è perchè sa che – forse – quella stessa parte è rimasta sott’acqua troppo a lungo per poter essere riportata a galla. «Ho perso la fiducia negli uomini, non so se dopo questa vita potrò mai avere un rapporto normale».

Camilla, invece, ne è certa: con gli uomini, al di fuori del lavoro, non vuole più averci nulla a che fare. Quando mi presento alla porta del suo appartamento mi accoglie con un sorriso bonario. «Scusami per il disordine… io ti avevo avvertito» Tutta la casa è in ristrutturazione, le pareti sono appena state ritinteggiate di un intenso rosa salmone interrotto in basso da una fascia di vernice bianca. A sinistra un lungo corridoio spoglio, con delle sole applique dorate appese alle pareti, porta alle camere da letto. Dall’ingresso Camilla mi fa strada nella direzione opposta e ci accomodiamo in quella che sarà la cucina. Sul pavimento in piastrelle beige ci sono numerose gocce di vernice rosa. Anche questa stanza è spoglia: c’è un solo mobile, una cucina ad angolo di legno scuro, con lavello, piano cottura e relativi pensili; il tutto è coperto da teli di plastica opaca.  Ci sediamo all’angolo opposto, l’uno di fronte all’altra ad un piccolo tavolino in metallo su cui ci sono una vecchia macchina da caffè rossa a cialde e svariati attrezzi da lavoro. «Tu fumi?» Camilla mi offre un caffè e dopo aver aperto la finestra alle sue spalle, accende la prima di una lunga serie di sigarette. È una signora sui sessant’anni, alta, bionda, un po’corpulenta. Porta un elegante tailleur verde smeraldo con una leggera scollatura tonda; ai piedi un tacco basso color carne. È una signora distinta, una di quelle persone che con la propria aura riempie facilmente una stanza vuota come quella in cui ci troviamo. Il suo sguardo dolce è quello di una donna che sembra aver trovato la serenità dopo una buona dose di sofferenza. Camilla ha cominciato a prostituirsi in tarda età per pagare le cure di sua figlia, a cui, durante l’infanzia, è stata diagnosticata una malattia genetica con degli importanti risvolti estetici. «Andando in giro con mia figlia capitava che le dicessero “che bella mamma che hai”, e di questo ci soffrivo; volevo che mi dicessero “che bella figlia che hai”, non il contrario. Così ho fatto di tutto per rendere bellissima mia figlia, e io mi sono lasciata andare… Camilla però non poteva essere brutta, e così ho ricominciato a prendermi cura di me».

Oltre che al naturale affetto per la figlia, Camilla prova una forte empatia anche per i clienti, che lei non definisce mai “clienti”, ma “amici”. «A loro sono molto affezionata. Lo so che è strano, ma per me sono veramente incontri d’amore. Poi escono e vanno via, certo; magari sono persone che incontro da dieci anni e nemmeno li ricordo. Però nel momento in cui siamo insieme riesco a trasmettere amore, quello vero. Non è finzione. Vivo il momento.» Amici che però devono rimanere tali, non potendo superare quel confine tra lavoro e vita privata che è tassativamente delineato dai soldi. Camilla, al di fuori del suo lavoro, non ha alcun rapporto con gli uomini. Non un caffè, o una passeggiata. «Per me l’uomo è denaro», mi dice, e non ha alcuna difficoltà ad ammetterlo: l’aspetto economico è il motore, è ciò che l’ha spinta e la spinge a fare ciò che fa, nonostante abbia ormai messo da parte abbastanza denaro da garantire un futuro sereno alla figlia e ai propri genitori. Perché quegli stessi soldi e l’indipendenza che portano con sé nascondono una smania da cui è difficile liberarsi: i soldi non sono mai abbastanza. «Ora ti porto un esempio. Ieri stavo facendo dei conti per dei pagamenti, così come si fa nella vita di tutti i giorni. Mi accorgo che per i due giorni successivi sarei rimasta solo con mille euro e penso: “oddio, sono senza soldi”. Senza soldi? Quanto vive una persona normale con mille euro?» 

Prima di salutare Camilla le pongo un’ultima domanda, tanto spontanea quanto astratta e contorta. «Qual è, Camilla, il suo rapporto con la bellezza?» «Io, quando incontro un uomo per strada, non riesco più a dire se è bello o meno. Ma non per qualcosa di negativo… è che proprio non lo vedo più. Noi, la nostra intimità, non la conosciamo più, l’abbiamo persa per sempre.» «E non le dispiace?» Camilla sorride: «No, perché di là ci sono i soldi».