Giovannino, che in paese è “Nino”, ha sempre avuto il vizio di scrivere. Scrive quando le cose vanno bene, scrive quando vanno male, e scrive anche quando, il 6 luglio del 1954, rivolge alla moglie la sua prima lettera dalla prigione: “Cara Ennia, […] il morale è sempre altissimo: la salute, al contrario, va piuttosto male. Ma la colpa non è del carcere: ciò dipende dal fatto che io, invece di nascere, ad esempio, nel 1918, sono nato nel 1908”. Una questione “fisica”, dunque. “Tu sai bene che quando mi fa male la testa o lo stomaco io riesco a guarire soltanto se posso sfogarmi rompendo l’anima a un notevole numero di persone. Ma qui, con chi posso sfogarmi? Non mi manca nessuna cura e ho tutte le specialità che mi possono occorrere. Il fatto è che ho il sangue in perpetua agitazione anche se io sono calmissimo”.
Durante i 409 giorni di galera, Giovannino Guareschi, padre letterario di Don Camillo e Peppone e all’epoca direttore del settimanale umoristico “Candido”, intrattiene una serie di corrispondenze con la famiglia, gli amici, i suoi affezionati lettori che gli scrivono da ogni parte d’Italia. Ventisettemila lettere e cartoline che il figlio Alberto, classe 1940, si incarica di leggere e pubblicare nel suo ultimo libro, “Caro Nino ti scrivo”, uscito a maggio dello scorso anno per Rizzoli.
Incontro Alberto a Casa Guareschi, a Roncole Verdi, provincia di Parma. Sono i primi di agosto ed è una splendida giornata di sole. Un caldo infernale. Una di quelle giornate in cui la Bassa Padana, dimenticata la nebbia e l’umidità petulante, si mostra verde e rigogliosa pur mantenendo il suo garbato silenzio.
Casa Guareschi è tante cose: mostra antologica, associazione culturale (Club dei Ventitré), centro studi e archivio. L’archivio si trova al pianterreno: Alberto Guareschi ha raccolto con cura maniacale le opere, i carteggi, le migliaia di vignette di suo padre. Pile di documenti e riviste sono incasellati ed etichettati con ordine sugli scaffali, disposti lungo le pareti. Mi mostra parte di quelle migliaia di lettere che entravano e uscivano dal carcere di San Francesco, a Parma, dove suo padre venne rinchiuso. Alberto maneggia quelle buste ingiallite con gesti misurati, facendole scorrere tra le mani.
«Guardi qui: in quel periodo gli scrisse Rino Albertarelli, l’illustratore di Tex Willer; e qui Junio Valerio Borghese, Domenico Fisichella, il regista Carmine Gallone. E poi Enzo Ferrari, Leo Longanesi, Don Carlo Gnocchi. Un plebiscito di affetto e di stima che gli è servito moltissimo per superare quel terribile impasse».
All’epoca lei aveva 14 anni, ricorda bene quei mesi? «Sì, sono cose che rimangono impresse. Anche se, per la verità, nè io nè mia sorella ne siamo usciti con traumi particolari, e di questo devo ringraziare mio padre e mia madre che non hanno mai drammatizzato la cosa. E poi la fortuna è stata che abitavamo qua, nella Bassa, dove la gente non viene giudicata in base al ceto sociale o alle idee politiche. Mio padre è sempre stato considerato e stimato da queste parti, nessuno ci ha mai fatto pesare il fatto che fossimo figli di un galeotto».
Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no
Ogni quadro che si rispetti ha bisogno della sua cornice. Il lettore mi perdonerà se, di tanto in tanto, con voli pindarici ci capiterà di sballottare avanti e indietro nel tempo, ma ciò è strettamente necessario al fine di capirci qualche cosa.
