Quando zio Carmelo ritorna alla casa di famiglia, è sempre lui, in quanto figlio maggiore, a sedersi a capotavola, proprio là dove una volta si sedeva suo padre. Finge che sedersi a quel posto gli sia indifferente e che potrebbe sedersi da qualsiasi altra parte, e quando la tavola è apparecchiata e tutti si stanno per accomodare, raggiunge quella sedia che gli è così cara ed esordisce con una domanda a cui puntualmente nessuno risponde: «È questo il mio posto?» A volte capita anche che si spinga oltre nella sua pantomima e che insista affinché qualcun altro si sieda a quel posto: «Dai Nicola, siediti tu! No, davvero non voglio… Siedi, siedi! Mi offendo eh… Dai!» Ma da che ho memoria, da quando il nonno è morto, non ho visto sedersi a quel posto né zio Nicola, né nessun altro che non fosse lui. «Un brind… ehm, questo tavolo, lo dico che qui sono stretto!» Carmelo tenta di alzarsi, ma la pancia gonfia ed ovale come un’anguria urta il bordo del tavolo e il suo sedere ripiomba sulla sedia facendola scricchiolare. Carmelo sorride per l’imbarazzo, mostrando in un ghigno i pochi denti rimasti e gli spazi bui tra l’uno e l’altro, così che quel sorriso, per l’alternanza del bianco e del nero, sembra la tastiera sgangherata di un pianoforte. Il colorito rossastro e malsano si infiamma ancora di più, non solo sulle guance paffute, ma anche sul resto della faccia e perfino sopra la fronte, tra i pochi capelli bianchi e radi che sono rimasti. «Mangia, mangia!» sogghigna dall’altro capo del tavolo zia Rosalba, sua moglie, che non perde l’occasione per prendersi gioco di lui e ricordargli i suoi malanni. «Ancora una salsiccia che mangia», continua beffarda Rosalba rivolgendosi a noi nipoti, «e il vostro povero zio esploderà… Prende la pastiglia per il colesterolo e pensa di poter mangiare come un maiale a tutte le ore… eh Carmelo? È vero o no che ti ingozzi come un maiale? E il diabete? Perché vostro zio ha anche il diabete, di tipo due, non una cosa da ridere, ma il vino a tavola non manca mai, eh Carmelo?» Rosalba è una donna indiscreta e pungente, senza peli sulla lunga, e per questo anche alquanto divertente quando non si è i diritti interessati delle sue prese in giro. Tiene molto al suo aspetto, anche se si potrebbe dire, in tutta onestà, che l’impegno e il tempo che lei dedica alla cura di sé non sono all’altezza dei risultati sperati: mentre canzona il marito, il rossetto scarlatto sborda vistosamente sul labbro inferiore e anche se il caschetto nero è stato acconciato dal parrucchiere quella stessa mattina, e ora non fa altro che agitarlo con la mano affinché lo si noti, quello che più risalta, come al solito, è il suo naso grosso e rugoso. «Fatti gli affari tuoi, Rosalba!» Risponde Carmelo stizzito ma con il sorriso, assecondando il gioco della moglie e apprezzando in verità quell’irriverenza di cui, ormai mezzo secolo fa, si è innamorato. Carmelo si rialza in piedi, questa volta senza intoppi, prende in mano il calice ricolmo di vino e, dopo aver fatto un respiro profondo, lo alza davanti a sé. «Un brindisi, a nonna Gelinda!» Riempiamo tutti il bicchiere di vino e, portandolo in alto, recitiamo un “salute” all’unisono.
