Non è solo musica: intervista a Marika Lerario, project manager di Spring Attitude Festival

Dal trimestrale Numero 1 – Feste

Da quando aveva 16 anni, Marika Lerario lavora come organizzatrice di festival musicali. Oggi è project manajer dello Spring Attitude, un festival di due giorni che si svolge a settembre nella capitale. Abbiamo scambiato tre parole insieme a lei sulla sula professione.

Marika Lerario, classe 1996, lavora nell’organizzazione di festival musicali da quasi dieci anni. Partendo dalla puglia – oggi, una delle patrie dei festival che si svolgono in estate nello Stivale – è approdata a Roma nel 2018, collaborando con realtà ben radicate all’interno del panorama musicale romano, come il Monk e lo Spring Attitude. Dello Spring, ne è ora la project manajer. Ci sentiamo in videochiamata qualche settimana dopo la conclusione della tredicesima edizione di SA. Marika si trova nel bar della Città dell’Altra Economia, a Testaccio. Si scusa per il rumore e il vociferare delle persone che si sente dietro di lei: si trova lì per il Sabir festival, nel quale sta seguendo la parte artistica. Mentre si è presa una pausa dal suo lavoro, iniziamo a parlare proprio di questo e del suo percorso.

Vorrei partire dal tuo percorso: come sei arrivata qui e qual è, oggi, il tuo lavoro all’interno dell’organizzazione dei festival?

M: Ho iniziato a lavorare nei festival quando avevo 16 anni, facevo la volontaria negli eventi che si svolgevano nel mio paese, in Salento, tra feste studentesche e altre situazioni “dal basso”. Poi ho continuato a fare questo lavoro, occupandomi sempre di produzione o di booking di artisti. In Salento, io e altri ragazzi organizzavamo un festival rock che si chiamava «Sagra del diavolo», lavorando poi al Parco Gondar di Gallipoli e in diverse province. Mi sono poi laureata in comunicazione, continuando i miei studi con una magistrale in organizzazione e marketing, realizzando una tesi sperimentale nella progettazione ecosostenibile degli eventi e dei festival in Italia. Nel 2018, sono arrivata a Roma e ho iniziato a lavorare per Spring Attitude e per il Monk, di cui sono stata per tanti anni la responsabile dell’ufficio comunicazione. Per SA, invece, ho sempre curato la parte di produzione e da un po’ di anni ne sono la project manager: mi occupo della gestione generale del festival. SA è un festival abbastanza grande e affida la parte esecutiva, più tecnica, ad una agenzia esterna. Io sono un po’ il ponte tra le esigenze del festival e dell’agenzia. Oltre questo, seguo però anche tutte quelle attività che sono “extra-musicali”. Tra queste, vi è, ad esempio, il «Safer Corner», ossia uno spazio fisico all’interno del festival, nato per venire incontro alle diverse esigenze delle persone lo compongono (qui, sono presenti donnexstrada, il gay center, e i progetti Nautilus e Oltre il muro, che si occupano di riduzione del danno per l’assunzione di sostanze stupefacenti). Poi SA ha attività tutto l’anno: nel mio lavoro seguo quindi la vita del festival e tutte le attività a questo correlate.

Lavori in un team specifico o sei freelance?

M: Al momento lavoro come freelance. Il sogno è quello di avere qualcosa di mio prima o poi.

Come si articola il tuo lavoro all’interno di SA, da quando aprite i cancelli fino a quando li chiudete l’ultimo giorno?

M: Essendo la project manager sono un po’ il punto nevralgico all’interno del team. Siamo lì dall’inizio alla fine. In quei giorni ci occupiamo di mansioni che sono essenzialmente di tipo organizzativo-logistiche. C’è un gruppo organizzativo da cui dipendono poi a cascata tutte le decisioni.

Dal quadro che mi hai descritto, il tuo lavoro è un vero e proprio mosaico di tasselli che si intrecciano. Mi ha incuriosito la tua tesi di laurea. Nel concreto, come riesci a combinare l’organizzazione di un festival con i progetti ecosostenibili in cui ti sei specializzata?  