1954, dicevamo. Un anno che, almeno politicamente, parte male: il 12 gennaio cade il governo guidato da Giuseppe Pella. “Una crisi speciale, nuova per queste scene” – scrive Guareschi – […] una crisi veramente straordinaria perchè il governo del democristiano Pella è stato messo in crisi fuori dal Parlamento, e non dal parlamento, ma dalla DC”. […] Ciò che è accaduto è, per tutti noi cittadini normali e non politicanti di professione, qualcosa di vergognoso, di inconcepibile. Un partito, per semplici interessi di partito, manda all’aria un governo, getta il Paese in crisi senza pensarci sopra un sol minuto. Senza neppur preoccuparsi se sarà possibile, e come sarà possibile, mettere assieme un altro governo che riesca a funzionare”. Già.
Guareschi prosegue: “La crisi si chiama De Gasperi: il quale non poteva tollerare l’esistenza di un governo funzionante tipo quello di Pella perché egli desidera al contrario dimostrare al Paese che senza De Gasperi non si riesce a governare”.
Caro Alberto, le devo confessare che qualcosa non mi torna: suo padre si è speso molto, nei primissimi anni della Repubblica, a sostegno della Democrazia Cristiana. Basti ricordare quel memorabile manifesto confezionato per le elezioni del ‘48: “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”. Poi, a un certo punto, è passato alle critiche feroci, sia del partito che di De Gasperi. Mi spiega che è successo?
«De Gasperi nel ‘46 è stato l’uomo giusto al momento giusto. L’Italia stava con le pezze al sedere e lui giustamente andò a bussare denaro negli Stati Uniti. Ed è stato l’uomo giusto per combattere il fronte democratico popolare nel ‘48. Poi le cose sono cambiate». Cioè? «Nel ‘52 mio padre venne invitato come giornalista a Cortemaggiore, per l’inaugurazione del metanodotto e la centrale termica di Tavazzano. De Gasperi fece chiamare mio padre al suo tavolo. Era incavolatissimo: a Napoli aveva vinto le elezioni il partito monarchico di Lauro e il Candido aveva parlato bene di questo risultato. De Gasperi disse a mio padre: “La stampa di destra ha esaurito la sua funzione e io farò di tutto per ostacolarla”. Da quel momento, mio padre cominciò ad attaccarlo». E poi? «Poi gli sono capitate le due famose lettere. E il resto è storia».
Il “ta-pum” del cecchino
A fine gennaio 1954, Guareschi pubblica sul Candido due lettere risalenti al 1944, firmate da Alcide De Gasperi, all’epoca rifugiato in Vaticano. Le missive, indirizzate al generale britannico Harold Alexander, chiedono agli Alleati di bombardare alcune aree strategiche di Roma per spingere la popolazione all’insurrezione contro nazisti e fascisti: “Ci è purtuttavia doloroso, ma necessario, insistere nuovamente, affinché la popolazione romana si decida ad insorgere al nostro fianco, che non devono essere risparmiate azioni di bombardamento nella zona periferica della città nonché sugli obiettivi militari segnalati”.
A corredo delle lettere, autentiche secondo il parere del perito calligrafico Umberto Focaccia, Guareschi tuona: “Niente di davvero straordinario. Nella storia della resistenza si può trovare materiale assai più interessante e significativo. Ma, agli effetti della nostra tesi, ha il suo valore. Quando, infatti, noi definiamo De Gasperi un politicante spietato, non ci basiamo su nostre personali impressioni. E quando diciamo che De Gasperi è un uomo che non si ferma davanti a nessuno e a niente, ci basiamo su qualcosa di concreto. […] Freddo, spietato, privo di ogni scrupolo, feroce se occorre” – affonda Guareschi – “De Gasperi è in questo particolare momento l’uomo più pericoloso che l’Italia possa avere alle costole”.
Nei primi giorni di febbraio, De Gasperi decide di querelare Guareschi. La giustizia si attiva, si avviano udienze, rinvii e, come spesso accade quando le parole pesano come macigni, la bilancia si inclina. In sede processuale, Guareschi presenta al Tribunale le lettere insieme alla perizia calligrafica, che però viene ignorata. Gli viene oltretutto negata l’ampia facoltà di prova: nessuna nuova perizia, nessun testimone ammesso. Il 15 aprile, dopo una serie di udienze che sembrano attraversare le pieghe di un teatro dell’assurdo, il verdetto arriva: dodici mesi di carcere per diffamazione a mezzo stampa.
