Abituarsi al cibo del campo non è stato semplice. Quando veniva servito del riso con a parte della bieta cotta, mangiava prima il riso e poi, quando era il turno della bieta, infilzava con la forchetta poche foglie alla volta, le sollevava a mezz’aria e le osservava. Poi, mettendole in bocca, pensava: “perché qui l’erba si mangia? Noi la diamo alle bestie”. E così, Inaku e altri ragazzi africani hanno ottenuto dai gestori del campo il permesso di cucinare il proprio cibo, che a turno vanno a comprare in un piccolo negozietto etnico, vicino alla stazione di Napoli Centrale. “Con un po’di tatashe sarebbe buona persino la bieta” pensa Inaku. Sono le spezie che gli mancano della Nigeria, e il tatashe è il suo peperoncino preferito; per fortuna ora, al negozietto, ne riesce a reperire in quantità. Così, quella mattina, esce presto dal campo. Il sole è appena sorto e la stradina sterrata che porta dalla campagna al centro è ancora deserta; da un grande cespuglio di oleandro coglie alcuni fiori e percorre quei tre chilometri tastandone i petali. Arriva alla stazione dei treni di Benevento in perfetto orario. Anche il treno è in perfetto orario. Inaku sale su un vagone centrale e poi, reggendosi a mano a mano ai sedili, si fa strada fino alla coda del treno. L’ultimo vagone è vuoto e può rimanere da solo. Si siede vicino al finestrino. Dalla tasca prende il telefono. Snoda le cuffiette, le infila nelle orecchie e mette della musica. Bob Marley, Waiting in Vain. “I don’t wanna wait in vain for your love…” Inaku canticchia sottovoce mentre guarda i campi di ulivi scorrere a lato. Ormai il sole è alto, fa caldo, l’estate è alle porte. “It’s been three years since I’m knockin’ on your door…” La luce gli illumina la fronte. Inaku chiude gli occhi, si ritrae per trovare un po’ d’ombra e continua a cantare. Ora si muovono a tempo anche le mani, volteggiano in aria. La sua voce si confonde con lo sferragliamento del treno e con il fruscio d’aria che entra dal finestrino, aperto sopra la sua testa. “Ya see, in life I know there’s lots of grief, but your love is my relief…” Inaku canta e sorride. Poi, della canzone, arriva il pezzo che preferisce. Sarà per come la voce sale in quel punto, per come raschia dall’energia, o forse per come quelle parole sembrino insieme una richiesta di aiuto e un grido di battaglia. “Tears in my eyes burn, tears in my eyes burn, while I’m waiting, while I’m waiting for my turn…” Inaku stringe i braccioli e canta di petto.
«Ehi, ragazzo!» Un uomo era seduto a qualche metro da lui, e ora si sta avvicinando. Inaku canta ovunque, appena ne ha l’occasione. L’ha sempre fatto, fin da quella volta in cui a scuola, quando aveva sette anni, il maestro Simon l’ha chiamato a sé. Era un uomo severo, ormai anziano, e mentre spiegava le sue lezioni aveva l’abitudine di gesticolare non con le mani, ma con il bastone che portava sempre con sé. Prima della lezione, quella mattina, Inaku e i suoi compagni hanno cantato un pezzo gospel che il maestro Simon gli aveva assegnato una settimana prima. I bambini cantavano e il maestro li guardava a uno a uno, per cercare di capire da dove provenisse una certa voce. «Ehi, ragazzo!» ha gridato in direzione di Inaku, roteando in aria il bastone. «Vieni qui!» Inaku aveva paura che glielo tirasse in testa, il bastone, perché glielo aveva già visto fare molte altre volte. Il maestro Simon ti chiamava, tu lo raggiungevi con lo sguardo basso, e con la velocità di un serpente “boom!”; senza nemmeno accorgertene tornavi al tuo posto con un bel bernoccolo in fronte. Ma quando Inaku si è avvicinato, il maestro Simon ha accostato il bastone al fianco, e abbassandosi al suo orecchio gli ha detto: «Hai talento! Canta più che puoi» Qualche anno più tardi Inaku è salito su un vecchio bus, sgangherato e maleodorante. Si è seduto su uno dei sedili in fondo, e dal finestrino rigato dalla polvere e dal fango ha salutato con la mano sua madre e le due sorelle; ha mandato loro un bacio e le ha guardate cercando di fissare quell’immagine nella memoria; non sapeva quando le avrebbe riviste. Poi il bus è partito e Inaku si è messo a canticchiare. Quando è nervoso lo aiuta a rilassarsi. Ha chiuso gli occhi, e ripensando alla fattoria di famiglia, ai campi di miglio crepati dal sole, alle capre al pascolo e a come quella vita di campagna non facesse per lui, si è ripetuto “forward ever, backward never” e si è fatto coraggio. Così, nella capitale, ha trovato lavoro in una radio. Tre volte a settimana, alla mattina, Inaku saliva le scale di una vecchia palazzina fino al secondo piano. Apriva la porta che dava su un’unica grande stanza: le quattro pareti erano colorate ognuna di un colore diverso, appesi qua e là c’erano poster di David Bowie, dei Rolling Stones, dei Clash e altre band anni Settanta. Ai lati c’erano due grandi tavoli di legno su cui lui e altri ragazzi lavoravano ai programmi radiofonici. In un angolo era allestita alla buona una piccola cabina di registrazione. Inaku teneva un broadcast sul reggae, la musica che ascolta in continuazione. Ogni puntata si focalizzava su un gruppo differente, ne raccontava la storia e le curiosità. Il lavoro di ricerca era stimolante, lo divertiva e gli dava soddisfazione; avrebbe potuto continuare, ma la paga era misera, e un tizio gli aveva detto che in Libia si guadagnava bene. «A Tripoli, in due giorni, guadagni quello che qui fai in un mese!» gli aveva detto. Così Inaku ha contattato un trafficante ed è partito. “Forward ever, backward never”.
