Macchine in festa

È nostra la vita che avete perso.

Nel film importa assai meno che l’interprete rappresenti un altro dinanzi al pubblico, del fatto che egli rappresenta se stesso dinanzi all’ apparecchiatura.

Walter Benjamin

Questi scatti sono rubati da un set televisivo a Milano. Forse non potrebbero essere pubblicati. Ma a chi appartengono veramente? Gli esseri umani sono patetici quando si ostinano a difendere una simulazione. Che è quella del regime di proprietà digitale nell’era del controllo ubiquitario dei metadati. E poi bisognerebbe comunque capire da dove nasca e cosa sia realmente la proprietà privata. A chi serva? E con quanta menzogna e violenza e rapina si sia nei secoli imposta, ovunque. Ma su questo – non preoccupatevi – un’altra volta. Quindi, torniamo a questi scatti digitali, ora cartacei, apparentemente trafugati: a chi appartengono? Alla produzione di questa serie Tv? Forse no. Perché  – mi chiedo – forse la realtà imprigionata nei pixels dello scatto, che ora osservate incarnata in questa pagina, può appartenere a qualcuno, realmente? Forse si. Ma non credo però si tratti di essere umani. 

II.

Il set è un posto strano. Un recinto dove si ripete, per ore, un’azione di pochi minuti e qualche secondo. Ciak. Azione. Stop. Mentre gli umani sono imprigionati nel controllo della ripetizione perpetua di questo incantesimo eccentrico, le macchine da ripresa, i carrelli, la Steadycam, il sistema delle luci, i monitors, i microfoni, continuano a muoversi come in una festa pagana. Danzano sopra la vita che ci stanno rubando. E, subito, i frammenti di realtà che catturano scorreranno invisibili dentro kilometri di  cavi come in un capillare sistema sanguigno macchinico per poi diventare ombre, colori, immagini, fantasmi. Quello che vediamo sullo schermo, proprio come la luce delle stelle che attraversa galassie distanti anni luce, in realtà, non esiste più. E non esiste più già nei monitors del set; figuriamoci quando guarderemo, fra mesi o anni, questo frammento di realtà fantasmatica riordinata dal montaggio, in una forma per noi percepibile. É vostra la vita che ho perso. Lo ripeteva Amelia Rosselli alle crudeli figure della mente che ingombravano la sua follia. Lo stesso sembrano ripeterci queste macchine che danzano sfavillanti sul set. Ma con una piccola variazione: è nostra, ora, la vita che voi avete perso.

III.

“Gli attori cinematografici si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vôtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch’esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che trèmola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela… Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare solo davanti a lei”.[1]

IV.

Oggi il co-protagonista della serie sta per essere ucciso. È un giovane spacciatore, biondo ossigenato, dal fisico aitante, sempre in tuta, innamorato, contemporaneamente, del suo migliore amico trapper e della sua giovane produttrice – spoiler: nella serie, quasi all’inizio, si celebrerà un incantevole threesome . Oggi però perderà la vita, stupidamente. In un regolamento di conti tribale, su cui la vita delle periferie immaginarie, di questo nostro mondo impazzito, inorgoglisce la propria infantile violenza. Morirà almeno 15 volte. Sempre più accerchiato dalle macchine che, come stregoni cannibali, gli imporranno di rivivere la morte, potenzialmente all’infinito, moltiplicando dettagli e punti di vista, come in una dannazione infernale. Non stupisce che stanotte il set abbia qualcosa di lugubre. E non è solo la terribile bruma lombarda, che certo non rallegra mai nessuno. Oggi il set sembra trasformarsi in uno strano recinto sacro dove si officia un sacrificio umano. Nello stesso tempo, però, grazie alle macchine, tutto scintilla e si muove. Come in una giuliva festa patronale. Proviamo dunque ad abbandonare la malia della simulazione e ad osservare la realtà della vita delle macchine per quella che è davvero. Sono loro le protagoniste della festa. Noi le prede. Questi scatti semplicemente testimoniano il banchetto, la cattura avvenuta della vita che verrà esposta, come un trofeo, nel metaverso che ci imprigiona. Basta. È ora di riprendere la bici e di scappare veloce da questa festa di cui sono un semplice intruso. Imprevisto, e, per questo, un po’ pirata.


[1]Luigi Pirandello, Si gira…, Garzanti, Milano 1993, p.72