A questo punto, qualcuno potrebbe alzarsi in piedi e urlare che Don Camillo, se potesse, suonerebbe le campane a morto per la giustizia. E il Cristo dall’altar maggiore, di sicuro, avrebbe qualcosa da ridire su certe sentenze. Ma le cose stanno così: De Gasperi ha giurato che le lettere sono false, e la giustizia ha deciso che “una semplice affermazione del perito non avrebbe potuto far diventare credibile e certo ciò che obiettivamente è risultato impossibile e inverosimile“. Impossibile? Inverosimile?
Mi perdoni, Alberto, mi faccia capire: praticamente suo padre è stato condannato sulla parola di De Gasperi? «Esattamente. Il bello è che si sono appoggiati al suo (di De Gasperi) “luminoso alibi morale”, come se mio padre non avesse un altrettanto luminoso alibi morale. Ma una domanda sorge spontanea: se la perizia fosse stata concessa, e il perito grafico avesse stabilito che le lettere erano autentiche, a chi avremmo voluto credere? Al perito o a De Gasperi?».
Perchè suo padre non fece ricorso? «Mio padre subisce il verdetto ma non riconosce la validità del procedimento giudiziario. Ed essendo una persona coerente, non usa l’arma di difesa che la giustizia stessa gli fornisce».
Scrive infatti Guareschi sul Candido del 24 aprile 1954: “Se il tuo nemico ti sputa in faccia, non puoi ricorrere in Appello per ottenere che ti ripulisca la faccia col fazzoletto. […] Invece di un anno, due anni potevano darmi: ma dopo aver dimostrato che si era tenuto conto della possibilità che io fossi un comune onesto uomo sdrucciolato nel baratro della disonestà. Mi hanno invece trattato come un delinquente incapace di compiere una azione onesta. Non perché avessi ammazzato mia mamma a colpi di scure, ma perché avevo tentato di offendere De Gasperi. Non hanno neanche voluto ammettere che io possa essere un povero cretino: mi hanno accusato d’essere intelligente, di avere agito a ragion veduta, con malafede nera. Mi hanno negato ogni prova che potesse servire a dimostrare che io non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato”.
A nulla serve, si fa per dire, l’appello lanciato in quei giorni dal Secolo d’Italia, quotidiano del MSI: 200 mila firme raccolte per “pronunciarsi contro il carcere a Guareschi”. Giovannino ringrazia a modo suo: “L’iniziativa del “Secolo d’Italia” non è stata da me sollecitata e perciò è stata da me accolta con infinita gratitudine. “Guareschi non deve andare in galera”: il mio parere in proposito è esattamente il contrario: “Guareschi deve andare in galera e ci andrà”.
Caro Nino ti scrivo
“Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo richiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, con un passato e un avvenire”.
Giovannino Guareschi scrive queste parole nel 1943. Per due anni, fino all’aprile del 1945, conosce la prigionia nei Lager nazisti, conseguenza del suo rifiuto di aderire alla neonata Repubblica Sociale Italiana. Il Lager lo ricorda bene, Giovannino. Tanto che, dieci anni dopo, rinchiuso nel carcere di San Francesco a Parma, riconosce in quelle mura e in quella condizione qualcosa di familiare: “[…] Ve l’avevo detto: ho ritrovato lo spirito del Lager. Come allora, anche adesso io mi persuado che ho perso la guerra, che debbo pagare e poi ricominciare tutto da capo. I lettori continuano a scrivermi. Io vorrei ringraziarli e inviare ad essi il mio più affettuoso augurio”.
E i suoi lettori gli scrivono in continuazione, vagonate di lettere, tra le più disparate, che Giovannino conserva gelosamente in pacchetti avvolti in fogli di giornale.
“Il mio, oltre a un augurio, vuole essere anche un ringraziamento per quello che lei ha fatto per me nei tempi andati”- gli scrive Guglielmo De A. da Genova – “[…] cominciai a leggere il suo “Candido” nel 1946, all’epoca del Referendum e da allora la ho considerata come il mio migliore amico, come un fratello maggiore che indica la strada e non delude…”.
