Le feste clandestine di Teheran sono un atto di resistenza

Dal trimestrale Numero 1 – Feste

Le feste clandestine di Teheran sono un atto di resistenza. In Iran, la nuova generazione è sempre più insofferente ai dettami del regime; tra danze sufi e musica elettronica, i giovani cercano a tutti i costi dei momenti di evasione.

Sembra passata un’eternità da quando gli occhi del mondo erano puntati sull’Iran per l’omicidio di Mahsa Amini. Le proteste contro la legge che obbliga l’uso dell’hijab sembrano ormai distanti e la convinzione è quella che se i media non ne parlano più allora la situazione – almeno nella nostra bolla – si sia risolta. 

Un bellissimo articolo a firma Kim Ghattas sul The Atlantic fa riflettere sul fatto che non è una sparuta minoranza quella che si oppone alle rigide e ferree regole iraniane ma un movimento che coinvolge un’intera generazione. Le proteste, guidate inizialmente soprattutto dalle donne e incentrate sulla fine dell’obbligo di indossare il velo, si sono trasformate ben presto in una rivolta nazionale, che ha coinvolto uomini e donne, lavoratori e celebrità, che hanno protestato cantando nei campus universitari e ballato per le strade, bruciando gli hijab in pubblico. Questa situazione continua tutt’oggi anche nelle piccole cittadine, a due anni dalla morte della ventiduenne.

Nelle grandi città, invece, nelle regioni in cui si è consumata più violenza – basti pensare al Baluchistan e il Mazandaran, a nord di Teheran – c’è stato anche tanto di più. Queste proteste, con il tempo, hanno avuto una rilevanza tale da diventare transnazionali. Come recitava uno slogan diventato celebre sul finire del 2022: “From Beirut to Teheran”, passando per la Siria e Kabul, la capitale dell’Afghanistan. Zan, zendegi, azadi (“Donne, vita, libertà”) si urlava nelle piazze – e non solo quelle delle città iraniane – assieme al nome di Mahsa Amini, diventato ben presto una metafora per chiamare all’adunata i manifestanti.

Questo è quello che è accaduto in superficie. Gli scontri all’ordine del giorno tra gli agenti in antisommossa e i manifestanti, anche se in maniera meno frequente, ci sono ancora. Cosa accade invece nel fitto sottobosco, quello costruito da trame che legano queste drammatiche vicende ad un sentimento di riscatto e rivalsa morale? In altre parole, in Iran esistono momenti di distensione? In cui, magari, la resistenza la si fa ballando?

Ci siamo chiesti questo perché in Iran le feste sono considerate immorali, insieme alla musica “occidentale” e alle performance artistiche femminili. Eppure, in segreto, a porte chiuse a Teheran o fuori dai confini della capitale della Repubblica islamica, è ancora possibile fare festa e non c’è hijab o polizia morale che tenga.

Il documentario Comment faire la fête en Iran (disponibile su Arte.tv nella sezione Tracks) pone l’attenzione proprio su questo. Daphnée Denis e Léa Delon, le due registe, svelano che “a Teheran potresti fare la serata più figa della tua vita”, l’importante è non farlo sapere in giro. Gli iraniani e le iraniane, nei sottoscala dei condomini, sottovoce ma a musica altissima, festeggiano come in un locale di Berlino, con la differenza che l’alcool si compra al mercato nero e le ragazze hanno il velo per coprirsi le acconciature proibite. Poi, una volta dentro, si comincia a respirare aria di libertà: abiti scollati, tacchi, crop top. Così la festa diventa resistenza contro i dettami della Repubblica, una sorta di evasione, seppur momentanea, in cui tutto è concesso: perfino ballare le hit occidentali. Disobbedienza, in Iran, significa resistere e, quindi, fare festa. Poco male se in maniera illegale. Telegram coordina, le reti vpn mascherano, la musica lega, il ballo unisce. Le feste nell’underground iraniano sono estreme, non tanto diverse poi da ciò che si può trovare al Berghain o nella Soho londinese. 

L’Iran è un paese schizofrenico, ancora poco conosciuto nel suo lato più pop ma una riserva di molte e inaspettate sorprese. Teheran e dintorni sono impregnate di cultura: ad esempio, con più di trecento premi internazionali, il cinema iraniano è uno dei più seguiti al mondo, così come sta avvenendo una genuina riscoperta di interesse per l’arte contemporanea. Per non parlare della musica che affonda le proprie radici nel IV secolo d.C., nella Persia sassanide. In questi eventi underground non si recupera soltanto il passato, anzi. I ponti con il presente, alcuni, li sradicano per creare nuove forme artistiche, inedite in Occidente, figuriamoci a Teheran e dintorni. Disco Teheran ne è un esempio: un progetto multiculturale di feste e performance dal vivo, che collega idealmente la capitale iraniana con la città di New York all’epoca dei locali cosmopoliti degli anni ’70.

Una delle rappresentanti più in vista di queste feste clandestine è Nesa Azadikhah, dj e producer iraniana: «La repressione è sempre stata intorno a me e a tutte le artiste iraniane, può provenire dal governo ma anche dal mio ambiente, da parte dei colleghi uomini» ha detto in un’intervista a Il Manifesto. Ha iniziato a mixare all’età di sedici anni, adesso gira l’Europa con il progetto Deep House Teheran, di cui è cofondatrice. Grazie a questo portale, che mira a supportare e far conoscere la scena di musica elettronica locale, Nesa permette la diffusione attraverso programmi radiofonici, ascolti in anteprima e recensioni della musica che produce, abbattendo così l’apparente invalicabilità del muro di gomma imposto dal governo iraniano.

Nella vita senza limiti del mondo di sotto della capitale iraniana c’è spazio proprio per tutti: personalità forti come quella di Roody, rapper disinteressata ai dettami del regime. Lo fa sapere nelle sue canzoni, ci mette la faccia nei videoclip e sui social. Spesso si esibisce dietro le tende di case private: «So che la mia arte è vietata ma continuo a fare concerti in Iran. Questa è la mia resistenza al regime – dice in un’intervista al quotidiano Domani – ma allo stesso tempo mi sento male perché non posso farlo apertamente. È dura».

E poi c’è Sahar Dehghan, ballerina che ha lasciato l’Iran per continuare in libertà il suo lavoro tra Parigi e San Francisco. È una delle prime due donne nella Repubblica Islamica a danzare sufi, una tipologia tipicamente riservata agli uomini. “Non ho mai capito fino in fondo perché il ballare sia proibito. Penso sia perché possa portare un qualche tipo di cambiamento. Emozioni, ispirazioni, creatività e innovazione sono tutte tematiche pericolose in un regime”.

La ribellione, pertanto, parte dal corpo. Il ruolo svolto dalla corporeità, soprattutto femminile, per Sahar – e non solo – inizia dal tenere slegati i capelli. L’essenza della libertà è contenuta tutta qui: ripartire da una parte del corpo ed essere liberi di utilizzarla come più si vuole, senza impedimenti esterni. Un forte simbolo, allo stesso tempo, di libertà e forza.

Perché a Teheran si balla a ritmo di musica per sopravvivere.