La notte in cui è cominciato il viaggio è stato uno dei primi ad arrivare al luogo che il trafficante aveva indicato. Poi è arrivato un ragazzo, seguito da una famiglia, da due fratelli, da un’altra famiglia, da un altro ragazzo… Erano in trenta. Per ultimo è arrivato il trafficante, a bordo di una Toyota Hilux, un vecchio pickup bianco scrostato e arrugginito. «Su, veloci» Quando sono saliti tutti il pickup non si vedeva più. C’erano persone aggrappate ovunque, su ogni lato, sembravano delle api affollate attorno al proprio alveare. Per sette giorni e sette notti Inaku è rimasto avvinghiato al tettuccio. La sabbia del Sahara, che si librava nel cielo come uno stormo di uccelli, gli si fiondava addosso con folate improvvise; gli bucava gli occhi e gli sferzava le guance. Il sole gli spaccava la testa avvolta nella camicia. Il pickup ondeggiava tra i cumuli di sabbia come una barca in tempesta, in un continuo moto verticale. Quando il sole tramontava al di là delle dune, lo spettacolo era sublime. Inaku, in preda all’eccitazione e ad un’inquietudine irriducibile, cantava. E cantava anche qualche mese più tardi, in cima alla scala di acciaio mentre ridipingeva di verde la parete di una villetta a tre piani nel centro di Tripoli. Inaku odiava le altezze, cantava per non pensare al rumore che avrebbe fatto il suo corpo spiaccicato a terra se fosse caduto; pensava che sarebbe stato simile a quello che fa il guscio di un uovo quando lo si sbatte sul bordo di una padella; non gli piaceva. A Tripoli aveva conosciuto Adel, un signore libico molto loquace che gli aveva proposto di lavorare insieme a lui come imbianchino. In attesa di tempi migliori aveva accettato. Adel in fondo era gentile, o comunque più gentile di altri libici che gli era capitato di incontrare. E poi quando si finiva di lavorare si andava nel suo scantinato a bere della birra che produceva illegalmente nel capanno lì a fianco. Si sedevano su due cassette di legno e ne usavano un’altra come tavolino. Ammassati agli angoli c’erano scale di acciaio e di legno, un trabattello montabile, bidoni di vernice, rulli e pennelli. Un gran caos. Filtrava un po’ di luce dalle due finestre a bocca di lupo, quanto bastava per vedersi l’un l’altro. «Te lo ricordi Ousmane? Ha lavorato con noi qualche mese fa. Mi hanno detto che è morto in mare, era partito su uno di quei barconi…» Inaku non sapeva cosa rispondere. Si era creato un silenzio imbarazzate, insopportabile. Inaku era quasi arrabbiato. Che dire della morte di un uomo. Ha fatto un sorso di birra. A Tripoli i tempi migliori non sono mai arrivati; la Libia non era come quel tizio gliel’aveva descritta qualche anno prima, ma tutt’al contrario. La gente si picchiava. La gente spariva. La gente moriva. Come se fosse la cosa più normale del mondo. E se eri nero era tutto molto più facile: che sparissi, che venissi picchiato, che morissi su un marciapiede. Una volta Inaku aveva comprato un paio di Nike. Dopo due giorni, un ragazzino gli aveva puntato una pistola alla schiena. In Libia hanno tutti una pistola e nessuno ha paura di usarla, di sparare al primo nero che capita a tiro. «Dammi le scarpe o ti ammazzo», gli aveva detto; Inaku se le era tolte ed era tornato a casa scalzo, tra la polvere e i cocci di vetro. Ne aveva abbastanza. “Forward ever, backward never”, ancora una volta. Era giunta l’ora di muoversi, e se tornare indietro non era un’opzione, l’alternativa era una e una soltanto: il mare. La notte in cui Inaku è partito non tirava un filo di vento. Il mare era calmo. Era su quella spiaggia già dal pomeriggio, a guardare l’acqua incresparsi per poi riversarsi sul bagnasciuga. Con un bastoncino tracciava dei solchi sulla sabbia per poi ricoprirli, e nel mentre pensava che quella notte sarebbe potuto morire. Era la prima volta che ci pensava. Quando aveva attraversato il deserto quel pensiero non l’aveva sfiorato. Sapeva