Life ain’t always empty

Cosa hanno in comune la malinconia delle session tradizionali irlandesi e l’energia sovversiva del post-punk? Siamo stati a Dublino, una città che custodisce il segreto di questa connessione, tra pub storici, periferie in fermento e una scena musicale che non smette di sorprendere.

La città è lo scenario, le band un cast di personaggi in continua evoluzione.
Dublino respira musica dall’alba alla notte. I pub sono i luoghi di riferimento in cui non solo i gruppi si esibiscono, ma si creano anche fitte reti di connessioni tra persone. Il Temple Bar, ormai eccessivamente turistico, ha lasciato spazio al caratteristico Foggy Dew, al colorato Lotts, al vissuto Liberty Belle e al resiliente Cobblestone. Questi sono soltanto alcuni dei locali che hanno mantenuto quelle radici di irishness che permeano tutta la capitale e i dintorni dell’Irlanda. In questo terreno fertile, band come i Fontaines D.C., i Gurriers, i Murder Capital, Gilla Band e i Kneecap hanno deciso di declinare in modo differente le loro sensazioni sull’Irlanda, rendendola anche un po’ patrimonio dei fan oltremanica. Come hanno fatto? Parlando di eroi, fantasmi, morti, sangue e povertà. La storia dell’Irlanda è permeata di violenza e incanalare questa rabbia in musica non è stato facile. Lo sanno bene i Fontaines D.C. che con A Hero’s Death, il loro secondo album, hanno ragionato attorno ad un concept che avesse come ispirazione The Hostage, l’opera teatrale del drammaturgo irlandese Brendan Behan. Ne hanno consapevolezza anche i Murder Capital che, con la loro spiccata propensione verso il post-punk hardcore, hanno sintetizzato l’amore per la loro terra in una versione più romantica, eterea e sofferta rispetto ad altri gruppi simili. I Gurriers e Gilla Band, due band meno conosciute, stanno vivendo sulla loro pelle la gentrificazione più sfrenata del loro Paese e cantano brani di protesta. Così come anti-sistema sono i Kneecap, terzetto hip-hop nordirlandese che spinge per la riunificazione con i cugini del sud. Basta una passeggiata nel centro di Dublino, tra i quartieri di Stoneybatter e Rialto separate dal fiume Liffey, che si cominciano ad incontrare i primi manifesti del prossimo concerto dei Kneecap in programma a Dublino per il prossimo dicembre. È una città in continuo fermento, che vive per la musica.

Perché l’unica soluzione per i giovani dublinesi appare sempre più quella di gridare al microfono e far esaltare il pubblico con un muro di suoni, facendo venire fuori la rabbia dalle persone. In particolare, il punk nasce sempre dove c’è aggressività, frustrazione, rivolta contro il potere costituito. E, allora, il post-punk cerca di andare oltre. I Love You dei Fontaines D.C. sintetizza alla perfezione questo sentimento: “And I’m heading for the cokeys, I will tell ‘em ‘bout it all/About the gall of Fine Gael and the fail of Fianna Fáil/And now the flowers read like broadsheets, every young man wants to die” (“E sto andando a bere, gli racconterò tutto/Della sfacciataggine del Fine Gael e del fallimento del Fianna Fáil/E adesso i fiori si leggono come fogli di giornale, ogni giovane vuole morire”). I due partiti principali del Parlamento irlandese, il Fine Gael e il Fianna Fáil, sono messi alla berlina dal cantante Grian Chatten. I giovani non hanno più futuro, vogliono andare via dalla capitale, ma nonostante tutto l’amore incondizionato per la propria città prende il sopravvento. Il risultato è questa dicotomia in cui partire dalla propria città natale fa male, malissimo ma forse è l’unica via necessaria per tentare di avere un futuro. Il lamento funebre dei Fontaines con I Love You è ancora più forte in In ár gCroíthe go deo, carica di frustrazione per Dublino, una città dalle tante anime e controversie. Le stesse problematiche che affliggono la città rappata dai Kneecap che in C.E.A.R.T.A. rivendicano le proprie radici cantando direttamente in gaelico: “C.E.A.R.T.A./Is cuma liom sa foc faoi aon gharda/Dúidín lasta, tá mise ró-ghasta/Ní fheicfidh tú mise i mo sheasamh ró-fhada” (“Diritti/Non me ne frega un cazzo di nessuna forza dell’ordine/Sono troppo veloce/Non mi vedrete stare in piedi a lungo”). In questo caso il focus è Belfast ma i disagi sono comuni.

Molti di questi gruppi sono andati via da Dublino. «In termini di costi è sempre più una città invivibile». Ce lo confessa Tomás Mulligan, andatura dinoccolata, al collo una sciarpa della Palestina e riccioli biondi che scendono gentili sulle spalle. È il proprietario del Cobblestone Pub che sta vivendo una crisi degli spazi proprio sulla sua pelle. Il locale è costantemente nell’occhio del ciclone per via di una multinazionale di investimenti inglese che vorrebbe chiudere il pub e costruire al suo posto un hotel di 14 piani. 

In tempi difficili, quando le cose vanno male, le persone tendono a dedicarsi all’arte. E al suo rinnovamento. Giovani, irrequieti e affamati di giustizia, è questo che sono in sostanza i gruppi post-punk irlandesi. La crisi di Tomás con il suo pub non è che un esempio delle frustrazioni immobiliari di una città piena di cultura e arte ma che non sa uscire fuori da una crisi immobiliare senza pari. E quindi si tende a cantare come forma ultima di denuncia, di protesta, contro quell’Irlanda ipocrita che preferisce starsene in silenzio piuttosto che combattere. Andare oltre il piccolo mondo, quello circondato dalle enclosures, che fanno mancare il respiro. 