M: Con SA, abbiamo cercato di portare avanti il tema della sostenibilità con non poche difficoltà, perché, non avendo delle location sempre fisse, non è molto semplice mettere in atto una progettazione sostenibile. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo fatto una collaborazione con Zero CO2, che è una società che si occupa di compensazione, iniziando a piantare una piccola foresta SA: al momento abbiamo piantato 150 alberi. Quest’anno, poi, abbiamo messo le fontanelle dell’acqua: era quindi gratuita ed accessibile a tutti. Per quello che è possibile, cerchiamo di avere delle forniture che siano compostabili, che non ci sia plastica monouso e per l’anno prossimo contiamo di avere una fornitura di bicchieri riutilizzabili. Poi, io questo aspetto della sostenibilità ambientale lo porto avanti personalmente come consulente esterna, realizzando dei progetti per rendere i festival plastic free e mettendo in atto una serie di azioni importanti per il riutilizzo dei materiali. 

Quindi all’interno del festival c’è tutta una meta-gestione a cui provvedere.

M: Assolutamente. La mia visione generale è che avere solo un palco con gente che suona non vuol dire fare un festival, o si tratterebbe di una rassegna di concerti. Il festival è un’esperienza totale in cui noi, in quanto organizzatori, invitiamo delle persone ad entrare in uno spazio praticamente per tutto il giorno. Queste trascorrono molto tempo all’interno e devono essere messe nelle condizioni di poter stare in un luogo in cui, inevitabilmente, si hanno degli spazi visivi e sonori molto forti. È essenziale creare degli spazi di decompressione, dove una persona possa semplicemente fermarsi un attimo, se sente il bisogno di farlo. Un festival è un’esperienza totale, non è soltanto musica. Purtroppo, in Italia non c’è sempre molta sensibilità su questi temi. Paradossalmente ce n’è di più in quelle situazioni non autorizzate: questo è un tipo di approccio che molto spesso si può trovare in un centro sociale o in un rave, dove si presta spesso più attenzione a tutti questi aspetti paralleli della vivibilità di un festival. È chiaro che la programmazione artistica e le persone sul palco sono quelle che poi danno effettivamente l’essenza di un festival, ma una cosa non deve escludere l’altra. Quest’anno SA ha avuto una line up molto diversa da quella degli altri anni. L’anno scorso c’erano dei nomi molto più mainstream, come Peggy Gou o i Moderat, che attraggono moltissimo pubblico. Quest’anno, i nomi degli artisti sul palco erano molto più underground e di nicchia: è stato un po’ l’anno della conferma che le persone partecipano al festival perché gli piace l’esperienza e l’atmosfera. Gli spettatori sono stati più di 20mila. Questo dà anche la garanzia di avere una location di livello. L’anno prossimo, tra l’altro, cambierà: non saremo più a Cinecittà, ma in un posto che non posso ancora rivelare. Si tratterà, in ogni caso, di una location molto esclusiva su Roma, e questo dice molto su come il festival si sia evoluto.

Certo. SA si è fatto ormai una nomea importante e di garanzia. Il pubblico sa che lì troverà un certo tipo di spettacolo e di esperienza che è di alto livello e si distingue dal resto. Roma ha da sempre sofferto la mancanza di un vero e proprio festival immersivo per il grande pubblico. SA è riuscito a riempire parte di questo vuoto.

M: Sicuramente ci proviamo. Io sono entrata nell’organizzazione effettivamente nel 2019, che è stato l’anno in cui SA ha fatto, poi, il salto nel diventare quello che è adesso. Esiste, però, da quattordici anni, partendo dall’essere una festa molto piccola, organizzata da amici, dj, promoter e pr attivi su Roma, e diventando col tempo quello che è. Per me la cosa più bella di SA è la situazione che si crea. Quest’anno leggevo i commenti sotto ai post del festival o che mi sono arrivati in privato. Molti parlavano della sensazione di sentirsi liberi di non fare una sfilata. Che è un po’ la sensazione che si ha quando si partecipa ad un evento a Roma. C’è molta libertà e il modo in cui le persone vivono lo spazio all’interno di un festival è fondamentale. 

Diciamo che dietro SA c’è il lavoro di un anno e mezzo.

M: Si, esattamente. Noi adesso siamo già operativi sulla nuova location, mentre già da maggio il direttore artistico, Andrea Esu, era in contatto con le agenzie degli artisti che si esibiranno nel 2025. Il giorno dopo l’edizione del 2024 siamo stati già operativi su quella del 2025. 

E poi organizzate tutti gli eventi “appendice” intorno al festival vero e proprio.

M: Esatto. Possiamo chiamarli eventi “di avvicinamento” al festival. In media, ogni mese c’è un evento SA da qualche parte nella città.

È possibile ritrovare questa visione onnicomprensiva di un festival musicale, che si spalma su tutto l’anno e si dirama all’interno della città in esperienze molteplici e diverse, in qualche altra parte d’Italia o di Europa? Prendete ispirazione da qualche festival in particolare o questo tipo di organizzazione è una vostra cifra personale?

