Amico mio, credi forse anche tu che io sia impazzito? La mia ultima lettera non ha avuto risposta, ma non voglio credere che questo silenzio sia un muro che tu costruisci tra di noi. O forse sei stato esposto alle parole del “cotoletta” così a lungo che alla fine ti si sono infiltrate nel cervello, e ti sei fatto ammaliare anche tu dal fascino del muro? Quanto è bello innalzare una grande e grossa parete di cemento e restare così, nella sua ombra, a trastullarsi tutto il giorno! Ma tu non sei un idiota, amico mio, e tra di noi non ci sono mai stati né silenzi né muri. Te lo ricordi? Da ragazzi andavamo persino al cesso insieme, come le donne; tra di noi non c’era neppure il muro del gabinetto, e a momenti ci reggevamo il pisello a vicenda. È ricordando quei momenti che ti scrivo; non mi abbandonare ora che ho bisogno di te. Questa volta non serve che tu mi regga il pisello, basta solo che tu mi risponda e che mi aiuti a convincere Becca che il mio essere qui è spiegabile con la logica di Aristotele: con un altro governo del “cotoletta” o si è complici o non lo si è; è il principio di non contraddizione, cazzo! So che pensi che questa mia decisione sia pura follia, ma fidati di me: era la cosa giusta da fare. Avevo detto che avrei preparato la mia valigia e che me ne sarei andato, e io sono un uomo di parola, a differenza di quel bugiardo fetente che ha intortato tutti con le sue idiozie. Come può un uomo così abietto governarci per i prossimi quattro anni? O meglio, governarvi, perché io da quel bifolco non mi farò dire nemmeno di che colore mettere le mutande. Maledetto! Io ora rispondo solamente al mio nuovo sindaco, all’uomo che mi ha accolto in questo paese a braccia aperte. Si chiama Francesco, un uomo con le palle, due palle grosse così! E poi te l’ho detto che di cognome fa Columbu? Columbu, cazzo, come Columbia, da dove veniamo noi! Dimmi tu se questo non è un segno del destino, amico mio! Che trovata geniale che ha avuto, che arguzia, che critica sottile farci venire qui da lui, noi esuli del “cotoletta”. Lo capisce un uomo di Ollolai che con quella canaglia è meglio non avere nulla a che fare; come può non capirlo Becca, io davvero non me lo spiego. Le ho detto che il lavoro non è un problema, che posso lavorare da casa, e così potrebbe fare anche lei, ma non mi vuole stare a sentire. Ha cercato Ollolai sul web e quando le ho detto che ci saremmo potuti trasferire lì, che il sindaco dava le case gratis agli americani, pensava stessi scherzando. «Ollolai… ma è una parola vera o l’ha inventata qualcuno, per divertissement? Ma si amore, andiamo insieme a Ollolai, trallallero trallalà! Non vedevo l’ora di lasciarmi alle spalle la vita che ho costruito in questi trent’anni, il lavoro per cui ho sputato sangue, il prestito studentesco che sto ancora pagando, mia madre in casa di cura che piscia in un pannolone e mio padre con l’Alzheimer che non si ricorda nemmeno quante dita ha sulla mano. Ma che me ne frega, amore! Partiamo domani!» Insomma, mi ha riso in faccia. Ha smesso solo quando mi ha accompagnato all’aeroporto, solo lì ha capito che non stavo scherzando. Amico mio, negli ultimi tempi stavamo parlando di figli… Lei è la donna giusta, io la amo davvero, ma non posso permettere che i miei figli crescano nel reame del “cotoletta”. E a dire il vero, non è solo il “cotoletta” a spaventarmi, ma le persone; e intendo tutte le persone, tutti noi. Cosa siamo diventati? O siamo dei totali idioti, e in quel caso diamo corda a un miliardario che in campagna elettorale si veste da spazzino, serve le patatine al Mc Donald e ci racconta che gli immigrati haitiani mangiano chihuahua a colazione, oppure pensiamo di essere i più svegli della classe, i più fighi, i più intelligenti, e la nostra spocchia è così magniloquente che tutto ciò che non ci assomiglia ci disgusta, e finiamo per raccontarci delle storie, storie che piacciono solo a noi e che servono solo a noi, per trastullarci allegramente in compagnia. Se un uomo come il “cotoletta” è potuto diventare il nostro presidente siamo tutti responsabili. Ma io non posso sopportarlo, amico mio. L’America non è più casa mia, mi ha espulso come un germe infetto, e non ho avuto altra scelta che andare via. Ora sono uno di quei migranti che il “cotoletta” detesta fino al midollo. E ti dirò di più, amico mio. Da quando indosso gli inequivocabili stracci del migrante e ho deciso di macchiarmi dell’onta della partenza, il mio volto lo tormenta la notte. Sono il suo flagello, il suo castigo divino, perché come può il cuore del “cotoletta” sopportare che gli americani di cui lui si fa portavoce, americani come me, americani figli di illustrissimi americani, schiera instancabile di “eroi e di sognatori”, partano dall’America, lascino la loro amata terra e diventino odiosi migranti! Spregevoli e sudici migranti, proprio per colpa sua. Ma migrante, io, non lo ero già prima di partire? Migranti non lo siamo sempre stati, noi americani? Cos’erano i Padri Pellegrini