Nonna lo merita un brindisi, se non altro per la pazienza che ha portato con tutti quei figli, nove per l’esattezza o, meglio, dieci se si conta anche il marito, che andava accudito allo stesso modo. E quando è morto il marito sono subentrati i nipoti, e io le sono grato per tutte le volte che mi ha portato con lei a raccogliere le uova che le galline avevano covato durante la notte. Lo facevamo al mattino: lei mi portava al pollaio e mi teneva la mano perché sapeva che avevo paura di quella casetta di mattoni che mi sembrava dovesse caderci addosso da un momento all’altro; quando trovavamo le uova, cosa non sempre semplice perché le galline si divertivano a deporle sempre in luoghi diversi, lasciava che fossi io a raccoglierle e a metterle nel cesto di vimini; le toccavo con garbo, quasi con riverenza, perchè credevo che quelle uova non fossero di questo pianeta, ma che arrivassero dallo spazio, come i meteoriti; e comunque, quello che ancor più mi sembrava impossibile, era che sbucassero dal sedere di una gallina. Ma gli ultimi anni al pollaio non ci siamo più andati, perché io sono cresciuto e le galline ora non ci sono più. E poi la nonna aveva cominciato a dimenticare le cose, anche se a volte, ne sono sicuro, ci prendeva in giro. Capitava che non ci vedessimo per molto tempo, e quando ci rincontravamo mi chiedeva: «E tu? Chi sei?» Poi, subito, rideva. Allora io la mettevo alla prova e le rispondevo: «Secondo te chi sono?» e lei, sempre con il sorriso, poteva dire sghignazzando il mio nome, o guardarmi senza dire nulla, diventando seria d’un tratto, pensosa. Ma solo per qualche istante, e poi, guardandomi, sorrideva di nuovo. Di quando prendeva il caffè, invece, sono sicuro che si dimenticasse davvero, perché da che ne beveva uno o due al giorno, ha cominciato a berne a dismisura, e non tanto perché le piacesse o le facesse gola, ma solamente perché si era dimenticato di averlo già bevuto. Nei più disparati momenti della giornata mi chiedeva: «Lo beviamo un caffè?» e quando io le rispondevo: «No, nonna, l’abbiamo già bevuto il caffè…» lei sospirava, mi guardava assorta, e dopo qualche minuto mi chiedeva di nuovo: «Lo beviamo un caffè?» Quando ero in sua compagnia ero io o, meglio, era la sua famiglia, eravamo tutti noi i neuroni della sua memoria. Ma quando all’inizio non si capiva cosa le stesse accadendo, e quindi la si lasciava ancora da sola a fare le sue faccende, per qualche ragione, il caffè era sempre pronto.
La tavola è imbandita come si usa nelle occasioni speciali e a sedere, tra zii e nipoti, siamo una quindicina. Ora che ho quasi diciotto anni, sono io l’addetto a rifornire il vino nella cucina vecchia, perché zio Carmelo fa un ottimo vino rosso, e dall’anno scorso lo versa anche a me senza che io debba chiedere nulla. Ha una piccola vigna in campagna, a pochi chilometri dal paese, e, dopo la vendemmia, quando il vino ha finito di fermentare in grosse damigiane di vetro, travasa il tutto in una grande cisterna di acciaio con un piccolo rubinetto. Io, con la caraffa, faccio la spola tra la sala da pranzo e la cucina vecchia, e ho il compito di far sì che il vino, in tavola, non manchi mai. Oggi è difficile che rimanga seduto per più di qualche minuto: il vino va a ruba e credo sia perché tutti a tavola sentono un particolare bisogno di compagnia; e il vino, della compagnia, è il lubrificante per eccellenza. Zia Terenzia, aiutata dalle sorelle, fa il giro del tavolo con un grosso pentolone di ravioli con ricotta e spinaci, conditi con la salsa di pomodoro; li ha preparati lei la mattina stessa ed ogni volta che è lei a cucinare è una gioia per il palato. Ma se anche non lo fosse, non potremmo certo dirlo, perchè azzardarsi a darle un consiglio o farle notare un piccolo errore equivale ad una dichiarazione di guerra, ad un oltraggio imperdonabile, e Terenzia è sempre pronta per la battaglia. È una donna piccola e paffutella, con un grosso neo rigonfio sulla guancia e i capelli sempre raccolti in una coda di cavallo, e a vederla sembrerebbe una donna tenue e pacata, anche perché se la si asseconda e non si osa contraddirla sa essere premurosa come una madre con il proprio bambino.
«Mmm… l’impasto è buono…» sussurra Rosalba dopo aver assaggiato un raviolo. Terenzia, nel mentre, continua a fare il giro del tavolo con il pentolone sottobraccio e rimpingua gli ultimi piatti. «È equilibrato, e la salsa è delicata… ma…» Terenzia si blocca di colpo con il mestolo in mano e le lancia un’occhiata fulminante. «Ma la pasta non so… è troppo grossa. Si, è troppo grossa». «Ah, è troppo grossa?» tuona Terenzia, che per la stizza, nell’impiattare gli ultimi ravioli urta il piatto con il mestolo e fa schizzare ovunque la salsa di pomodoro. «Rosalba, se a te la pasta piace più grossa è una questione di gusti, ma mi dispiace dirti che la pasta si fa così, che a te piaccia o meno». «Ma non sto dicendo che sia cattiva, sto solo dicendo che è troppo grossa. Non serve mica che ti agiti, Terenzia!» Rosalba ritorna a guardare il suo piatto e riprende a mangiare, mentre sulle sue labbra compare un sorriso malizioso che cerca di nascondere; quel sorriso che indica la consapevolezza di aver acceso la miccia e ora non resta che aspettare l’esplosione. Rosalba, infatti, sa che le parole “non ti agitare” sortiscono esattamente l’effetto opposto, e infatti, riportando in cucina il pentolone, per l’ira innescata proprio da quelle parole, sbatte a terra i piedi con tanta energia che una ciabatta le si sfila dal piede e finisce sotto al divano. «Rosalba, se a me i tuoi ravioli piacessero», brontola tornando in sala da pranzo «ti chiederei la ricetta, ma non mi risulta di averlo mai fatto, o mi sbaglio?»