M: SA fa parte di una rete che si chiama Italia Music Festival, che riunisce quelli che vengono definiti i festival boutique. Io penso che il discorso sui festival in Italia debba esser ben distinto da quelli europei, perché proprio la formazione geografica e paesaggistica del nostro territorio non ci permette di fare i mega festival alla Glastonbury. C’è ora questo nuovo concetto di festival boutique, ossia di festival medio-piccoli (fino a 10mila persone), che si svolgono di solito in location molto particolari. Non in distese di cemento o di prato, ma in location inserite spesso in situazioni rurali o urbane. Il modello che seguiamo quindi è più o meno questo. Il problema è che SA si svolge all’interno della capitale d’Italia, che, comunque, ha delle dimensioni un po’ più grandi. Dal punto di vista artistico, invece, il nostro direttore Andrea Esu ha gli occhi a cuoricino per il Primavera Sound. La molteplicità dei palchi è una cosa che abbiamo ripreso da lì.

In effetti, a livello europeo ci sono dei festival mastodontici come il Primavera Sound. SA guarda un po’ a questi, consapevole, però, di quelli che sono veri e propri limiti strutturali della città che lo ospita.

M: Roma non è una città ancora pronta a raccogliere numeri molto grandi e il festival non è ancora pronto a sopperire alle mancanze che la città poi ha. Far venire 30-40mila persone ad un festival e non metterle nella possibilità di poter tornare a casa perché non ci sono i mezzi di trasporto pubblico è un problema. È lì che gli organizzatori si prendono spesso la responsabilità della situazione e iniziano a fornire navette gratuite: non ti nascondo che è un’opzione che abbiamo valutato quest’anno, ma non siamo ancora pronti a risolvere questo problema. Io sono, però, dell’idea che non dovrebbe mai essere un festival a risolvere questi problemi, perché stiamo parlando di cultura e di proposte artistiche per la città, che portano solo che bellezza e ritorno.

Secondo te quanto sostegno c’è da parte dello Stato nell’organizzazione di queste tipologie di eventi musicali?

M: C’è da dire anche che dopo il Covid c’è stato un forte risveglio in tutto il settore degli eventi dal vivo e dei festival e dei finanziamenti sono stati fatti. Noi abbiamo avuto la fortuna di essere stati assegnatari del FUS (il Fondo Unico per lo Spettacolo) nel 2021, che è un finanziamento molto corposo che ci ha permesso di fare degli investimenti e, in sostanza, di essere quello che siamo adesso. Sicuramente c’è stato un supporto positivo, ma mai equiparato a quelli che sono i finanziamenti per la musica classica. Se vai a vedere i fondi assegnati alla musica leggera, ossia noi, e quelli assegnati alle opere sinfoniche, i primi sono notevolmente inferiori ai secondi. È un’attenzione che stiamo ricevendo dopo il covid: i finanziamenti che abbiamo adesso, prima ce li potevamo anche sognare. Quelli di un tempo ci sembravano oro, ma, se ci penso, il supporto non è mai proporzionato al livello di ricchezza culturale, di heritage e di occasioni di socializzazione e comunità che crea un festival.

Un po’ penso che tu me lo abbia già detto, ma cos’è che rende speciale il tuo lavoro?

M: Io sono sempre più convinta che il motivo per cui faccio il mio lavoro siano le persone. Quando i cancelli di un festival si aprono, mi sento emozionata come se stessi aprendo le porte di casa mia. Faccio spesso questa cosa di mettermi vicino all’ingresso, magari mi accendo una sigaretta, e guardo le persone arrivare: come si guardano attorno e come sono curiose di vedere quello che abbiamo creato. È davvero appagante. Poi quando sei sotto al palco e vedi davanti a te la gente divertirsi ed essere felice è una cosa impagabile: alla fine sei un po’ tu che hai fatto in modo che loro fossero lì. Per questo poi ritengo che sia necessario che tutti riescano a sentirsi a loro agio nel festival. Tutto il tema di oggi sull’accessibilità…in Italia si guarda molto poco a questo. Ad esempio, alle persone con una disabilità. L’idea che ci sia una sola persona all’interno del concerto che io non metto in grado di partecipare ad un’esperienza alla quale altre persone stanno partecipando, per me, non ha senso. L’energia che sprigiona tutta quella gente, anche se sono cento persone, ma che stanno vibrando nella stessa musica, per me è tutto.