che partirono dalla nebbia di Plymouth, se non migranti? Discendiamo da uomini e donne venuti dal grigiume inglese a bordo navi mercantili senza finestre e senza latrine; abbiamo nuotato nel nostro piscio e aperto i nostri polmoni al fetore dell’inferno; siamo sopravvissuti alla violenza dell’oceano per grazia divina. E io, come il più nostalgico dei reazionari, ho dato “nuovo lustro ad antiche tradizioni”: sono partito proprio come i Padri Pellegrini, ma ho percorso la rotta inversa, dal nuovo continente alla volta di quello vecchio. Certo non a bordo della Mayflower, ma poco importa, amico mio: io sono un migrante contemporaneo e ne sono fiero. Mi sento come uno di quegli eroi dell’epica antica, dell’Iliade o dell’Odissea, che trascorrevano decenni della loro vita in balia delle onde, sbattuti come polpi sugli scogli da un capo all’altro del Mediterraneo, fino a che trovavano una qualche terra disposta ad accoglierli. Una terra come Ollolai, amico mio, perché si dice che il nome che Becca canzona, “Ollolai”, derivi da Ilao, re di Tebe, che avrebbe fondato il paese dopo essere stato scacciato da un certo Ercole; insomma, il povero Ilao sarebbe stato costretto a una vita in esilio, proprio come il sottoscritto. E comunque, se “Ollolai” non deriva da Ilao, deriva da Iliesi, profughi troiani seguaci di Enea dirottati sull’isola da una tempesta. Così, amico mio, a ognuno la propria tempesta; a ognuno la propria terra. La tempesta del “cotoletta” mi ha condotto su questa terra e qui mi hanno accolto, io qui sento di poter essere felice. Certo, lo ammetto, come ogni esule in terra straniera, per usare una metafora all’italiana, sono una macchia di pomodoro sulla canottiera, ma in paese si stanno abituando alla mia presenza e io alla loro, ai bar, alla piazza… e anche alla casa. La casa, non te l’ho detto, non è certo una reggia. La offrono al prezzo simbolico di un euro, ma è una catapecchia, un rudere di sassi e calce che sta in piedi con lo sputo. I lavori per ristrutturarla dovrebbero partire già il mese prossimo, e nel mentre, certo, mi dovrò un po’adattare. Ma siamo o non siamo giovani, cazzo! È il principio di non contraddizione! Che sarà mai dormire qualche mese in un sacco a pelo. E poi ho comprato una stufetta a gas e qualche giorno fa ho ordinato una bombola da un alimentari, perché la Sardegna, amico mio, sarà pure un’isola baciata da un sole meraviglioso, ma qui a novembre fa un freddo porco! Me l’ha portata un vecchio sulla settantina, e vedessi che entrata in scena, con il suo motocarro a tre ruote. Un ometto piccolo, snello, ma con il portamento di un vero signore. E che eleganza il suo vestiario: pantalone grigio con la piega, camicia bianca abbottonata e giacca in lana monopetto. E la coppola in velluto: senza la coppola, qui, non si esce di casa. Con lui c’era il nipote, un ragazzone di vent’anni che lo aiuta a gestire il suo negozietto e che si è portato appresso perché parla un pochino d’inglese. Infatti è con il ragazzo che ho parlato, mentre il vecchio mi scrutava senza dire niente. E te lo confesso, io grande e grosso come sono ero impaurito da quel vecchio smilzo. Mi fissava, mi squadrava dall’alto in basso senza muovere un muscolo, appoggiato al suo motocarro con le braccia conserte. Sembrava imbalsamato, una cazzo di lince stecchita! Mi guardava e non mi toglieva quegli occhi da lince di dosso. Pensavo mi avesse sfidato a duello. Ero convinto che come in un vecchio film western, con un guizzo fulmineo, avrebbe estratto un grosso revolver dalla fondina e mi avrebbe sparato dritto alla fronte. Il ragazzo, invece, è stato una manna dal cielo. Per qualche ragione gli sono stato simpatico fin dal principio ed è già la terza sera che dopo cena vado con lui al bar, a bere qualche bicchiere di vino. Mi ha presentato i suoi amici e la prima cosa che mi hanno chiesto è stata: “come ti è passato per il cervello di trasferirti ad Ollolai? Sesi unu scimpru!” Ma io non lo so, amico mio… Io credo che qui potrei essere davvero felice. Mi dirai che sono un vigliacco, perché in fondo è come se fossi scappato, se non avessi avuto il coraggio di affrontare le conseguenze del “cotoletta” al potere. E hai ragione, amico mio, io sono un vigliacco. Ma sono un vigliacco felice, e tanto mi basta. Hai presente le nostre autostrade? Infinite distese di asfalto e di luci su cui scorrazzare veloce, senza guardarsi né a destra né a sinistra, circondato da migliaia di auto che sono lì con l’unico scopo di farti incazzare. Io ho messo la freccia, amico mio, io sono uscito da quell’inferno. Mi piacciono le mulattiere, la ghiaia, la polvere, così sono costretto ad andare piano. Mi piace il buio e mi piace il silenzio. E mi piacerebbe che Becca fosse qui, per salire insieme su un motocarro. Mi devi aiutare, lei tiene molto in considerazione la tua parola. Se lei venisse, sarei davvero la persona più felice del mondo. E vieni anche tu, amico mio, qui c’è spazio a volontà! Sono certo che non te ne pentiresti.