che era un viaggio pericoloso e che se fosse caduto dal pickup in movimento l’autista non si sarebbe fermato. La morte, in quei giorni, gli sembrava lontana. Gli sembrava addirittura impossibile. Ma da quando Adel gli aveva parlato di Ousmane, la morte lo aveva accostato. Era come se d’un tratto fosse divenuta reale. Morire in mare, comunque, gli sembrava poetico. Farsi inghiottire dall’acqua. “Se così deve essere, che sia”. Quando mancavano poche ore alla partenza, ha mangiato un panino e ha chiamato Lorenz, un amico di infanzia con cui era rimasto in contatto. «Se nel giro di un mese o due non avrai mie notizie, probabilmente è perché sarà successo qualcosa di brutto. Dillo tu a mia madre. Ti voglio bene». Il sole stava scendendo sul mare e si era fatto una grossa palla arancione. Riflessi violacei coloravano il cielo. Inaku, con le mani, ha scavato una piccola buca e con il rumore del mare che lo accompagnava, ha seppellito i suoi documenti nella sabbia ormai tiepida. “Se morirò”, pensava, “che lo sappia solo mia madre. Non voglio che Adel, davanti a una birra, chieda al suo nuovo aiutante: ‘Te lo ricordi Inaku? Ha lavorato con noi qualche mese fa…’ Voglio risparmiargli quella seccatura”. Al posto del sole si era fatta largo la luna. Sul gommone che puntava dritto all’Europa erano in tanti, stipati come anni prima sul pickup sgangherato. Lo stesso moto ondoso, su e giù. Ripetitivo. Nauseabondo. Inaku era al centro del gommone e il mare non lo scorgeva in nessuna direzione. Per combattere l’oppressione dei corpi che lo schiacciavano, Inaku ha chiuso gli occhi e con un filo di voce, per qualche minuto, ha cantato. Dopo un’ora il gommone si è spento. Li ha accostati una nave irlandese. Erano salvi.
Inaku riapre gli occhi. A quell’“Ehi ragazzo!” è sobbalzato per lo spavento ed è ripiombato sul sedile del treno. Davanti a lui si è seduto un omone pelato, pantaloni corti e canotta con una vistosa borsa a tracolla. Lo fissa con insistenza. «Si?» Inaku non capisce. L’omone si solleva gli occhiali da sole, e corrugando il naso cercando di richiamare qualcosa alla mente gli chiede: «Ma tu canti per strada? Perché mi sembra di aver ti già visto. Hai una gran bella voce!». Inaku è confuso, il suo italiano è ancora un po’acerbo. «Io non parlare bene italiano, mi scusi», gli dice. L’omone si inceppa. «Ehm… you, street music? You know?» Vedendo che la faccia di Inaku si è contratta in un sorriso di circostanza, prende il telefono dalla borsa a tracolla. Digita qualcosa e quando parte il video che ha appena cercato, gli porge il telefono. Un ragazzo in una stradina canta una canzone e suona la chitarra, ai suoi piedi è aperta la custodia; ogni tanto dei passanti si fermano; qualcuno lascia una moneta, qualcuno una banconota. «You see, street music!» Inaku è dubbioso, di “street music” non ne ha mai sentito parlare, ma quello che ha visto lo ha incuriosito. «You know Sorrento? American people, money, good money!», e nel mentre l’omone mima con la mano il gesto dei soldi. «Go, go! Sorrento!» Inaku scende alla stazione di Napoli Centrale e in pochi minuti è al negozietto. Sull’insegna rossa è disegnata in nero la forma dell’Africa e quando entra, spostando la tenda moschiera di mille colori, suona una campanella. Dalla porta sul retro spunta un robusto ragazzo senegalese. «Allora… tre chili di yam e poi tante zuppe già pronte: dieci ogbono, dieci egussi e dieci nsala… Peperoncini tatashe ne hai, vero?». Con una busta stracolma in ciascuna mano Inaku ritorna alla stazione. Le due ore di treno da Napoli a Benevento le passa al cellulare, guardando uno dopo l’altro video di ragazzi che si esibiscono in strada. Poi cerca Sorrento. Ne scorre le foto. “E se funzionasse? Se lo facessi anche io?” In uno dei video ha visto che un vecchietto con un gran cappello di paglia, dopo aver ascoltato un cantante nemmeno troppo intonato, ha messo dieci euro nel suo barattolo. “Dieci euro, come niente fosse!” pensa Inaku. Ma è incerto. Non ha mai pensato di cantare per strada, non sapeva neanche si potesse fare fino a qualche ora prima. Mentre immagina di esibirsi davanti a tutte quelle persone, attirando a sé l’attenzione, lo coglie una violenta vertigine. Certo canta spesso, canta sempre, ma lo fa per sé stesso. Nulla di più. Non vuole che gli altri si aspettino qualcosa da lui. “E poi è un po’ come fare l’elemosina, no?”