Carmelo, il cui colorito è sempre più rosso ora non più per gli affronti della moglie ma per gli innumerevoli bicchieri di vino, prende la caraffa e riempie fino all’orlo prima il mio bicchiere e poi anche il suo. «Nipotastro, lasciamole litigare queste donne, si divertono così!» E se lo zio è evidentemente intrattenuto dal battibeccare della moglie e della sorella – pur non avendolo auspicato, sia chiaro, non si può dire lo stesso degli altri zii seduti a tavola per cui quell’inutile bisticcio sta diventando fonte di generale imbarazzo. Ma nessuno, però, osa dire qualcosa e, a piccoli gruppi, ognuno continua a parlare, tentando così di estinguere quel dissidio con l’arma dell’indifferenza. Un’arma inutile, inefficace, e il battibecco continua, ora non più a riguardo dello spessore della pasta, ma di questioni comunque irrisorie, fino a che zia Vitalia, che è solitamente arrendevole e remissiva come un agnello, in preda ad un accesso di collera, sbotta furiosa: «Ora basta! Basta! Ricordatevi perché siamo qui! Non è una festa e non è tanto meno il luogo e il giorno giusto per litigare!» In tavola piomba il silenzio. Vitalia, pur non avendo con nonna un legame di sangue, è forse la persona che più è stata turbata dalla sua morte. Da quando è successo, tre giorni fa, è come se in parte fosse morta anche lei. È pallida come un cadavere, mangia a malapena, e le sue guance sono ancora più scavate del solito; le si sono spenti gli occhi, il suo sguardo è vuoto e sembra che le sue palpebre siano sempre a mezz’asta. Quando ha saputo che volevo essere presente al funerale mi ha chiamato per dirmi che “la nonna ora se n’è andata, è spirata”, e che non avrebbe avuto senso che io la vedessi così. «Non rovinarti il ricordo» ha aggiunto, «pensa a quando era viva, non ad adesso che non c’è più». Vitalia è una donna delicata e ho apprezzato la sua premura; sono certo che quelle parole fossero a fin di bene. Ero preoccupato, certo, non sapevo che effetto mi avrebbe fatto vedere la salma di mia nonna. Da quando ho saputo della sua morte, nella mia mente c’è stato un susseguirsi incessante di ricordi e di immagini che ripiombavano a una a una davanti agli occhi, fino al momento in cui l’ho finalmente vista. Quando sono entrato nella stanza in cui era stata allestita la camera ardente, la salma non era in una bara, ma stesa sul letto su delle lenzuola chiare; era vestita di nero, proprio con gli stessi vestiti che le ho sempre visto indossare, la sua solita camicia abbottonata, la gonna lunga, le calze, le scarpette, mentre i capelli grigi e lunghissimi erano acconciati in una treccia e raccolti in un elegante chignon. Aveva le mani incrociate e tra le dita era avvolto un rosario. Nella stanza soffiava un filo d’aria dalla porta che dava sul balconcino, lasciata socchiusa; quella leggera corrente aveva il duplice effetto di far oscillare dolcemente la tenda al ritmo delle folate di vento e di portare alle mie narici l’odore acre e pungente della morte. Un odore che ha avuto l’effetto di rivoltarmi lo stomaco e quietare il mio animo: in quella stanza, di mia nonna, non c’era più nulla. Vederla ha equivalso a seppellirla, e così, la necessità incontrollabile di riportare a galla i ricordi è di colpo svanita e ha lasciato spazio ad una quiete profonda. Credo che sia per questa ragione che Vitalia invece è così penosa, così inquieta: perché quei ricordi la tormentano e non le danno pace; perchè non è riuscita ad entrare e a vedere quel corpo e ancora non riesce a chiamare le cose con il loro nome: spirare, trapassare, dipartire… perché, quando mi parla della nonna, non riesce a dire che è morta?