Vera M. gli scrive da Milano: “Nel pantano in cui viviamo viene spontaneo ringraziare chi è pulito, come se fosse un merito e non una dote intrinseca. Il suo merito tuttavia comincia quando lei entra con passo spedito in carcere, per affermare le sue qualità di galantuomo…”
“Ho seguito la sua vicenda, sperando invano in un atto di umanità.” – gli scrive un ex Internato Militare Italiano, Alfredo V. di Firenze – “Le sono vicino col cuore ed a tutti i personaggi creati dalla sua intelligenza e dalla sua fantasia. Siamo ancora tutti insieme come nel Lager, ci senta tutti vicini al suo cuore…”.
Guareschi intanto viene sostituito alla direzione del Candido. In carcere non può scrivere per il suo giornale né può leggerlo. Angelo Rizzoli, l’editore, lo tranquillizza con una lettera: “Il grosso patrimonio spirituale che il giornale ha accumulato non può andare disperso nel giro di pochi mesi. […] Quindi qui le cose procedono nel miglior modo possibile e vorrei proprio che le mie assicurazioni valessero a darle un po’ di tranquillità”.
Con la moglie Ennia, la “Vedova Provvisoria”, Guareschi intrattiene una lunga corrispondenza, dal giugno del ‘54 al luglio del ‘55. Lo scambio epistolare con la moglie è franco, diretto, senza giri di parole. E’ uno scambio di vedute, frammenti di quotidianità, pensieri premurosi. Guareschi, altalenante nell’umore, non perde il suo tocco: “La politica mi fa sempre più nausea e oggi io leggo i giornali con crescente disgusto. E ogni giorno di più m’accorgo come sia vana, inutile cosa lottare da galantuomini contro la canaglia organizzata. 8 settembre 1943 – 26 maggio 1954: la mia carriera di giornalista politico è incominciata onorevolmente in un Lager tedesco ed è onorevolmente finita in una galera italiana. Questo lo puoi fare scrivere sulla facciata della nostra casa. Intanto, su queste storie, chi ci guadagna? Tu! Perché, a forza di avere la tua foto sui giornali, finirà che troverai marito”.
Alla notizia della morte improvvisa di De Gasperi, il 19 agosto 1954, Guareschi taglia corto: “Io non polemizzo con i Morti”.
Scriverà, tre anni dopo, sulle pagine del giornale: “Non voglio rivangare vecchie storie che sono diventate polvere di tribunale e di galera: Dio sa come effettivamente sono andate le cose e questo mi tranquillizza in pieno. Né voglio rivedere posizioni che non possono essere mutate in quanto assunte per solo suggerimento della coscienza. Voglio soltanto rendere omaggio alla verità e riconoscere che, al confronto dei campioni politici d’oggi, De Gasperi era un gigante”.
E alla fine, cosa resta?
Guareschi esce dal carcere il 4 luglio 1954, tornando a dirigere il Candido. Rimane in libertà vigilata fino al 26 gennaio 1956. L’anno successivo, proprio di fianco alla casa natale di Giuseppe Verdi, apre un caffè. Poi un ristorante. E alla fine, cosa resta? Resta Giovannino, che in paese è sempre “Nino”, e resta la sua parola, appuntata su fogli ingialliti, vergata su buste sgualcite, raccontata ai figli e alla gente che gli ha voluto bene. Resta la sua terra, la Bassa, con le sue nebbie e i suoi silenzi, con il grande fiume che scorre senza fretta e il vento che porta l’eco di campane lontane. Restano Don Camillo e Peppone, che continueranno a litigare e a capirsi, come solo la gente di quello stampo sa fare. Restano le lettere, migliaia di voci che raccontano un’Italia genuina, feroce, appassionata, capace di indignarsi e di amare con eguale intensità. Restano le radici, quelle vere, che non sono né ideologie né nostalgie, ma un modo di stare al mondo: con la schiena dritta, con la coerenza di chi sa che “per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione”.