. Quella sera Inaku fatica a dormire. La mattina seguente si sveglia di buon’ora ed esce presto dal campo. Percorre la stessa stradina del giorno prima. Oggi, però, il passo è nervoso. Scalcia qua e là i sassi per terra, sollevando ai suoi piedi piccole nubi di polvere. Arrivato alla stazione di Benevento si ripete: “Forward ever, backward never. Vada come vada”. Inaku sale sul treno per Sorrento. Durante il viaggio cerca su Internet consigli per le performance in strada. “Procurarsi un amplificatore e un microfono…”. Inaku se ne era completamente dimenticato. Non ci aveva proprio pensato. Non suona nessuno strumento e i prezzi di un amplificatore e di un microfono sono decisamente fuori dalle sue possibilità. “Questa però potrebbe fare al caso mio…” Su un trafiletto a lato, una pubblicità mostra un piccolo altoparlante bluetooth, il prezzo è abbordabile. “Con questo posso mettere le basi e io basta che canti…” Così, appena arrivato a Sorrento, entra in un negozio di elettronica e per una cinquantina d’euro compra uno speaker. Inaku cammina tra le vie di Sorrento, tra i negozietti che espongono in strada la frutta, cartoline e costumi da bagno. Nei vicoli, tra il via vai di turisti, si fa strada un odore di mare e limoni. Inaku si ferma a mangiare un panino; quando si siede, la gamba gli tentenna nervosa. Poi riprende a camminare senza una meta, con il solo intento di ritardare fin tanto che può quel momento. Quando si decide è ormai pomeriggio inoltrato. In un vicoletto del centro storico, tra vecchi palazzi eleganti con alle finestre gerani in fiore, Inaku poggia sui sampietrini la vaschetta vuota di una zuppa egussi che si è portato dal campo. Accende lo speaker. Davanti a lui oscillano gruppi sparuti di turisti in camicia e bermuda. Le mani gli sudano così come la fronte; il cuore martella veloce. Schiaccia play e chiude subito gli occhi. Bob Marley, Waiting in Vain. La voce a tratti si rompe, ma Inaku continua a cantare. Alla fine della canzone, quando riapre agli occhi, c’è un ragazzo davanti a lui, che applaude e sorride; mette qualche moneta nella vaschetta e lo saluta. Inaku, in un mare di sudore, sorride. Riprende, canta le canzoni che ha sempre cantato, e anche se la tensione va pian piano scemando, gli occhi mentre canta sono sempre serrati. Li riapre solamente tra una canzone e l’altra, per trovare davanti a sé sempre facce diverse. Dopo un paio d’ore, è ormai ora di cena. In quella via di Sorrento, non passeggia più nessuno. Inaku, si ferma e si siede a terra, sfinito. Appoggia la schiena al muro di pietra. Poi, prende la vaschetta. È pesante. Ci sono anche delle banconote. Inaku comincia a contare. Dieci… Venti… Trenta… Inaku strabuzza gli occhi. Quaranta… Cinquanta… “Ma che…” Non riesce bene a capire. Sessanta… Settanta… Ottanta! Ottanta euro! «Ah ah!» Inaku, in preda all’euforia, scuote la vaschetta colma di monete. Quella sera, per festeggiare, compra del cibo africano a portar via: riso e fagioli, un piatto che adora. Con la cena ancora fumante si siede su una panchina vicino al molo, le barche dondolano al ritmo della risacca. Inaku, tra un boccone e l’altro, fissa quel mare da cui è venuto. Ripensa a tutto ciò che ha lasciato dietro di sé. Quanto tempo è passato da quando è salito sul bus che lo ha portato così lontano da casa? Inaku non lo ricorda. Ma sa che ora, forse, ha trovato ciò che quel giorno l’ha spinto a partire.