Si ansima anche la prima volta che si entra dentro il Kilmainham Gaol. Il silenzio è pesante. Il freddo dell’architettura georgiana, dalle pareti grigie di pietra e dalle celle anguste, accoglie i visitatori che oggi attraversano gli spazi del carcere adibito a museo. Qui dove alcuni tra i leader della lotta per l’indipendenza irlandese, da Robert Emmet a James Connoly, fino ai protagonisti del famoso Easter Rising del 1916, furono rinchiusi e giustiziati: “Un luogo pieno di fantasmi ed eroi”, i cui nomi si leggono ancora sulle pareti delle celle. Da Joseph Plunkett a Grace Gifford, uniti in matrimonio sette ore prima dell’esecuzione di quest’ultimo, un rivoluzionario irlandese. O ancora Éamon de Valera, poi divenuto primo ministro e presidente della Repubblica di Irlanda. Per i Fontaines D.C. quel luogo di memoria storica diventa il punto d’incontro tra la resistenza irlandese del passato e la ribellione musicale del presente. 

Nel live show registrato tra le mura del carcere nel 2020, da cui è stato prodotto il documentario Netflix “Other Voices – Fontaines D.C.”, la band post-punk celebra l’eco di un passato rivoluzionario spesso rievocato in A Hero’s Death. Nella copertina dell’album, la statua di Cu Chulainn scolpita da Oliver Sheppard, voluta dallo stesso Éamon de Valera in commemorazione degli eroi irlandesi della Easter Rising. L’esecuzione di brani iconici come I Don’t Belong e Dublin City Sky sembra celebrare una narrazione di continuità tra la storia del Kilmainham Gaol e la musica dei Fontaines D.C. La telecamera segue i membri della band mentre si muovono al centro del panopticon, dalla cui ala principale si possono osservare le novantasei celle che si sviluppano in altezza.

“If we give ourselves to every breath/Then we’re all in the running for a hero’s death” (“Se ci concediamo ad ogni respiro, siamo tutti in lizza per una morte da eroe”), canta la voce ruvida di Grian Chatten, frontman della band, sulle note della canzone che dà il titolo all’album. Emblema della celebrazione dell’Irlanda e delle sue radici, nei corridoi di Kilmainham Gaol, in uno spazio dove si racconta la complessità storica e culturale del Paese. 

In Irlanda la musica è un linguaggio, è un mezzo di racconto delle tradizioni del passato e delle celebrazioni del presente. Nelle session dei pub dublinesi si esibiscono artisti da diverse parti del mondo, tutti attorno allo stesso tavolo di legno grezzo, in cui le melodie accompagnano i brusii di sottofondo e i tintinnii delle pinte di Guinness. Da quella tradizionale della uilleann pipe (la cornamusa irlandese) a quella post-punk, la musica irlandese ha oltrepassato i confini dell’isola ed è diventata “lingua di tutti”, come ci racconta Marino Porcari, musicista italiano trapiantato a Dublino. I luoghi dove incontrarsi e fare musica, però, sono sempre più rari: in Irlanda 144 pub ogni anno hanno chiuso i battenti tra il 2019 e il 2023. 

“Oggi i giovani irlandesi bevono sempre meno, o bevono birra alcool free”, racconta Maurizio Pittau, giornalista di Radio Dublino che si è trasferito nella capitale dal 2012. Sul bancone del Cobblestone, uno dei pub più emblematici della tradizione dublinese, due spine portano il logo “Guinness 0.0”. Un ragazzo ordina tre pinte senza alcool e raggiunge i suoi amici al tavolo. Dalla pandemia in poi, le abitudini degli irlandesi sono cambiate, con ripercussioni evidenti sulla sopravvivenza dei pub. Cuore pulsante delle comunità delle grandi città o dei villaggi sperduti nell’entroterra, da sempre spazi di incontro e di scambio, stanno lasciando lo spazio a nuovi locali, progettati più per attrarre i turisti che per celebrare le tradizioni irlandesi. Alle melodie delle uilleann pipe, dei violini, dei tin whistle (flauti a fischietto) e del bodhrán (il tamburo a cornice), si preferiscono versioni semplificate delle canzoni tradizionali, con arrangiamenti moderni che strizzano l’occhio al mercato internazionale. Una merce da consumare insieme a birra e souvenir, in una visione del paese edulcorata e stereotipata. 

Nei villaggi lontani dalle grandi città, l’effetto è amplificato: “Il pub è il luogo in cui famiglie, bambini, anziani si ritrovano. Nei piccoli villaggi irlandesi è spesso l’unico centro di aggregazione esistente”, ci racconta Maurizio Pittau. Sempre più serrande abbassate, da Dublino a Galway, fino alle contee più sperdute. Non si tratta solo di un cambiamento nelle abitudini sociali, ma di una trasformazione profonda nell’identità culturale di un popolo. Eppure, anche nel mezzo di questa metamorfosi, non tutto è perduto. La passione per la musica tradizionale è ancora viva, pronta a riaffiorare nei pub, negli angoli delle strade, nelle case irlandesi e oltre confine. Conservando l’essenza del legame profondo con la terra e con la cultura dell’isola. La memoria della musica irlandese si nasconde, silenziosa, pronta a riaffiorare in ogni angolo dove c’è qualcuno disposto ad ascoltarla.