«Tieni qua nipotastro, ancora un po’ di vino!» Carmelo, nonostante il pranzo sia quasi finito e sia ormai giunta l’ora della frutta, versa agli uomini intorno a sé ancora un bicchiere di vino. Poi, con aria solenne, si alza in piedi e, dopo aver attirato a sé l’attenzione, prende di nuovo la parola. «Noi sappiamo quanto mamma ci abbia voluto bene…» esordisce con fare pomposo, mal celando però l’evidente stato di ebbrezza. «Fin da che siamo bambini non ci è mai mancato nulla… abbiamo avuto una vita felice. Sì, una vita felice! È bello ritrovarsi qui, nella nostra casa, la casa di tutti noi, la casa in cui siamo cresciuti… un brindisi a Gelinda!» Carmelo fa un sorso, ma forse per la sincera commozione, forse per semplice errore, il vino gli va di traverso e, riuscendo giusto in tempo a coprirsi la bocca con un tovagliolo, comincia a tossire emettendo dei colpi così forti che per un attimo ho seriamente pensato che avesse bisogno di aiuto. Una volta ripresosi, dopo un bicchiere d’acqua – il primo, probabilmente, di quel giorno, Carmelo riprende il suo discorso: «Si, dicevo… Sì, ecco, la casa… Insomma, la nostra casa… Quello che voglio dire, e credo sarete tutti d’accordo, è che… Si, sarebbe d’accordo anche nonna Gelinda… Insomma, sarebbe ora di risistemare il bagno al piano di sopra.» Appena pronunciate queste parole, dall’altro capo del tavolo, Terenzia balza in piedi dalla sedia e indicandolo sconcertata con il braccio, urla in sua direzione: «Ma stai zitto e siediti! Ti sembra il momento di pensare al bagno? Scusatelo, è ubriaco…» Carmelo, che aveva già accusato il colpo per le beffe della moglie, ora disorientato per le imprecazioni della sorella, bofonchia qualcosa di incomprensibile e si risiede in silenzio al suo posto.
Vitalia, con l’aria assorta, si alza per andare in cucina a preparare il caffè. Provo una gran pena per lei, sembra che qualcuno le abbia risucchiato l’anima, così mi alzo a mia volta e la raggiungo in cucina per aiutarla. «Zia, hai già messo in tavola la zuccheriera?» le chiedo mentre la osservo mettere una grande moka sul fuoco. «No, fallo tu se ti va, ti ringrazio…» Dopo averla posizionata al centro del tavolo, ritorno in cucina. «Preferisci versarlo qua o direttamente a tavola? Eh, zia? Zia…» Vitalia fissa il vapore fuoriuscire dalla moka, sembra come inebetita e non mi risponde, rimane assorta nei suoi pensieri; le appoggio una mano sulla spalla e la scuoto con delicatezza, così che rinvenga. «Zia, tutto bene?» «La vuoi sapere una cosa?» mi chiede sottovoce, continuando a fissare il vapore con la testa china. «Nonna Gelinda è andata in cielo e io le ho dato un messaggio da portare a Dio. Le ho detto…» La voce le si spezza e Vitalia fatica a continuare per i sussulti che si stanno trasformando in un pianto. «Le ho detto di dirgli che, se non cura mio fratello, se non si riprende, se non guarisce, io a lui non so se ci crederò più. Non so più se riuscirò ad avere fede. Non lo so davvero… Non ce la faccio…» Vitalia mi afferra un braccio e lo stringe con forza mentre con l’altra mano cerca di coprirsi gli occhi e soffocare le lacrime. Sono paralizzato e non so cosa dire. Qualsiasi cosa mi venga in mente mi sembra sbagliata. E oltre a non saper cosa dire devo trattenere quel sorriso nervoso che compare nei momenti meno opportuni e che nasce, in questo caso, dall’immaginare la scenetta in cui nonna Gelinda, con il bastone e il passo stanco, varca le porte del paradiso per chiedere «Scusate, mi sapere dire dov’è Dio? Dovrei dirgli una cosa…» Ma non sono certo un mostro, e non sarò io a infrangere quell’unica speranza dicendole che l’intercessione di nonna Gelinda mi sembra alquanto inverosimile e che farebbe meglio ad accettare la realtà delle cose. Così le stringo il braccio a mia volta e resto in silenzio. Almeno ora ho capito cosa fosse a turbarla… E io, piuttosto, sarei capace di accettare la malattia e la morte di mio fratello? Certo aver visto la salma di mia nonna è stato un sollievo inaspettato; mi è sembrata una cosa così naturale, così necessaria… Ma se quello fosse stato il corpo giovane e forte di mio fratello, avrei provato lo stesso conforto? Vitalia, con un fazzoletto, si asciuga le lacrime e prende il vassoio argentato con le tazzine; io prendo la moka e un sottopentola. Il caffè è pronto in tavola.